Per mantenere al centro del dibattito in corso sulla maternità surrogata la relazione materna, come è emerso anche dall’incontro della redazione allargata di Via Dogana 3, è utile operare semanticamente in modo chiaro e netto e distinguere tra relazione materna e funzione materna, utilizzando questo dispositivo linguistico per argomentare a sostegno della centralità della relazione materna.
Intendiamo, dunque, con FUNZIONE MATERNA quell’insieme di protezione, cure, affetto, accompagnamento nella crescita delle creature umane che, in assenza della madre, può essere esercitata da qualunque persona adulta responsabile e disponibile, come il padre e altre figure parentali o amicali. È quello che avviene nell’adozione e nell’affido.
Di frequente, nel dibattito attuale, viene affermato che per essere genitori non è importante il sesso biologico e l’orientamento sessuale, ma l’amore per la creatura di cui ci si assume la responsabilità. Questa argomentazione attiene, appunto, alla funzione materna, che è nell’ordine della sostituibilità.
La RELAZIONE MATERNA, invece, nel suo essere intima unità di biologia e cultura, corpo e parola, necessità e sogno, è insostituibile e, implicando la genealogia femminile madre-figlia, rende evidente la differenza sessuale e la sua origine nel diverso rapporto con il corpo materno della figlia e del figlio.
Mentre adozioni e affido entrano in gioco come SUPPLENTI di fronte a una interruzione della genealogia femminile già avvenuta per cause accidentali, con la maternità surrogata l’interruzione, addirittura doppia quando ci sono una donatrice di ovuli e una portatrice di embrione, è programmaticamente decisa. Lo strappo simbolico è grave e ci espone contemporaneamente alla appropriazione della maternità da parte della tecnoscienza e del mercato e alla cancellazione della madre.
Con la distinzione tra relazione materna e funzione materna si può tener conto dei desideri emersi da chi sostiene e ricerca la maternità surrogata, estendendo la possibilità di esercitare la funzione materna attraverso l’adozione, prescindendo dall’orientamento sessuale o dallo stato di single, così come in Italia già avviene con l’istituto dell’affido.
omologazione, integrazione, recitazione, difesa dei valori dell’Occidente…
Pensiamo a fatti recenti e antichi come i fatti di Colonia, ottenere giustizia a quali condizioni, le condizioni di lavoro, il ricatto dei mezzi di comunicazione, “perché le femministe non parlano?”, donne al lavoro del sesso e della maternità. (Ma la lista non finisce qui, recentissima Letizia Paolozzi sul come le femmine sono tenute a vestirsi… dove? in Olanda). Con la partecipazione di Silvia Niccolai e Luisa Muraro, introduce Laura Giordano.
Tunisi. Estate 2010. Farah ha diciotto anni, ama la musica e ama cantare. Ama esibirsi insieme agli altri musicisti della sua rock band nei locali frequentati dai giovani e affidare alle canzoni la sua voglia di ribellione e di libertà.
«Appena apro gli occhi, vedo persone che si stanno spegnendo impregnate del loro sudore, le loro lacrime sono salate, il loro sangue è stato rubato ed i loro sogni sono sbiaditi». Lei invece vuole vivere intensamente, senza ostacoli, senza quei muri e quelle porte chiuse di cui canta: «Quando vedo questo mondo di porte chiuse chiudo gli occhi e ogni volta mi appare una ragazza…»
I suoi abiti sono un’esplosione di colori e il suo viso è illuminato da un sorriso indimenticabile.
Vuole vivere la notte senza paure e frequentare gli stessi luoghi dei suoi amici maschi, senza subire divieti e umiliazioni, e respirarne la stessa euforia di libertà. È coraggiosa e temeraria, anche incosciente nella sua giovanile sicurezza, forse ancora poco consapevole di sé, dell’essere donna che con il suo corpo sta violando lo spazio pubblico maschile.
Ha idee chiare sul suo futuro: dopo la brillante maturità vuole dedicarsi alla musica e non ai “più sicuri e accettabili” studi di medicina, come vorrebbero la mamma e la nonna.
Non si pone limiti e ama rischiare anche quando il gruppo viene avvertito di possibili ritorsioni a causa dei testi delle sue canzoni, canzoni politiche che attirano le attenzioni della polizia.
La stessa passione la vive nell’amore e nelle prime esperienze sessuali: nessun pudore o false timidezze nel guardare il corpo nudo del suo innamorato Borhène, il chitarrista autore dei testi delle canzoni. Tutto in lei è vitale, pulsante, vibrante di energia e simpatia.
Non vuole sottomettersi alle paure, ai compromessi, ai silenzi e ai segreti del mondo degli adulti che costantemente cercano di metterla in guardia – la madre prima fra tutti – sui pericoli che la circondano.
Attraverso gli occhi di Farah la regista tunisina Leyla Bouzid, nel suo bel film di esordio, ci immerge nei sentimenti, negli umori e nei desideri di cambiamento diffusi fra la gioventù tunisina nell’estate che precede le rivolte di piazza che portarono alla fuga del dittatore Ben Ali. Come pure ben racconta il clima di oppressione e di paura generato dalla dittatura che si reggeva sugli apparati della polizia segreta, sugli infiltrati, le spie, le delazioni e la corruzione, mentre privava i giovani di speranze per il futuro.
Un film di formazione, di passaggio: nella giovane Farah il coraggio di una generazione che non vuole arrendersi e che con dolore e sofferenza impara a conoscere i limiti dei propri desideri insieme alla sua presa di consapevolezza come donna; nella figura più complessa della madre la forza di resistenza di chi si è vista portare via i propri sogni e che si fa conforto, sostegno dell’amatissima figlia affinché lei possa continuare a portarli avanti. Sarà lei, la madre a ridarle voce, voglia di vivere e di non arrendersi in una delle scene più drammatiche. Un rapporto, quello fra Farah e la madre, a tratti doloroso e sofferto, ma in trasformazione: dalle iniziali forme di ribellione e scontro tipicamente adolescenziali a una profonda e reciproca comprensione e alleanza.
Un film di emozioni forti dove i sentimenti sono costantemente osservati e analizzati attraverso un abile uso dei primi piani: splendida la fotografia dei volti, dei corpi o di loro parti in movimento o ripresi in una staticità che appare un’attesa. Come importanti sono le riprese di luoghi pubblici visti con occhi di donna: i bar frequentati da soli uomini, i loro sguardi concupiscenti; la stazione degli autobus, il treno, le strade di notte, luoghi dove i corpi delle donne sembrano un sovrappiù.
Il finale aperto è d’obbligo.
Leyla Bouzid è nata a Tunisi nel 1984. È laureata in Letteratura Francese alla Sorbona e successivamente si è diplomata in regia. Ha diretto, a partire dal 2006, cortometraggi e documentari selezionati e premiati in vari festival. Collabora attivamente con l’Associazione dei giovani registi tunisini.
Appena apro gli occhi – A peine j’ouvre les yeux – è il suo primo lungometraggio di cui ha scritto anche la sceneggiatura. La musica, che nel film riveste un ruolo centrale, è del compositore iracheno Khyam Allami, un misto di rock e musica tradizionale tunisina; le canzoni sono state scritte dal poeta tunisino Ghassen Amani in collaborazione con la stessa regista.
Il ruolo della madre è interpretato da Ghalia Benali, una famosa cantante e attrice di origini tunisine, mentre il ruolo di Farah è affidato a Baya Medhaffer, una giovane cantante e attrice al suo esordio.
Presentato al Festival di Venezia nel 2015 nelle Giornate degli Autori, ha ricevuto il Premio del Pubblico e il Premio Europa Cinema.
Il 13 gennaio 2016, alla vigilia della ricorrenza dei cinque anni dai giorni della Rivoluzione dei Gelsomini, il film è uscito in Tunisia in 24 regioni del paese utilizzando le Case della Cultura e le Case dei Giovani.
Lettera-invito alla redazione allargata di VD 3
domenica 8 maggio 2016 ore 10
alla Libreria delle donne di Milano, via Pietro Calvi 29
sul tema già annunciato nel programma*
Libertà femminile: prezzi pagati e da pagare
L’incontro di sabato 30 aprile al Circolo della rosa, sulla cosiddetta maternità surrogata, ha confermato che questo è un momento intenso e importante per le donne (che vuol dire anche per gli uomini) e in particolare per le femministe, comprese le donne impegnate nei movimenti omo- e trans-sessuali.
La gente, ormai distante dalla politica ufficiale, s’interessa però ai temi della vita sessuale e relazionale, della famiglia che cambia, dei desideri e dei diritti che c’erano forse da sempre, forse invece no, ma che comunque affiorano con le nuove possibilità offerte dal mercato globale e dalla tecnoscienza. Questo fermento è importante perché testimonia di una volontà di capire e di esserci senza farsi mettere fuori gioco dalla prepotenza delle cose che vanno avanti di suo (come la tecnoscienza e il mercato globalizzato).
A me, che ho avuto la faccia tosta di scrivere un libro sulla gestazione per altri (GPA), L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto (La Scuola 2016), l’incontro di sabato con Lia Cigarini e tante, tanti altri, ha dato molto: qualche conferma, delle aperture e nuove domande.
Riassumo lo stato attuale della questione (nella mia testa, s’intende).
– Mi sono resa conto che nessuno ha le risposte in mano, bisogna trovarle insieme. Le questioni che ci poniamo (tra poche settimane il parlamento discuterà la legge sulle adozioni) segnalano un processo molto positivo di presa di coscienza diffusa: non vogliamo restare indietro a mercato e tecnoscienza, cerchiamo invece di accompagnare e orientare (per quanto possibile) i cambiamenti, con quella consapevolezza che ci fa umani.
(Inserisco un invito alle e agli specialisti: nella ricerca scientifica sulla procreazione non delegate al potere altrui la parte di responsabilità che è vostra!)
