Una svolta esistenziale e politica da cui non si torna indietro
Chiara Zamboni
29 Luglio 2020
Vorrei ritornare su alcuni passaggi vissuti durante la pandemia. Si è trattato di una vera e propria esperienza del tutto nuova negli effetti che ha provocato. Le epidemie non sono nuove, ma gli effetti che questa ha creato sono stati una svolta esistenziale e politica da cui non si torna indietro. Si è trattato di un evento, che non si è concluso e che continua ad accadere nel sentire, nel percepire, nel prendere atto di una conoscenza di noi e degli altri molto più attenta. Come per uno stupore che fa aprire gli occhi sulla verità delle cose.
Ricordiamo certo come agli inizi di questo evento ci sia stata una comunità del sentire. Si è trattato di un’esperienza che io non avevo mai sperimentato. Intendo per comunità del sentire il fatto che frammenti di pensieri, immagini, fantasie formavano un tessuto di cui partecipavamo collettivamente. Enumero a caso alcune di queste immagini soggettive e anonime allo stesso tempo. Quello che si temeva, guardando la Cina, era accaduto. Ognuno temeva per sé e contemporaneamente per gli altri e tutti avevano a cuore il benessere proprio e altrui. Ci sentivamo assieme. C’erano regole di comportamento date dal governo e contemporaneamente comprendevamo che dovevamo autoregolarci. Il sentimento della morte, quello della vita e della malattia ci invadevano.
Le infinite testimonianze di vissuti attraverso lettere, racconti, interviste, hanno mostrato come frammenti di inconscio fossero offerti a una lettura comune, pubblica. Un’analisi di tutti con tutti, come è stato osservato da Manuela Fraire.
Alcuni hanno preso atto di questo sentire comune, ma l’hanno fatto in senso critico. Bisognava uscirne. Più d’uno ha sostenuto che questo sentire collettivo era accaduto, ma che era eccezionale, non rappresentava la normalità. Occorreva recuperare lo spazio del pensiero singolare. Perché la normalità sarebbe che l’interno è separato dall’esterno e che il pensare a partire da sé è fondamentale. Ho in mente in particolare un articolo di Emanuele Trevi.
C’è stato invece chi – soprattutto donne – ha avuto nostalgia di questo sentire comune quando si è affievolito. Come se quello fosse la nostra unica e vera casa. La nostra sola patria. Avevamo sperimentato di essere con tutte e tutti vicini e lontani, senza differenza, e ora invece ritornavamo ad essere più comunemente solo qualcuno in rapporto a qualcun altro piuttosto che a contatto con tutti.
Bene, risponderei che il sentire comune, che abbiamo vissuto, è stato un fatto. È stata un’esperienza che, anche se passata, non possiamo dimenticare e ricordiamo bene che cosa ha significato sperimentarla. In un certo senso non finisce fintanto che la teniamo nella nostra memoria vivente. Non solo. Ora sappiamo che è concretamente possibile. Solo che non è ripetibile per decisione della volontà.
In questo modo prendo le distanze dalla posizione di Emanuele Trevi, che a prima vista è molto ragionevole ma che mi sembra esprimere più un’esigenza maschile tradizionale. L’idea cioè che in alcuni momenti drammatici si vive intensamente con gli altri, e poi ognuno ritorna nella casa dell’io. Molto pensiero femminista ha sottolineato invece che la relazione con gli altri è avvertita come un basso continuo dal quale affiorano alcune relazioni per le quali siamo qualcuno in rapporto a qualcun altro, ma anche queste mai del tutto riportabili all’io separato dal tu. L’inconscio, il sentire, il percepire assieme sono abitualmente presenti nella relazione tra donne.
L’io non è così centrale nell’esperienza femminile proprio per questa apertura. In realtà non ho niente contro l’io, che è un pronome personale che tiene assieme linee molto diverse di vissuto. Ha dunque un suo perché. È vero però che, facendo questo, ci separa dagli altri e dal mondo. Fa sembrare inesistenti i legami corporei inconsci con gli altri.
Per questo, nel processo della pandemia, che è tanto ambiguo e in cui accadono cose che non si possono controllare con certezza, chi ha avuto un contraccolpo più forte è stato chi tende a disporre la situazione, facendosi forte di tutto ciò che l’io mette a disposizione: certezze e volontà.
Ora, per le donne, puntare sull’io è più paradossale che per gli uomini. Più straniante. E, se scommettono sull’io, crollano più facilmente. È capitato a me, che sono andata in blocco, la testa da una parte e il corpo dall’altra. È capitato ad una mia amica, impegnata ad aiutare il marito in difficoltà. Ha puntato sull’io per assumersi una grande responsabilità per il bene dell’altro, credendosi forte. È crollata nella forma per cui l’io pieno di buona volontà è andato improvvisamente per suo conto rispetto al corpo che è andato per un’altra strada.
Le amiche che hanno affrontato meglio la pandemia sono quelle che sono rimaste all’interno degli accadimenti senza forzare né con rappresentazioni certe della realtà né con progetti volontaristici dell’io. Vivendo dentro l’ambiguità della situazione, accettando la sua non chiarezza e continuando però a interrogarla. A sperimentarla. A intuire al suo interno forme per una nuova convivenza nel suo sorgere.