Si può fare
Vita Cosentino
5 Dicembre 2016
Sono d’accordo con la lettura del presente di Lia Cigarini, soprattutto quando sostiene che “l’attuale contesto di presenza pubblica femminile dia molte opportunità al nostro pensiero e alla nostra pratica politica” e che il protagonismo di donne “spinge ai margini le militanti politiche che insistono sulla discriminazione e la rivendicazione di uguaglianza con l’universo maschile”.
Per questo voglio interloquire con i nodi problematici sollevati da Giordana Masotto nella sua relazione. Giordana fa un bilancio della sua vita lavorativa che si può sintetizzare nel dire che, perché il mondo cambi, “non è sufficiente starci alla propria misura”. Dico subito che per una donna stare nel mondo con una misura propria, non è cosa da poco. È il passo grande, l’elemento dinamico imprescindibile. Finché si sta come deportate alle misure maschili, non comincia nessun cambiamento. Ma non basta – dice – e io sono d’accordo con lei. Per quanto so dalla mia esperienza di vita e di lavoro, non basta perché ci vuole un’intenzionalità politica esplicita.
Giordana ci avverte che “ci sono contiguità forti tra la nascita della soggettività delle donne e la trasformazione individualista, autoimprenditoriale, consumista che caratterizza il tempo presente”. Sempre in agguato il rischio di essere assimilate, risucchiate e che tutto si disperda nel nulla. Anche io ci penso da tempo, colpita come lei dalle discussioni fatte in libreria attorno alle analisi contenute in Femminismo e neoliberalismo (a cura di Tristana Dini e Stefania Tarantino, Natan Edizioni 2014). Per me ciò che non può essere assimilato, reso funzionale ai meccanismi neoliberisti è la coscienza: di essere donna e della propria presenza di donna nel mondo. Il passo in più è quello contenuto nelle parole della Lispector, che la stessa Giordana ci ripropone, sentendo che lì c’è qualcosa di prezioso per l’oggi: “Se progredisco nelle mie frammentarie visioni, il mondo intero dovrà trasformarsi perché io possa esservi inclusa”.
È un livello di coscienza più allargato che crea un orizzonte grande in cui ciascuna donna si può collocare e che può anche ispirare l’agire contestuale: tutto il mondo della scuola dovrà trasformarsi perché io insegnante possa esservi inclusa; tutto il mondo della magistratura, come ci racconta La Giudice (Paola Di Nicola, Ghena 2012); tutto il mondo della salute se sei una paziente, come sono io, o una curante, come testimoniano per esempio le pubblicazioni di Metis. E così via.
La consapevolezza tiene aperta e viva la dismisura tra il poco che posso fare oggi e l’aspirazione grande al cambiamento. Un esempio. Noi insegnanti della differenza siamo state le prime a portare nella scuola soggettività e relazione, quando si parlava solo di programmazione e di tecnologie didattiche. A decenni di distanza tutti parlano di relazione, compare anche nelle ultime riforme, ma inserita in meccanismi perversi che la distorcono. Però è sempre possibile che un’insegnante si sottragga ai meccanismi imposti, la pratichi nella sua classe e con le sue colleghe e i suoi colleghi, la espliciti, la racconti politicamente. Questo apre e tiene aperto uno spazio di libertà non assimilabile.
Quando io, riflettendo assieme a Giannina Longobardi per scrivere La scuola sregolata, ho preso coscienza che “tutto il mondo della scuola dovrà trasformarsi perché io possa esservi inclusa”, mi sono trovata in un ancora più grande bisogno di politica, perché nessuna a questo livello può farcela da sola. Hai necessità di altre e altri con cui condividere, hai necessità di elaborare modi di stare tra differenti, di praticare forme politiche nuove. Da questa spinta interiore è nata l’autoriforma della scuola, che è studiata anche all’estero per le novità che porta nelle forme politiche.
Io nella mia vita ho sempre lottato e mi sono esposta di persona, ma riconosco che ci sono state circostanze favorevoli, che mi hanno aiutato, penso al ’68, quando sono scappata di casa per fare la vita che volevo, oppure penso al movimento delle donne quando cercavo disperatamente una politica che mi corrispondesse. Oggi che il mondo è cambiato nel senso delle soggettività e non dei movimenti di massa (Touraine), non è da sottovalutare il fatto che un’opinione pubblica favorevole alle donne possa essere la circostanza migliore perché una donna si esponga in una presa di parola pubblica. Perché sempre più donne si espongano. È qui che vedo un vero problema: io penso che non si possa evitare di stare nel conflitto là dove si è. Ma questo è vero anche per le altre? Soprattutto per le più giovani?
Oggi le donne sono dappertutto e possiamo teoricamente pensare che ogni situazione, che sia una scuola, un ospedale, un’azienda, un condominio, un consiglio di amministrazione, un oratorio, un parlamento, un Comune, o la direzione di un giornale, sia potenzialmente un contesto in cui una donna si assuma la libertà di significare qualcosa del suo essere donna lì dove è. E possa anche cominciare a pensare insieme ad altre che quel luogo dovrà interamente trasformarsi perché lei possa esservi inclusa. Teoricamente la distinzione tra politica prima e seconda non ha più senso. Non ci sono due scene, ma una, il mondo. In pratica le cose sono più complicate. C’è una politica possibile e praticabile e c’è tanta cattiva politica aggrappata alle logiche del potere. Niente complicità, ma per me diventa ancora più interessante intrecciare relazioni con donne molto diverse e lontane. E anche con uomini.
In chiusura Giordana rievoca il momento in cui “le donne anche quando parlavano dentro le case facevano politica perché le mura crollavano, la casa non era più un luogo separato”. E si domanda: “Come riusciamo a farlo oggi? Come ci assumiamo la responsabilità di uscire dagli spazi protetti?”
Dalle sue parole sembra quasi che tra l’autocoscienza e l’oggi non ci siano state esperienze che abbiano affrontato “il problema dei nessi tra le due (politica prima e politica seconda)”. La cosa mi sorprende perché dentro di me – e credo anche in altre – quella distinzione era già caduta. A proposito di stare in istituzioni, porto l’esempio di Diotima. È una comunità filosofica che ha sede in una università pubblica, che da 30 anni tiene aperto un conflitto simbolico visibile, che ha un laboratorio di tesi di laurea in netta controtendenza con “le menti meccaniche” che pensano l’università, che fa iniziative aperte alla città di Verona, che tiene nell’università stessa seminari politici. Ricordo il loro volume Potere e politica non sono la stessa cosa (Liguori 2009). Ci sono stati anche – Via Dogana ne ha molto parlato – movimenti di amministratrici dei Comuni. Insomma c’è molto da pensare, ma non ripartiamo da zero.
Negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso c’è stato un felice incontro tra il femminismo della differenza e la crescente femminilizzazione della società. I luoghi che per primi sono diventati a maggioranza femminile, come istruzione, sanità, giustizia, pubblica amministrazione, sono diventati contesti di significative pratiche di trasformazione. Non a caso io, Marina Santini e Alessio Miceli per il nostro libro abbiamo azzardato il titolo di Scuola. Sembra ieri è già domani.
Se riconsidero la mia esperienza di vita lavorativa il bilancio dice che “si può fare”. Conferma che la politica del partire da sé e della relazione può essere una politica per tutti. Per questo sostengo che oggi la sfida aperta sia: tradurre il portato del femminismo in un’esperienza personale, in un linguaggio comune, in un agire libero e pensante nel mondo comune di uomini e donne.