– Un tema profondo e urgente riguarda il rapporto tra la gestazione e la cura delle nuove creature. La maternità abbraccia entrambe le cose, ma nella realtà accade che siano perfino separate, sicuramente sono distinte. Forse lo sono anche nel desiderio femminile? è cosa da indagare, non però con la facile retorica di chi ha già preso posizione, è da indagare con il metro di misura della libertà femminile. Misura che va presa anche per la disponibilità materna di colei che diventa madre: che non sia assoluta, può essere parziale e tocca a lei prenderla. Ma che non si riduca, se possibile a zero: la creatura ne soffre.
– Altro tema, la concezione della differenza sessuale. Al regime di eterosessualità imposta dal patriarcato, la politica femminista si oppone con il senso libero della differenza sessuale. Purchè capiamo che questa non è stabilita tra due entità in forza di leggi, usi e costumi, ma si costituisce in, ossia nella singola creatura come diversa distanza dal corpo materno, con la sessuazione. Gli usi e costumi non fanno che interpretare questo evento evolutivo. Oggi si avverte da più parti l’esigenza che l’interpretazione sia libera.
– La differenza sessuale, se correttamente intesa, consente di distinguere la relazione paterna da quella materna.
– Sta emergendo un’importante indicazione: avvicinare il tema della surrogata al tema dell’adozione, si tratta quindi d’impedire che quella entri in competizione con la seconda e fare in modo che l’adozione recepisca esigenze di donne e uomini emerse con la surrogazione.
Inserisco qui un’istanza verso il parlamento chiamato prossimamente a cambiare in meglio la legge sulle adozioni: s’inserisca esplicitamente la relazione materna nel bene del bambino.
Le cose che premono sono molte ma credo che non serva allungare il testo per rendere convincente l’invito.
Che ci siano prezzi da pagare per la libertà femminile, a volte è veramente scandaloso ma non deve scandalizzarci perché la libertà è fondamentalmente una conquista e, come tale: libertà guadagnata in prima persona, diventa un bene che s’incrementa da sé.
Luisa Muraro, 2 maggio 2016.
*Libertà femminile: prezzi pagati e da pagare
omologazione, integrazione, recitazione, difesa dei valori dell’Occidente…
Pensiamo a fatti recenti e antichi come i fatti di Colonia, ottenere giustizia a quali condizioni, le condizioni di lavoro, il ricatto dei mezzi di comunicazione, “perché le femministe non parlano?”, donne al lavoro del sesso e della maternità. (Ma la lista non finisce qui, recentissima Letizia Paolozzi su Alfabeta sul come le femmine sono tenute a vestirsi… dove? in Olanda).
con la partecipazione di Silvia Niccolai e Luisa Muraro
introduce Laura Giordano
Da Il passaggio in altro, in Bianca R. Gelli (a cura di), Voci di donne. Discorsi sul genere, P. Manni, Lecce 2002, pp. 41-46, brano finale, pp. 45-46
[…]
Partire dall’esperienza femminile può essere un modo per capire donne e uomini. Proprio perché le donne hanno più presente l’altro, mentre gli uomini prima si chiudono nella loro compiutezza e poi si relazionano con l’altro. Per le donne l’altro è già acquisito. Quando dico l’altro, non voglio dire solo l’altro sesso, ma l’altro che è anche in me. Può essere il mondo, Dio, ecc. Ma come è possibile, partendo solo dalla mia esperienza di donna, capire qualcosa che riguarda donne e uomini?
Nell’universale Aristotele ha ideato un qualcosa che si guadagna per astrazione, astraendo da tutto quello che è concreto ed empirico. L’uomo ad esempio diventa un animale che ragiona, con tutte le caratteristiche della vita animale e del ragionare: questo è l’universale astratto. Un altro universale, molto più vicino a noi, è l’universale come mediazione, l’atto di abbracciare il tutto trovando le mediazioni. La dialettica di Hegel sta proprio nel trovare universali attraverso mediazioni. La formula è stata coniata da Luce Irigaray. L’universale del “taglio“, invece, lo possiamo chiamare l’universale del passaggio in altro, che si guadagna con la pratica della relazione e che rivela che l’essere consiste nel passaggio ad altro. Nell’innamoramento si fa l’esperienza dell’essere che passa in altro, questa formula del passaggio in è il tipo di movimento del pensiero che ci permette di fare dell’esperienza femminile un’esperienza umana perché l’altro in quanto altro era già presente. Questa mia idea, non ancora approfondita, ha delle applicazioni per esempio nella critica della psicopedagogia, e in tutto quello che è puericultura pedagogica, discipline o ambiti organizzati secondo una concezione scientifica astratta. Ogni venti o trenta anni si affacciano nuove teorie, perché sono scienze che tentano di codificare in un universale astratto situazioni che sono tra le più vicine al cuore dell’essere che è quello della generazione, della messa al mondo di una nuova vita. E tentano d’imbrigliarle così. Questo sapere del passaggio in altro di preferenza è stato praticato da donne. Comunemente le donne hanno praticato questa forma di conoscenza e di esperienza che però non ha mai trovato uno schermo che lo intercettasse e ne facesse un sapere riconoscibile. In questo momento si può tentare, forse perché la differenza femminile comincia a impressionare la società intera. Sarebbe un guaio che questo di più femminile, inteso come originalità del pensiero femminile, fosse apprezzato unicamente dal mercato del lavoro, dall’economia, dal capitalismo. Bisogna farne intelligenza libera, perché altrimenti resta lo spreco dell’invisibilità di questo sapere, col rischio di mascolinizzarci per trovare riconoscimenti dalla società. Proprio perché siamo donne che vogliono fare delle nostre vite qualcosa che conta. Proprio per questo il rischio è quello di adottare forme simboliche del maschile, un modo cioè di tipo fallico. Una ricerca delle forme originali del sapere femminile può aiutarci a salvare la nostra originalità.
Il corpo femminile fecondo sul quale l’umanità maschile ha cercato di mettere le mani con tutti i mezzi, legge, scienza e filosofia comprese, è tornato in primo piano con la fine del patriarcato. Spicca la pratica della procreazione per interposta persona (una femmina sana più materiale genetico di varia provenienza).
I modi e le circostanze dell’appropriazione sono in parte gli stessi di sempre (violenza, complicità tra uomini, contratto sessuale, il bene del minore…) e in parte sono nuovi, come questa nuova pratica, che ha tanti nomi. Tra i fattori che l’hanno resa possibile, ci sono le tecnologie procreative e il mercato globale. L’accordo che alcune donne non desiderose di maternità per sé ma semplicemente liberali, può essere visto come un fattore nuovo. O, viceversa, come il corrispondente di una spontanea, antica rispondenza ai desideri altrui.
L’indisponibile del titolo segnala l’esigenza di una nuova coscienza evolutiva che ci renda più consapevoli che la vita stessa e la ricerca della nostra felicità pongono delle barriere simboliche all’esercizio della padronanza sulle cose, sui corpi e sulle persone, compresa la propria. Questo processo è già cominciato; si tratta di svilupparlo mettendo risolutamente fine alla discontinuità traumatica tra natura e cultura in cui viviamo. In ciò l’umanità femminile ha un ruolo maggiore che la chiama ad assumere un’autorità anche pubblica e non soltanto famigliare.
L’indisponibile è primariamente il corpo femminile fecondo con il suo frutto. In tempi recenti alcune giuriste hanno proposto che l’inviolabilità del corpo femminile sia tra i principi costituzionali. Il matrimonio patriarcale altera quello che doveva essere il rito con cui la madre consentiva, a un uomo, di avere accesso a una sua figlia.
Consideriamo le conseguenze di ciò nel caso dell’interruzione volontaria della gravidanza. Nel linguaggio corrente se ne parla come di un diritto, ma non è esatto: il diritto riguarda semmai la salute della donna, non altro. La fine traumatica di una gravidanza indesiderata, è la conseguenza di una sessualità umana non libera. L’aborto di suo sarebbe nella sfera del non disponibile. Tuttavia molte di noi hanno difeso che la donna possa farlo e abbia diritto all’assistenza medica. Lo abbiamo fatto per ristabilire un principio di libertà: non si può obbligare una donna a diventare madre, e di maternità si può parlare a partire dal consenso libero della donna.
Ma non è questa la ragione della legge italiana in materia. In un’intervista a Una città n.227, il giurista Stefano Canestrari (autore di Principi di biodiritto penale, Il Mulino 2015) loda la 194 che basa su un principio diverso. Si tratta della tutela prioritaria della salute psicofisica della donna rispetto al concepito. In questa concezione, la donna resta quindi sotto tutela di un’autorità patriarcale che separa e confronta lei e il nascituro, e si dà il compito di giudicare sullo stato della sua salute. Di fatto sappiamo che non va più così, per cui il principio invocato finisce per essere una finzione legale. Segno che c’è una forzatura.
Fra noi molte pensano che la forzatura colpisca l’ordine simbolico della madre e segnalano il permanere di una morta autorità patriarcale in un ordinamento che non prevede la presenza di autorità femminile nemmeno in questo ambito di competenza squisitamente femminile.
Il non dell’indisponibile non è dunque il proibito e neanche il non negoziabile del diritto. Appartiene alla qualificazione delle possibilità concretamente presenti, e disegna nelle civiltà storiche una linea dinamica. Si tratta di seguire l’accrescimento delle possibilità avendo come criterio che non s’impoverisca l’essere di ogni cosa che è. Nel caso dell’essere umano, che non si perda di vista la sua destinazione libera alla felicità.
Introduzione all’incontro della redazione allargata Con l’universalismo è lei che ci perde, del 13 marzo 2016
Poco prima dell’incontro del 13 marzo 2016 lessi l’articolo di Silvia Niccolai Con l’universalismo è lei che ci perde (“Il manifesto”, 17/02/2016). Mi parve decisiva la sua valutazione del rischio che comporta l’universalismo (dei diritti, dell’uguaglianza, dell’istruzione, dalla sanità, del mercato…) per la libertà femminile. Ma mi rimase un’inquietudine che si è rafforzata durante il suo intervento all’incontro. Ho sentito che la cornice dell’universalismo mi metteva in un vicolo cieco, come mi succede quando si critica una ideologia senza vagliarla esplicitamente con il pensiero e le pratiche femminili libere.
Al parlare di Silvia Niccolai di universalismo, mi è mancato il contesto dell’idea di Luce Irigaray dell’universale come mediazione1. Perché? Perché amo gli universali: amo il riconoscimento e il lavoro di ciò che è comune a donne e uomini nella politica sessuale e nel resto della politica. Luce Irigaray ha mostrato che il compito della filosofia è il lavoro dell’universale, che il proprio dell’universale è di essere mediatore, e che l’universale maschile (il neutro suppostamente universale denunciato dal femminismo) non è un universale perché non è mediatore. Non è mediatore perché è stato costruito e viene sostenuto senza tener conto dell’altro sesso. Cioè, l’universale come mediazione è veramente politico, l’universalismo no. Le beghine, per esempio, sono un universale mediatore femminile perché ci furono begardi che fecero propria questa invenzione femminile. La libertà femminile trascinò quella maschile senza smettere di essere femminile. Seppe essere lei e ciò che lei non era; seppe essere le due cose insieme ed esserlo arricchendosi della relazione con l’altro, non in lotta dialettica. Come l’euritmia include in sé l’inarmonico, o la differenza include nel suo seno l’uguaglianza senza farle diventare un’antinomia del pensiero.
Durante l’incontro, mi sono chiesta se la preziosa idea/proposta esposta da Luisa Muraro dell’“indisponibile”, riferita al corpo femminile in generale e nel contesto de “Il corpo femminile fecondo” che motivava la riunione, non sia un universale come mediazione. Perché il corpo femminile (io vivo così il mio) è un indisponibile che senza smettere di esserlo è aperto e disponibile. Lei sa. Mi vengono in mente le murate medievali che muravano il loro corpo in una muraglia o un ponte, luoghi eminentemente mediatori, mostrando al mondo la loro indisponibilità al patriarcato e allo stesso tempo la loro disponibilità allo scambio con chi andasse a visitarle, specialmente la visitazione dell’amore divino. Giuliana di Norwich fu un grande esempio molto tempo fa. Oggigiorno, le alunne e gli alunni capiscono in un lampo questo paradosso che alcuni anni fa non si percepiva, dato che allora scandalizzava l’estrema eccentricità del gesto delle murate, un gesto che poteva durare e di solito durava tutto il resto della vita.
L’“indisponibile” è un’invenzione simbolica che mi connette con l’inviolabilità del corpo femminile, del mio corpo. Mi porta a ciò che disse Lia Cigarini nel medesimo incontro, sulla necessità di una espressione radicale che arresti la violenza contro le donne che il diritto non è riuscito a fermare.
(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan)
1Luce Irigaray, L’universel comme médiation (1986), in Ead., Sexes et parentés, París, Les Éditions de Minuit, 1987, 139-164; p. 162 (Sessi e genealogie, trad. di Luisa Muraro, Milano, La Tartaruga, 1989).
De la crítica al universalismo a lo indisponible
María-Milagros Rivera Garretas
Poco antes de la reunión del 13/03/16, leí el artículo de Silvia Niccolai Con l’universalismo è lei che ci perde (Il manifesto 17/02/2016). Me pareció decisiva su apreciación del riesgo que supone el universalismo (de los derechos, de la igualdad, de la educación, de la sanidad, del mercado…) para la libertad femenina. Pero me quedó una inquietud que se afianzó después durante su intervención en el encuentro. Sentí que el marco del universalismo me metía en un callejón sin salida, como me pasa cuando se critica una ideología sin contrastarla explícitamente con el pensamiento y las prácticas femeninas libres.
Al hablar Silvia Niccolai de universalismo, me faltó el contexto de la idea de Luce Irigaray de lo universal como mediación2. ¿Por qué? Porque amo los universales: amo el reconocimiento y el trabajo de lo que es común a mujeres y hombres en la política sexual y en el resto de la política. Luce Irigaray mostró que la tarea de la filosofía es el trabajo de lo universal, que lo propio de lo universal es el ser mediador, y que lo universal masculino (el neutro pretendidamente universal que denunció el feminismo) no es un universal porque no es mediador. No es mediador porque ha sido construido y es sostenido sin tener en cuenta al otro sexo. Es decir, lo universal como mediación es verdaderamente político, el universalismo no. Las beguinas, por ejemplo, son un universal mediador femenino porque hubo beguinos que hicieron suya esa invención femenina. La libertad femenina arrastró a la masculina sin dejar de ser femenina. Supo ser ella y lo que ella no era; supo ser las dos cosas a la vez y serlo enriqueciéndose de la relación con lo otro, no en lucha dialéctica. Como la eurritmia incluye en sí lo inarmónico, o la diferencia incluye en su seno la igualdad sin convertirlas en una antinomia del pensamiento.
Durante el encuentro, me pregunté si la idea/propuesta preciosa que expuso Luisa Muraro de “lo indisponible”, refiriéndose al cuerpo femenino en general y en el contexto de “Il corpo femminile fecondo” motivo de la reunión, no será un universal como mediación. Porque el cuerpo femenino (yo vivo así el mío) es un indisponible que, sin dejar de serlo, está abierto y disponible. Ella sabe. Me vienen a la memoria las muradas medievales que tapiaban su cuerpo en una muralla o un puente, lugares eminentemente mediadores, mostrando al mundo su indisponibilidad al patriarcado y, al mismo tiempo, su disponibilidad al intercambio con quien fuera a visitarlas, especialmente la visitación del amor divino. Juliana de Norwich fue un gran ejemplo hace mucho. Hoy día, las alumnas y alumnos entienden en un destello esta paradoja que unos años atrás no se percibía, escandalizando entonces la excentricidad extrema del gesto de las muradas, un gesto que podía y solía durar todo el resto de la propia vida.
“Lo indisponible” es una invención simbólica que me conecta con la inviolabilidad del cuerpo femenino, de mi cuerpo. Me lleva a lo que dijo Lia Cigarini en el mismo encuentro sobre la necesidad de una expresión radical que detenga la violencia contra las mujeres que el derecho no ha conseguido parar.
- Luce Irigaray, L’universel comme médiation (1986), en Ead., Sexes et parentés, París, Les Éditions de Minuit, 1987, 139-164; p. 162. (Sessi e genealogie, trad. di Luisa Muraro, Milano, La Tartaruga, 1989). ↩︎
- Luce Irigaray, L’universel comme médiation (1986), en Ead., Sexes et parentés, París, Les Éditions de Minuit, 1987, 139-164; p. 162. (Sessi e genealogie, trad. di Luisa Muraro, Milano, La Tartaruga, 1989). ↩︎
Luisa Muraro, alla riunione di VD3 (13 marzo 2016), disse che la maternità appartiene all’indisponibile del corpo femminile. Queste parole giuste mi sgombrano da mente dalla insopportabile casistica che circonda la maternità surrogata, il fiume di parole che copre interessi socioeconomici e di potere, e l’ipocrisia e violenza di tanti uomini contro il corpo femminile, ancora violato, che è inviolabile, sacro e indisponibile.
Quando una donna accetta di essere madre è lei che si rende disponibile alla sua creatura. Si rende disponibile alla creazione e all’amore, non alle leggi, ai contratti, al denaro o alle tecniche: questo è commercio. E lei è la madre sopra leggi, contratti, denaro, tecnica e ingannevoli buone volontà.
Durante la riunione, improvvisamente ricordai il giudizio di re Salomone (Re 3,16-28), un racconto patriarcale che non è riuscito a schiacciare l’antica libertà e sapienza femminile in tutto ciò che significa essere madre. Le leggi e gli affari che si stanno mettendo su adesso intorno alla maternità surrogata in nome del diritto, dell’uguaglianza, della neutralità e dell’universalismo, si riallacciano a questo racconto biblico.
A quanto risulta, quel re aveva settecento donne con il rango di principesse e trecento concubine, cosa che non lo rende adatto a giudicare sulla maternità né certo per nient’altro di sensato. Di fronte a lui compaiono in giudizio due donne prostituite che sono appena diventate madri, vivono insieme e discutono perché una ha soffocato la sua creatura e reclama quella dell’altra come sua. Il re chiede una spada e dice che taglino in due la creatura, un modo di giustizia sommaria di cui forse si sentì orgoglioso pensando che fosse equo, perché così toccava la stessa quantità a entrambe.
Dopo questa sentenza sanguinaria, che per fortuna non si esegue per il buon criterio della madre e non per la sapienza del re, l’unica cosa chiara lì è che solo la madre sa chi è la madre e tutto il resto è di troppo. È di troppo che ci dicano che il re era molto sapiente, invece di riconoscerlo come un violento. È di troppo dire che una madre è buona e l’altra cattiva. È di troppo accettare tranquillamente che un prostitutore come il re sia in grado di giudicare sulla loro maternità due donne che sono state madri.
La madre sa quello che Salomone ignora, cioè che come madre non è disponibile per il suo giudizio, le sue tecniche, i suoi affari e le ingannevoli buone volontà.
(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan, Via Dogana 3, 21 marzo 2016)
Via Dogana 3, 21 marzo 2016
La madre sabe lo que Salomón ignora
de Ana Mañeru Méndez
Luisa Muraro dijo en la reunión de VD3 (13/3/16) que la maternidad pertenece a lo indisponible del cuerpo femenino. Estas palabras justas me despejan la casuística insoportable que rodea a la maternidad subrogada, la palabrería que encubre intereses socio-económicos y de poder, y la hipocresía y violencia de tantos hombres contra el cuerpo femenino, aun violado, inviolable, sagrado e indisponible.
Cuando una mujer acepta ser madre es ella quien se hace disponible a su criatura. Se hace disponible a la creación y al amor, no a las leyes, los contratos, el dinero o las técnicas: esto es negocio. Y ella es la madre por encima de leyes, contratos, dinero, técnica y engañosas buenas voluntades.
En la reunión, de pronto recordé el juicio del rey Salomón (Reyes: 3, 16-28), un relato patriarcal que no ha logrado aplastar la libertad y la sabiduría femeninas antiguas en todo lo que significa ser madre. Las leyes y negocios que se están montando ahora en torno a la maternidad subrogada en nombre del derecho, la igualdad, la neutralidad y el universalismo, enlazan con este relato bíblico.
Resulta que ese rey tenía setecientas mujeres con rango de princesas y trescientas concubinas, lo cual no le cualifica para juzgar sobre la maternidad ni seguramente para nada sensato. Ante él comparecen para que las juzgue dos mujeres prostituidas que acaban de ser madres, viven juntas y discuten porque una ha asfixiado a su criatura y reclama la de la otra como suya. El rey pide una espada y dice que la partan por la mitad, un modo de justicia sumaria de la que quizás se sintió orgulloso pensando que era equitativo, porque así les tocaba la misma cantidad a las dos.
Después de esta sentencia sanguinaria, que afortunadamente no se cumple por el buen criterio de la madre y no por la sabiduría del rey, lo único claro allí es que solo la madre sabe quién es la madre y todo lo demás sobra. Sobra que nos digan que el rey era muy sabio, en vez de reconocerle como un violento. Sobra decir que una madre era buena y la otra mala. Sobra aceptar con naturalidad que un prostituidor como el rey sea adecuado para juzgar sobre su maternidad a dos mujeres que han sido madres.
La madre sabe lo que Salomón ignora, o sea que como madre no está disponible para su juicio, sus leyes, sus técnicas, sus negocios y las engañosas buenas voluntades.
Domenica 13 marzo 2016, 2° anno 2° incontro della
Redazione allargata di Via Dogana
Prima era la reclusione domestica, adesso è il mercato, prima erano le leggi, adesso sono i soldi, prima era competizione fra i maschi, adesso è mentalità aperta delle femmine… cambia la strada per arrivarci, cambia anche il risultato?
Dedichiamo la redazione allargata di Via Dogana 3, a quest’antica questione nei termini che sta prendendo oggi. Il femminismo è un campo di battaglia, abbiamo detto, e ne abbiamo oggi una conferma. Che sia anche un’occasione per entrare nei cambiamenti in corso con nuove idee.
Silvia Niccolai, costituzionalista, e Luisa Muraro, della redazione di VD 3, introducono l’incontro dedicandosi brevemente a due argomenti:
- Silvia Niccolai, Con l’universalismo è lei che ci perde;
- Luisa Muraro, L’indisponibile.
Incontro alle ore 10 della prossima domenica 13 marzo 2016, al Circolo della rosa presso la Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265. Fino alle 13.30 circa, seguirà buffet.
Da il manifesto – Quasi mai, quando se ne parla, si distingue tra lesbiche e gay. Farlo però sarebbe utile, specialmente alle lesbiche in molti casi, e proprio sul tema, oggi sul tappeto, della cosiddetta omogenitorialità.
A forza di venir nominate in termini universalistici, quali titolari di «diritti umani», le persone omosessuali sono diventate una specie di soggetto neutro, né maschio né femmina. Quasi mai, quando se ne parla, si distingue tra lesbiche e gay. Farlo però sarebbe utile, specialmente alle lesbiche in molti casi, e proprio sul tema, oggi sul tappeto, della cosiddetta omogenitorialità.
Le lesbiche condividono con le altre donne il privilegio materno, possono partorire i loro figli. Di qui in alcuni paesi del mondo la tendenza ad applicare alla compagna la presunzione di paternità o anche, dove si riconosce il matrimonio omosessuale, a fare ex lege di ciascuna la co-madre dei figli dell’altra. Queste esperienze potrebbero spingere a puntare in alto: per esempio, a rileggere in chiave femminile le istituzioni del passato, e a riformularle nel principio per cui la madre rende genitore dei suoi figli la donna o l’uomo con cui sceglie di stare in relazione. Le decisioni giudiziarie emesse in Italia a favore dell’adozione da parte del partner omosessuale, dopotutto, sono state pronunciate con riguardo a coppie di donne, e senza unioni civili o step-child adoption. Prestando attenzione a questi dati si scorgerebbe che certamente la differenza sessuale accorda un favor alle donne, che non tutto ciò che è tradizione, storia o cultura è sempre da buttar via e che certe esigenze delle madri lesbiche possono trovare risposte anche senza riforme legislative.
Ci sarebbe dunque molto lavoro, sul piano teorico e politico, a ragionare di lesbiche e gay (e cioè di donne e uomini) anziché di «persone omosessuali»; ma non lo si fa, e si preferiscono le rivendicazioni universali e neutre: lo stesso modello di coppia e di famiglia per le «persone omosessuali», anche se questo modello uguale serve più ai gay che alle lesbiche.
Se i calcoli politici condurranno all’affido rinforzato o allo stralcio delle adozioni dal progetto Cirinnà le lesbiche saranno, domani, più in difficoltà di oggi nell’adottare i figli della compagna, mentre i maschi otterranno comunque il risultato: la Corte europea dei diritti dell’uomo ha già stabilito, con riferimento alle coppie etero, che il divieto italiano di maternità surrogata non impedisce che il bambino rimanga dei committenti. E siccome questo è stato pronunciato in nome dell’interesse del child (un altro neutro) e non in relazione al modello familiare, varrà presumibilmente presto anche per le coppie gay in unione civile.
In materia di famiglia non vi ha dubbio che gli uomini più delle donne si giovano di un tipico corollario delle rivendicazioni universaliste: il loro alto quoziente ingegneristico e riformistico. L’universalismo sempre mostra i muscoli contro le tradizioni e la storia, per definizione oscurantiste. Sventolato oggi, il suo vessillo tende a far dimenticare che la storia che abbiamo alle spalle include molta libertà femminile, che ha imparato anche ad approfittare del passato. Il vituperato «stereotipo materno» si presta, in nuovi scenari, a tornar utile alle donne, di certo più che agli uomini. Loro invece, per diventare una cosa che non sono mai stati (e cioè mamme) è chiaro che hanno bisogno di voltar pagina e costruirsi qualche apposito congegno tecnico-giuridico nuovo di zecca.
Le donne potrebbero guardare con molta meno palpitazione degli uomini alla sorte del progetto Cirinnà, che dà loro nulla più di ciò che basta agli uomini; ma le donne universaliste sono legioni, tutti siamo universalisti, tutti vogliamo i diritti uguali per tutti.
Si sa, col suo messaggio illuminista l’universalismo fa scattare un riflesso automatico: quando Egalité emette il suo richiamo, smettiamo di pensare, aderiamo, e basta, senza chiederci tanto perché, e con quali costi. Chi si sente debole vi trova l’illusione della forza, e tutti quanti nel suo cono ci sentiamo giusti e in lotta per il progresso. Sotto il suo imperio ci educhiamo, anche, a pensare che se invece partiamo da noi e dai nostri interessi, dalla nostra situazione, affinché abbiano il loro giusto peso, siamo deprecabilmente ingiusti e scorretti.
È così che l’universalismo insegna l’auto-moderazione. Sarà questo il motivo per cui viene tanto assecondato dal potere in questi nostri tempi, così poco amici della libertà? Invero, nessuno è più universalista dell’Unione europea, che pure è tanto cattiva con certe sue politiche finanziarie o coi migranti: sarà un caso? Ed è così che l’universalismo riesce a confondere le idee, e a far in modo che alcuni (e molto più spesso: alcune) si facciano alfiere di battaglie che altri, nel nome di «tutti», conduce più che altro nel suo solo interesse.
Le lesbiche spesso supportano i gay nella questione della maternità surrogata, quanto meno stendendo il classico pietoso velo: se no, poverini, loro come fanno? E se non vanno avanti i diritti dei gay, come potrebbero andare avanti quelli delle lesbiche? E dopotutto, diciamocelo: quando mai le donne oserebbero mettere in difficoltà gli uomini, o lasciarli soli? Al massimo, convenendo che è bruttino che essi paghino, e che tutto il complesso sa parecchio di neoliberismo sfrenato, che lo possano aver gratis questo bambino, così non ci fanno la figura degli sfruttatori e tutto si risolve in un bel dono.
Se questo, per esempio, fosse il risultato delle annunciate nuove grandi leggi contro la maternità surrogata saremmo davanti a un ennesimo esempio di amore universale, che è generalmente amore malinteso della donna per l’uomo; certo non saremmo davanti a un esempio di amore della donna per se stessa e le sue simili. Questo, siccome non è universale, non fa.
Dire che per venire incontro al desiderio di paternità dei gay, senza mettere a repentaglio la libertà e il corpo delle donne, occorrerebbe renderli in grado di adottare, questo non si può. Si vede che sottolinea troppo, scorrettamente, che non possono partorire. E allora, lo vedi? Per il loro diritto umano universale alla genitorialità gira e rigira ci vuole, questa maternità surrogata, hanno ragione, sennò non siamo pari.
Le rivendicazioni universalistiche e neutre ci sono care perché ci giustificano immancabilmente quando manchiamo di coraggio. Spesso alle donne manca il coraggio di amarsi per se stesse e di occuparsi di sé sole; agli uomini quello di ammettere i loro limiti e di riconoscere che non per forza quel che preme a loro deve premere a tutti; e a ognuno di noi spesso manca il coraggio di parlare in prima persona. Così quando lei ha un di più rispetto a lui non lo vediamo; così dimentichiamo che non tutte le differenze tra lei e lui sono uno svantaggio cui si può porre rimedio solo rimettendoli in pari. Dove in realtà è lei che ci perde.
La causa del voto alle donne, in Inghilterra, era dibattuta da quasi quarant’anni e il movimento per il suffragio femminile, organizzato da donne e uomini, era diffuso e vivace nelle grandi città industriali come nei piccoli centri – manifestazioni, petizioni, sostegno a progetti di legge – quando Emmeline Pankhurst, le figlie Christabel e Sylvia e altre militanti fuoriuscirono dal Partito Laburista e dal Women’s Suffrage Society e fondarono il 10 Ottobre 1903 la Women’s Social and Political Union.
Il loro fu un gesto politico di ribellione «per rivendicare l’immediata emancipazione, non con i soliti metodi da missionarie, ormai superati, ma attraverso l’azione politica» (*)ein opposizione ai metodi dilatori con cui i partiti politici e di governo portavano avanti il voto alle donne.
Le fondatrici nell’atto costitutivo deliberarono di restringere l’iscrizione alle sole donne e di mantenersi totalmente indipendenti da ogni formazione partitica. Il loro motto era «Fatti e non parole».
A questo motto tennero fede per tutti gli anni di esistenza dell’associazione. Indomite, determinate, coraggiose, fiere, mai piegate o succubi, per dieci anni combatterono le loro battaglie anche a costo di grandi sofferenze fisiche e psichiche. Derise, picchiate, sottoposte al carcere duro, all’isolamento e all’alimentazione forzata, mostrarono a una società perbenista, sessista e patriarcale come un desiderio e un progetto di libertà e di giustizia politica e sociale potessero mettere in moto migliaia di donne di ogni classe sociale.
La loro pratica, che andava dai cortei e dalle manifestazioni in cui innalzavano gli immancabili cartelli Votes for Women, agli interventi e alle interruzioni di pubblici dibattiti dei partiti di governo e di opposizione; dal disturbo programmato delle sedute parlamentari e di quelle del Consiglio dei Ministri, alle marce su Westminster, Downing Street e Buckingham Palace violentemente bloccate dalla polizia, si radicalizzò a partire da 1912. Non che negli anni precedenti le loro azioni, per tenere alta l’attenzione sul suffragio femminile e mantenere la pressione sul governo, partiti politici e sulla stampa, fossero venute meno. Già nel 1908 erano iniziate, anche se sporadicamente, le distruzioni di finestre di edifici pubblici, ma solo nel 1912 divennero una pratica di protesta diffusa insieme all’incendio di cassette postali, al danneggiamento dei campi da golf frequentati dai politici liberali e di alcune proprietà di ministri.
È proprio dagli eventi del 1912 che prende l’avvio il film Suffragette di Sarah Gavron e sceneggiatura di Abi Morgan (The Iron Lady su Margaret Thatcher, Shame, Brick Lane).
Il film, un bell’incastro fra Storia e finzione, ha come personaggio guida Maud (splendidamente interpretata da Carey Mulligan) che concentra in sé le caratteristiche di una donna operaia degli inizi del Novecento. Orfana, dall’età di sette anni lavora in una lavanderia; ha subìto da adolescente, come molte altre, gli abusi del direttore; è sposata e madre di un bimbo che ama teneramente e che cura al meglio. Incrocia per caso il movimento della W.S.P.U. di Emmeline Pankhurst e aderisce attivamente alle loro idee vivendole come unica possibilità per realizzare un futuro di dignità e di giustizia per sé e per le altre donne; subirà insieme alle altre militanti l’esperienza traumatica della repressione poliziesca e del carcere.
La costruzione di una figura di donna proletaria che faccia da mediazione con le altre protagoniste storiche – Emmeline Punkhurst (una breve, ma splendida apparizione di Meryl Streep), Emily Wilding Davison (Natalie Press), Barbara Ayrton Gould (Helena Bonham-Carter) e Violet Miller, amica di Maud, ispirata alla vita di Hannah Mitchell – risulta interessante e convincente nel far convivere storia e finzione, senza eccessive manipolazioni, quando il film passa dalla vita privata a quella pubblica, dalle emozioni personali alla passione politica e anche per testimoniare per la prima volta – come evidenzia Emmeline Punkhurst nella sua autobiografia Suffragette. La mia storia – la forte presenza di donne proletarie e operaie nel movimento come la leader Anne Kenney.
La valenza del film, che si giova di un’ottima ambientazione storica e di una precisa e accurata ricostruzione sociale nonché di un cast stellare, è di porre in scena l’essere politico del corpo delle donne come testimoniarono nelle loro azioni le militanti della W.S.P.U. Corpi di donne considerati fragili, spogliati dai loro decorosi abiti e gettati in sudice e gelide prigioni, umiliati nelle divise sporche dei criminali comuni, oltraggiati dalla violenza dell’alimentazione forzata quando decidevano di digiunare per i maltrattamenti e le ingiustizie delle sentenze; corpi resistenti quando venivano aggrediti e picchiati ferocemente dalla polizia, su ordine di capi di governo e di ministri misogini, impauriti dalla volontà delle donne di essere dei soggetti politici.
La potenza empatica delle immagini, esaltate dall’uso della macchina da presa a spalla, si fa determinante nel superare la distanza di oltre un secolo fra la storia del movimento delle suffragette negli anni roventi del 1912-1913 e la nostra, quella del movimento delle donne di oggi.
Il film si chiude sulle drammatiche riprese di archivio dei funerali di Emily Wilding Davison, simbolicamente a mostrare che un’epoca finiva mentre voci di guerra risuonavano per l’Europa. Nel silenzio del muto scorrono in bianco e nero le scene di migliaia di donne che accompagnano la bara, fra ali di una folla attonita. Erano state precedute dalle sequenze al rallentatore dell’impatto con il cavallo e lo stendardo viola, verde e bianco per il suffragio sul terreno a fianco del corpo della giovane.
Suffragette uscirà in Italia l’8 marzo 2016.
Solo un altro film racconta il movimento delle suffragette americane ed è Angeli di acciaio di Katja von Garnier, del 2004.
(*)Emmeline Pankhurst, Suffragette. La mia storia, Castelvecchi, 2015, pag. 32.
Anno 2 di Via Dogana 3
Anno 1394 dell’Egira (calendario persiano)
Anno 1437 dell’Egira (calendario islamico)
Ci incontriamo domenica 10 gennaio 2016 alle ore 10
in via Pietro Calvi 29, Milano
titolo:
se è politica c’è mediazione
Ci ritroviamo per la redazione aperta di Via Dogana 3, Libreria delle donne (tel. 02 70006265), info@libreriadelledonne.it
riprendiamo il tema dell’odio politico, introducono:
Marisa Guarneri, Se si chiama “politico” c’è mediazione,
Luisa Muraro, Elogio del femminismo mediatore di libertà femminile.
Insieme fino alle ore tredici e passa, per ascoltare e parlare, fino alle ore quattordici e passa, per mangiare e parlare.
Arrivederci! la Redazione ristretta.
Sono arrivata alla riunione di Via Dogana del 10 novembre “l’odio politico esiste, così come esiste la passione politica. Esiste anche tra donne?” attirata di più dalla parola “passione”. Era su quello che volevo sentire parlare in un momento in cui la mia passione politica inciampa di continuo nel potere disseminato nelle istituzioni dove sono impegnata.
Avevo da un po’ di tempo voglia di sentire parole della “Libreria”, sentivo un bisogno quasi fisico, che esprimevo con la frase “tornare alla casa della madre” con le mie amiche e con Vita Cosentino che mi ha invitato a partecipare alla riunione. Poi la discussione si è focalizzata sull’odio e io, nella mia presunzione, mi sono detta “non mi interessa io non odio mai”. Ma man mano che ascoltavo le parole di altre/i mi è tornato in mente un episodio di molti mesi fa.
Sono consigliera comunale a Sesto San Giovanni e, finita una riunione della Commissione di cui sono presidente, sul piazzale del palazzetto comunale, mi sono trovata intrappolata in una violenta discussione con altre consigliere e consiglieri di maggioranza. Era appena uscito un articolo sul Giorno relativo al fatto che in una piscina comunale della nostra città, una società sportiva aveva organizzato un corso per sole donne mussulmane, in un orario in cui solitamente la struttura è chiusa al pubblico. Era esclusa la presenza di uomini. Lo scambio si è fatto molto animato soprattutto quando io ho affermato che mi sembrava una buona cosa e che quello creato era uno spazio di possibile libertà femminile.
Tutte le donne presenti parlavano di situazione sbagliata, di arretramento culturale, di pericolo per le libertà conquistate da noi donne occidentali, del fatto che noi dovevamo insegnare loro a stare con tutti e spingerle alla ribellione, non appiattirsi sulle loro usanze. Nell’ascoltare quelle argomentazioni urlate con veemenza ho immaginato donne occidentali che strappavano con violenza il velo alle donne mussulmane e ho provato un sentimento d’odio, unito a un altro, quasi di spavento. Con che donne stavo facendo questa esperienza di politica amministrativa, da che donne ero circondata, cosa c’entravano con me?
Non mi interessava la ridicola posizione di alcuni maschi presenti che si sentivano discriminati perché non potevano entrare in piscina in un orario che non era mai stato aperto al pubblico e che non era interessato loro fino a quel giorno. Era l’atteggiamento e i ragionamenti delle donne presenti, che li supportavano e si sentivano a loro volta minacciate, che mi lasciava sconcertata e senza più parole. Mi sembrava di dover ricominciare il discorso sulla libertà femminile, sull’emancipazione e la differenza, dall’inizio. Sono andata via, senza salutare, arrabbiata, disgustata e depressa. Con il sentimento di estraneità che faceva a pugni con la mia voglia di esserci nella cosa pubblica: perché il mondo è anche mio, non solo loro.
Il giorno dopo mi sono trovata con le donne della mia associazione “Le Malandre” con cui faccio volontariato organizzando un centro di aggregazione giovanile sotto l’egida del Comune. Ho raccontato loro quanto accaduto, anche con una certa ansia, chiedendo cosa ne pensassero. Con parole calme e atteggiamento rilassato mi hanno detto di essere favorevoli all’esperimento del corso e hanno cominciato ad argomentare e a raccontare come le loro nonne e madri avevano trovato spazi di libertà e solidarietà in incontri, magari in parrocchia, di sole donne. Abbiamo parlato a lungo anche della paura che portava alcune mie colleghe consigliere ad assumere atteggiamenti di chiusura. Lo scambio con le mie socie mi ha ridato le parole che avevo perso e soprattutto ha fatto scomparire quel sentimento d’odio che mi ammutoliva facendomi sentire impotente e incapace di argomentare con calma le mie posizioni. Ho sentito di avere una comunità, ho capito che non ero sola e da quella comunità sono uscita in grado di partecipare al dibattito cittadino con argomenti comprensibili e senza quel senso di solitudine che avevo provato.
Senso di solitudine – e odio?- sentito anche quando in maniera tutt’altro che mascherata il potere si prende il posto della politica. Siccome il mondo è anche mio, con rinnovata forza cerco parole per smascherarlo pubblicamente e questo mi dà piacere e ultimamente mi fa trovare accanto anche donne che nella vicenda che ho raccontato mi erano contro.
Non condivido l’opinione di Adriana Sbrogiò sul fatto che era meglio non parlare di odio. Di odio si parla nella Bibbia, Caino e Abele ne rappresentano il simbolico più emblematico. Ne parla Dante quando giunge nel nono cerchio, il luogo ghiacciato dominio di Lucifero, ecc.
Sul problema specifico dell’odio femminile tra donne sento di dover ringraziare Sandra De Perini per il coraggio che ha avuto nell’affrontare l’argomento partendo da sé. Non ha presentato l’odio come fonte metafisica del dolore nel mondo, e nemmeno assumendo l’amore come fede in un dio necessario per la costruzione del bene sulla terra. Lei si è calata nell’esperienza sua, maturata come femminista degli anni ’70, di cui è stata protagonista in prima persona, come molte di noi, io compresa che, a differenza di lei, sono una femminista cristiana, credente senza chiesa. Di ciò va tenuto conto, o meglio, parlando a mia volta di odio voglio tenerne conto, non tanto per evocarne la forza distruttiva, quanto quella redentrice.
Credenti o non credenti tutte/i conosciamo l’odio le cui radici sono legate al potere del male, quello che conduce alle guerre fratricide e alla distruzione del nostro pianeta. Come l’amore esso fa parte di quello spazio del mistero proprio della condizione umana. La tentazione dell’odio affligge anche me in quanto partecipe di tale condizione.
Grazie al pensiero della differenza sessuale il femminismo ha messo al mondo autorità e libertà femminile.
Oggi siamo di fronte a dei poteri capaci di sottrarre quella poca o tanta autorità femminile che circola nel mondo. Ci sono poteri che si richiamano perfino a qualche dio in cielo. Che fare? Secondo Marisa Milesi occorre riconoscere il valore di sé e il senso del proprio lavoro quotidiano per difendersi da quest’odio subito e provato e fare uso del pensiero della differenza e della forza che ne deriva per salvaguardarci. Fosse vero! Purtroppo stiamo assistendo, ogni giorno sempre più impotenti, ad una continua sottrazione di autorità femminile. Questa è la verità.
Io credo che nel mistero della vita di ciascuna/o vi sia una componente soprannaturale in cui giocano con tragica forza i sentimenti dell’odio e dell’amore. Simone Weil lo descrive bene attraverso la figura di Jaffier in Venezia salva (a cura di Cristina Campo, Adelphi, 1987). È la storia di un gruppo di congiurati spagnoli che nel 1618 volevano impadronirsi di Venezia e distruggerla: “una città bellissima, perfetta, che sta per essere piombata nel sogno orrendo della forza; un uomo attento che, all’improvviso, la vede e la salva”. In questo “teatro immobile” il perno è Jaffier, il congiurato che tradisce i compagni e salva la città. In lui si rinnova la figura del giusto che blocca la corsa dell’odio.
C’è un altro testo in cui S. Weil affronta il tema della forza capace di contrastare l’odio distruttivo. Si tratta di Attesa di Dio (a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi, 2008). Leggiamo insieme alcune perle del suo pensiero: Amiamo la patria terrena. Essa è reale e resiste all’amore. È lei che Dio ci ha dato di amare; e ha voluto che ciò fosse difficile, ma possibile. Ad un certo punto, riferendosi alla morale laica delle istituzioni, continua così: Finché nella vita sociale ci sarà la sventura, finché l’elemosina legale o privata e il castigo saranno inevitabili, la separazione fra istituzioni civili e vita religiosa sarà un delitto. L’idea laica, in sé … può essere giustificabile solo come reazione contro una religione totalitaria … La religione per poter essere presente dappertutto, non solo non deve essere totalitaria ma deve mantenersi rigorosamente sul piano dell’amore soprannaturale, l’unico che le si addice. Se così fosse penetrerebbe dappertutto … Il concetto di morale laica è un’assurdità appunto perché la volontà è impotente a produrre salvezza. Ciò che si chiama morale, infatti, fa appello solo alla volontà. E proprio a ciò che essa ha, per così dire, di più muscolare.
Quando la religione cessa di essere totalitaria può accadere quello che abbiamo visto durante i funerali per Valeria Solesin, una delle vittime delle stragi del 13 novembre a Parigi. In una gremita Piazza San Marco si sono svolti i funerali laici ai quali hanno preso parte rappresentanti delle religioni cattolica, ebraica e musulmana in forma congiunta. La Comunità islamica di Venezia nel corso della cerimonia ha detto: “Valeria, la nostra comunità vuole dirti che non in nome del nostro Dio, non in nome della nostra religione, che è una religione di pace, e certamente non nel nostro nome, ti hanno assassinato”; e l’imam di Venezia Hamad Al Mohamad ha così pregato: “Chiediamo ad Allah che abbia Valeria e tutte le vittime nella sua gloria e di aiutare la sua famiglia e di proteggere l’Europa, l’Italia e questa città dal male e di pacificare le nostre anime”. E i rappresentanti dell’Unione delle comunità islamiche: “Valeria, i tuoi assassini hanno fallito perché non sono riusciti a instillare l’odio in noi e oggi siamo tutti qui per te. Il terrorismo va sconfitto, e per primi devono farlo i mussulmani che ne sono le prime vittime”.
A questo punto io do ragione a Adriana Sbrogiò: lei è una mistica dell’amore, soprattutto per il suo desiderio profondo di rompere la catena dell’odio.
Lo è anche papa Francesco. Egli infatti sta suscitando nel mondo grandi speranze di pace con la sua coraggiosa pastorale fondata non su una morale religiosa nella quale dominano le virtù terrene, ma sull’amore evangelico puro e semplice. La morale è come la trippa, diceva mia madre, la tiri come ti piace. Vedi la strumentalizzazione fatta dalla lega nord sui canti di Natale proibiti nella scuola primaria di Rozzano.
E noi donne femministe? Di autorità e libertà femminile nel mondo ne esiste ancora molta. Il mio invito è quello di riconoscerla, proteggerla, potenziarla per non farcela sottrarre, a cominciare da quelle grandi mistiche che sono, appunto, Simone Weil, Teresa d’Avila, Margherita Porete, e tante, tante altre Amiche di Dio.
Casimira Furlani (detta Mira), Firenze
Cara Sandra, ne odi troppe! Non è che l’indifferenza invece ti, ci, potrebbe proteggere da sentimenti invidiosi e meschini? L’odio dice del tuo nostro coinvolgimento amoroso, che in odio si rivolge. Io ho preferito, da tempo, l’allontanamento, l’indifferenza. Certo, capisco che l’odio mantiene il legame: anche se l’odiata lo respinge? Lo svuota? Io, da lontano, non odio nessuna. Lontana ma legata e fedele. Allora odiare solo le traditrici? Chi sono?
Ma davvero c’era gioia (o noia?) nei rapporti festosi degli anni ’70? davvero andare avanti, fuori dall’albero ha voluto dire tradirli? davvero collegarsi a un progetto politico è stato un tradimento dei legami precedenti? sarebbe terribile se fosse davvero così, e l’odio, che registra la divisione, parrebbe quasi naturale e necessario.
“Irriducibile, disgusto e fantasmi” – mein Gott meine Gottin – “Trasforma i sentimenti malefici, le paure, i profondi contrasti tra donne in orsi feroci, lupi in agguato, corvi minacciosi che volano in cerchio, pronti a scendere in picchiata”: paranoia? accidenti, Sandra, ti senti così circondata? ma da chi, da altre donne?
Certo, da come lo descrivi, lo conosci bene, l’odio: chi odia chi?
La “libertà aspra e brutale”, la conosco anch’io. Una solitudine che però non chiede parti in cui riparare.
Quelle donne lì, del disamore, del profondo disprezzo, del desiderio di vendetta, le ho viste all’opera quando ero bambina. Verso gli uomini e le altre donne loro alleate. Vecchie storie, nazismo, fascismo e tradimenti con gli uomini, nel mondo degli uomini. È ancora questo il caso? Siamo donne ancora così, fascinose affascinate e traditrici? Ma dài!
Non è necessario volersi bene tra noi, Sandra. Io ti voglio bene ma non sei tra i miei affetti diretti e principali, se ti reincontro sono affettuosa con te e riconoscente per come mi hai ospitata una volta a Mestre, un rapporto più intenso potrebbe nascere se vivessimo insieme qualche intenzione.
“L’odio politico è un’azione personale e allo stesso tempo impersonale”, questo è un bel passaggio, un passaggio vero: come impersonale quell’odio può cessare, come personale può colpirti, ma tu sai già che è anche impersonale, in fondo, e che tu sei oltre.
Però “scompiglia le truppe dei buoni sentimenti” è giusto, mai crogiolarsi in quelli altrimenti è vera quella “ambiguità di un desiderio di potere che ha intrappolato un progetto di libertà”. Ma allora società femminile, riconoscimento delle eccellenze, e libertà.
A Paola. L’odio una volta era intergenerazionale, scrivi, credo per via delle alleanze più frequenti di madri e di figlie con i padri. Davvero oggi riguarda solo orizzontalmente le figlie? O meglio, le riguarda? dato che, come scrivevo a Sandra, non mi risulta consistente un odio orizzontale, tra donne della generazione femminista. (Però di questo odio tra le figlie non saprei niente: non almeno tra le alcune amate giovani che conosco.)
“Mancanza di sufficiente amore, che chiamerei mancanza di pensiero”: che bella espressione, credo di poterla sottoscrivere e la collegherei a quanto scriveva Sandra sulla intima comunanza, sulla confortante condivisione che, interrotta, ha suscitato l’odio delle abbandonate. Non era amore pensante.
Però, Paola, quell’odio di cui tu parli, motore attivo, da conservare per le occasioni, mi pare poco odio, non vero odio, ma piuttosto disprezzo e lontananza. L’odio vero (lo ho provato solo una volta, per un uomo) è voglia di distruzione, annichilimento. Non ce n’è tanto sul mercato. Tenersi al caldo quel rancore freddo di cui tu parli? Bah, meglio liberarsene, forgive and forget, perché avvelena chi lo porta.
Cara Luisa,
spero di aver capito quello che mi chiedi. Forse era meglio che il consiglio mi fosse stato chiesto prima dell’8 di novembre e così ti avrei detto che era meglio non parlare dell’odio politico o personale che sia.
Penso che l’odio politico, quello che si manifesta a parole e che diventa poi una pratica politica tanto mortifera fino a tagliare le teste, sia quello, in questi tempi, che esercitano gli uomini che aderiscono all’isis o a qualche altro pazzo gruppo di potere. Ne esiste sempre qualcuno a questo mondo.
Anche l’odio personale è velenoso, e spesso fatale. Lo vediamo attivare da tanti uomini sulle donne che hanno amore per la libertà femminile, lo vediamo nell’infelicità che trasmettono quei soggetti che vengono essi stessi devastati interiormente prima ancora che gli effetti di quel sentimento diventino insopportabili o letali per altri.
Adesso, il consiglio che mi viene è quello di rendersi conto che non vale la pena, non sia utile continuare la riflessione sul tema dell’odio. Perché mi pare che, nell’incontro di VD 3, molti interventi fossero piuttosto artefatti, quasi che ognuna si desse da fare per poter dire qualcosa sul tema, andando a cercare nella propria vita esperienze che potessero presentarsi come odio. E, di conseguenza, si è sentito dire: eh sì, io ho odiato questa… io odio e ho odiato quest’altro… e via di seguito. Ho visto, però, anche qualche volto sconcertato, ho sentito tante incertezze e domande, forse non ben chiarite, del perché si sia scelto un argomento del genere.
Ricordo che dentro di me mi sono detta: e no, non posso lasciarmi trascinare da questi discorsi, il sentimento più forte per me è stato ed è sempre l’amore. Checché ne dicano tutti/e gli altri e le altre. Sono andata nel profondo del mio desiderio d’amore per trovare il coraggio di dire la realtà che mi ha fatto male, quella per cui avrei potuto odiare, e anche il come ne sono uscita. Questo è stato il senso del mio intervento. E tu mi hai detto anche grazie, mentre ti riprendevi il microfono.
Per questo ti consiglio di lasciar perdere, di non rilanciare quel tema. Guardando il sito, vedo che quella strada si sta bloccando da sola. Per mancanza di riscontri.
Ho visto sul sito tanti interventi buoni e belli tra i quali i tuoi, molto chiari ed efficaci e dove, secondo me, trovo amore per le donne e per la giustizia di tutti.
Le parole d’amore che ho trovato nei tuoi scritti, fin da allora, 25 anni fa, mi hanno fatto tanto bene perché ci ho creduto. E continuo a crederci.
Cara Luisa, ripeto, ti voglio bene e mi aspetto il bene. Saluti cari da Marco, anche lui in tutti questi anni ti ha sentita amica.
Se durante le feste pensi di andare da qualche parte (un tempo andavate a Venezia), siamo ben contenti se vieni/venite anche da noi.
Un abbraccio
Adriana
Domenica 8 novembre in Libreria c’è stato l’appuntamento di Via Dogana 3. La proposta del tema in discussione mi ha colta di sorpresa, con curiosità e con una certa apprensione, come spesso mi succede quando sentimenti opposti e confusi tra loro si agitano in me, ho deciso di esserci.
Gli interventi si sono susseguiti incalzanti, affrontando a viso aperto un tema che appare controverso. Per molte tra le presenti la parola odio è evocativa, rimanda a sé, alla propria storia, dove ognuna ritorna per ritrovare esperienze e ricordi anche molto lontani, fino ad un’infanzia con la guerra. E’ una parola forte, c’è chi la associa alla forza, chi dice “si odia quando si è deboli”. Si cerca di aggirare il disagio che odio ci suscita e altre parole vengono chiamate in causa, parole come rabbia e conflitto, più intessute alla trama dell’esperienza di noi donne.
Lì mi ritrovo, come già altre volte negli incontri in Libreria trovo una forte corrispondenza tra il mio vissuto e l’argomento di cui si parla. Questa volta è il sentimento della rabbia che ha una forte risonanza in me e mi fa essere lì.
Ho attraversato in questo ultimo anno un lungo periodo di depressione connesso essenzialmente alla perdita quasi contemporanea di due persone importanti: mio padre ed un’amica con cui a diciassette anni, negli anni 70, sono arrivata a Milano
La depressione mi ha sottratto forza, capacità di combattere, proprio in un periodo della mia vita in cui mi sentivo vicina ad un passo avanti: nella mia esperienza lavorativa mi riconoscevo un potenziale di forza e riuscivo ad utilizzarla per me e per altre, guadagnandone in autorità.
Dai vissuti abbandonici, sollecitati dalla perdita di affetti significativi e che a volte invadono ogni ambito della mia vita, sto provando a riemergere, e ciò che mi sta aiutando è proprio l’aver dato spazio e legittimità ad un sentimento di rabbia.
Così la rabbia mi aiuta a stare meglio perché mi sottrae alla passività che mi induce a subire e spegne la parte più vitale di me.
A volte però, la rabbia tracima e più acquisisco consapevolezza di me anche attraverso il pensiero della differenza, più mi è difficile contenerla: sento che nella sua forza, nella sua capacità dirompente si fa quasi simile all’odio poiché forse ancora non ha trovato possibilità di trasformarsi in altro, utile per me e per altre/i, così come io desidero.
Tuttavia nell’incontro di via Dogana 3 si pone con forza la questione dell’odio come sentimento politico poiché il contributo di Sandra De Perini pone in discussione l’esistenza dell’odio politico tra donne di cui lei, che molto ha messo in gioco di sé nella politica delle donne, ha fatto esperienza.
Dell’odio di cui ha scritto io trovo eco nella mia esperienza lavorativa dentro l’istituzione, in essa è circolato e circola odio con la sua portata di annientamento e distruzione.
E’ un odio connesso al potere e al suo riconoscimento tra donne; nell’ istituzione in cui lavoro le donne ricoprono ruoli di responsabilità intermedi rispetto ad altri superiori nella scala gerarchica e gestiti quasi esclusivamente da uomini.
De Perini afferma che forse potrebbe non avere più senso parlare dell’odio oggi che l’autorità femminile c’è, ma io sperimento che questa autorità non è presente nel mio contesto lavorativo. Proprio in un contesto di lavoro a rilevante presenza femminile nel quale si gioca la possibilità di dare risposte adeguate a bisogni sociali emergenti non ci riconosciamo autorità e ci adeguiamo a modelli maschili di potere.
C’è un legittimo desiderio di esserci e contare nel proprio ambito lavorativo ma anche una ricerca di potere, che ci rende inconsapevoli strumenti di un sistema maschile dominante al quale ci si adegua perché percepito come unico modello possibile per acquisire riconoscimento e visibilità.
In questo contesto può nascere un odio tra donne che definirei politico perché strettamente intrecciato con l’esercizio del potere.
Se si riconosce il valore di sé e il senso del proprio lavoro quotidiano ci si può difendere da quest’odio subito e provato e fare uso del pensiero della differenza e della forza che ne deriva per salvaguardare, per quel che è possibile dentro l’istituzione, la coerenza a sé e al senso che si vuole dare al proprio lavoro.
Forse l’ultima, in ordine di tempo, ad esserne permeata è la poetessa Anna Maria Farabbi, la quale conclude la sua guida letteraria di Perugia conducendo i suoi lettori al cimitero nuovo, alla tomba di Capitini (Perugia, Unicopli, 2014). Fra le altre cose, Anna Maria ha rilasciato un’intervista dal titolo Il mio sguardo su Capitini il 22 aprile 2014 alla rivista online “Risonanze” in cui evidenzia “la sua quotidiana creatività nel tessere modalità democratiche per accendere e scuotere la coscienza degli altri, portando frutti all’intera comunità. Consapevoli delle differenze e delle possibili condivisioni”.
E prima di lei l’ha incontrato Adriana Croci, che lavorò insieme a lui presso la cattedra di Pedagogia di Perugia per due anni, gli ultimi della vita del filosofo perugino: “NESSUNO SI ESAURISCE NEI LIMITI CHE HA è una delle sue espressioni che utilizzo di più. Non è una frase ad effetto: è un programma e una prospettiva di vita”. Parimenti all’esercizio della nonmenzogna, che “di fatto significa: impegnati con la nonviolenza a lottare per la realtà liberata”.
Luisa Schippa nel 1992 con infaticabile cura ha dato alle stampe un’edizione dei suoi scritti sulla nonviolenza; Patrizia Sargentini all’inizio degli anni 2000 si è dedicata alla ricerca del Capitini poeta, e ha pubblicato un libro su questo.
Emma Thomas, una educatrice quacchera inglese, si trasferì a Perugia nel 1944 all’età di 72 anni per lavorare con Capitini, condividendone l’orientamento libero religioso e la scelta vegetariana. Ora Emma Thomas è sepolta nella tomba rettangolare di pietra grigia, posata a terra, insieme ad Aldo Capitini, a Luigia Vera Piva e a Riccardo Tenerini. Senza essere parenti, sono insieme, nel legame.
Sarebbe però sbagliato immaginare di trovare nell’opera di Aldo Capitini una meditazione diffusamente articolata sulle donne e sul femminismo, italiano e/o internazionale. Poche sono infatti le pagine in cui il filosofo riflette su questo argomento, e anche i titoli dei suoi scritti sul tema appaiono scopertamente basati su un approccio piuttosto tradizionale: La donna nel suo posto sociale, L’educazione della donna in Italia, Le donne per la pace.
Nato nel 1899 e morto nel 1968, Capitini indirizzò i suoi interessi e il proprio impegno totale alla noncollaborazione col regime fascista, all’organizzazione reticolare dell’opposizione politica durante il ventennio, all’approfondimento teorico-pratico della nonviolenza, alla lotta per l’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia, alla costruzione di una spiritualità libero-religiosa. E a molte altre cose ancora, come la messa a fuoco della definizione di omnicrazia (il potere di tutti) e del concetto di compresenza dei morti e dei viventi.
Nelle brevi tracce del suo pensare le donne, il punto maggiormente ribadito è la necessità che non si guardi al femminile solo come dimensione privata (madri e persone amate) ma che alla sfera familiare si aggiunga “la donna sentita come amica, collaboratrice di opere, compagna sociale, essere umano autonomo” (La donna nel suo posto sociale, in Aggiunta religiosa all’opposizione, 1958). La disparità nella responsabilità pubblica “deve essere superata dagli uomini nel considerare le donne, ed essi potranno fare questo tanto più, quanto più le donne stesse lo faranno dentro di loro e nel vario loro operare”.
Un paragrafo in Le donne per la pace ricorda gli anni successivi alla Liberazione, anni in cui “la freschezza e la dedizione con cui ho visto agire le donne dell’UDI, per esempio di Perugia, la modestia e la costanza con cui hanno partecipato alla vasta opera di assistenza, di controllo amministrativo, di propaganda, è uno dei più bei ricordi di questo periodo di luci e ombre”.
Nel primo volume di Educazione aperta (1967) recensisce un libro di Enzo Santarelli dal titolo La rivoluzione femminile, scrivendo fra l’altro: “tutta la letteratura e la polemica sul problema della donna […] confluiscono oggi con la maturazione, attraverso le varie emancipazioni e assunzioni di responsabilità (questo è libertà), di una nuova umanità”.
Io ho incontrato Capitini fra il 2010 e il 2011. Avevo letto da poco Petrolio di Pasolini e quella lettura dentro di me era stata uno sparo, un’epifania. La verità riguardo il mio Paese mi era stata rivelata in modo allegorico, e io l’avevo vista. C’era stata in me una vita prima di quel libro, ci sarebbe stata una vita dopo quella lettura. A partire da lì, maturai una decisione politica, in mezzo a un’acuta sofferenza: scelsi di sottrarmi, in famiglia, a legami profondissimi, divenuti irrespirabili per me. Rinunciavo, dopo averci riflettuto con grande prudenza, alle persone più care che avevo. Davanti a me c’era il deserto. Sola, poco dopo trovai il solitario Capitini, prima nelle testimonianze dei suoi amici e amiche rimasti in vita, poi nei suoi scritti (Religione aperta, Le tecniche della nonviolenza). Grazie a Capitini provo a diventare amica della nonviolenza e mi sforzo di impostare la vita ispirandomi alla nonmenzogna, all’esercizio del parlare e dell’ascoltare nella vita quotidiana e nelle relazioni. Sono sinceramente interessata alla trasformazione dei rapporti, piuttosto che alla sconfitta delle persone che mi sono di ostacolo. Mi impegno nel recupero faticosissimo del respiro, della respirabilità degli affetti, della politica.
Un anno più tardi, incontrai Carla Lonzi. Ne avevo sentito parlare da due amiche, una mantovana e l’altra umbra. Una sua pagina mi era capitata fra le mani. Tuttavia è stato nel 2012 che mi sono immersa nelle sue opere, sbalordita dalla tempra di pensatrice che riesce a dire, a parlare di una vita in autonomia e fatta di relazioni non subìte, ma scelte. Scorreva davanti a me un’esistenza di donna che si scopre nel suo farsi, e osa dire di sé e delle altre. Qualcosa di inaudito e di inedito per me. Uscivo con sollievo dal monopolio maschile del pensiero, e dalla mia ignoranza.
Con queste persone a guidarmi, nella mia mente è sorta un’urgenza: sollecitare la necessità del superamento dell’economia basata sul petrolio, informare sulla necessità dell’esercizio della nonviolenza, far aprire gli occhi sulla necessità del riconoscimento del pensiero e dell’azione femminile. Così mi sono messa nell’impresa.
Nel 2013 ho scritto un articolo sulla relazione mancata e assente fra Carla Lonzi e Pier Paolo Pasolini, articolo che Luisa Muraro ha molto valorizzato, sorprendendomi. Poi l’8 novembre 2015 ho partecipato alla giornata sull’odio politico fra donne. Giornata che mi ha colpito e sono stata felice di aver ascoltato tante voci. In quell’occasione, come ora in queste righe, mi sono inoltrata per capire se nonviolenza e pensiero femminile avessero qualche chance di conoscersi e riconoscersi. Può darsi che questa ricerca interessi solo me. Oppure forse persone vive come Aldo Capitini e Alexander Langer (da me solo nominato l’8 novembre, e che andrebbe approfondito) entreranno nell’orizzonte di alcune/i di noi, che tesseranno nel presente una relazione, senza mancarla.
L’odio si accompagna a debolezza. Questo ho messo a fuoco durante l’incontro appassionato e partecipato di VD3. Durante, non prima, come se prima il tema non mi avesse riguardato o meglio lo avessi non dico rimosso ma di certo trascurato. Mentre le altre intervenivano alcune immagini, molto personali quasi intime, mi si sono aperte. Lo stesso mi è sembrato di sentire nelle parole di alcune: l’odio politico restava sullo sfondo, ma molto c’era comunque da dire.
Non mi dilungo su quelle immagini che essenzialmente riguardavano il primo conflitto, quello con la madre e la sua odiosa autorità e la debolezza che mi generava l’incapacità di vederla nella sua grandezza e nel vantaggio per me. Ma anche l’odio d’amore quando sei vinta, debole, non sai che fare e non obbedisci ad una sconfitta che sola può ridarti la realtà e la forza.
Ma ormai la macchina è avviata e rumoreggia. Il politico che è rimasto sullo sfondo crea nuove immagini. Non ho una particolare avversione per i cattivi sentimenti e mi è persino difficile elencarli e dividerli dai buoni. Mi piace la competizione, le antipatie mi orientano e la rabbia spesso mi fa decidere. Ad esempio.
Ma dall’odio politico col suo portato di debolezza rifuggo perché non mi fa capire niente di quello che mi sta intorno e non vedo in esso altro esito possibile che la guerra. E forse proprio l’odio, in compagnia di grandi interessi dal petrolio alle guerre di conquista, ha una bella parte nell’impedire alla politica di «inventare nuove parole e nuovi metodi» (Virginia Woolf). Cerco quindi di combatterlo al mio interno, prima che mi metta nelle condizioni di distruggere o di essere distrutta, nelle relazioni personali come nel mio rapporto con la politica.
Il caso ha voluto che in tutto questo rumoreggiare di pensieri, avviato da VD3 del 9 novembre, si sia levato dopo pochi giorni, 13 novembre, un fragore ben più alto: gli spari, le esplosioni degli attentati Isis a Parigi e le morti conseguenti.
Odio e debolezza scorrevano sullo schermo televisivo. Ho visto Hollande senza forze dichiarare lo stato di guerra e ho sentito oggi (22 novembre) Obama dichiarare «Distruggeremo l’Isis sul campo di battaglia ma non rinunceremo ai nostri valori». Ho visto allora tutta la loro debolezza. Non sanno cosa fare e affidano la loro debolezza a una forza, non loro, ma delle armi.
Domenica 8 novembre 2015 c’è stata, presso il Circolo della rosa di Milano, la redazione allargata di Via Dogana 3, che proponeva alla discussione questo tema: «L’odio politico esiste così come esiste la passione politica. Esiste anche fra donne?»
Dopo l’introduzione di Luisa Muraro e di Sandra De Perini, la discussione si è fatta subito animata e ad essa ho partecipato anch’io, con un breve intervento, dicendo che fin da giovane e anche da molto giovane, avevo provato rabbia e insofferenza nei confronti delle costrizioni e limitazioni nelle quali era blindata la mia vita di donna. Questa intolleranza, intrisa di ribellione, si traduceva in astio e rancore nei confronti non tanto delle persone preposte alla mia custodia, ma piuttosto nei riguardi di una società strutturata in modo da opprimere le donne ed escluderle da ogni umano interesse vitale.
Ho agito la mia profonda avversione freddamente, in maniera calcolata, trasformandola nel tempo in attività politica di azione, di pensiero, di parola, di scrittura; essa è stata l’energia che ha alimentato una passione durata tutta la vita.
Elogio quindi dell’acrimonia misurata, che mi ha dato slancio e vigore!