Una pratica della Pandemia
Rinalda Carati
11 Gennaio 2021
Care amiche, quanta confusione in questi giorni. Spero di strapparvi un sorriso anti-depressione dicendo che “preferivo” la situazione ignorante del lockdown di primavera.
Ripenso spesso a quei mesi perché li ho vissuti prendendomi cura (con l’aiuto di Alberto, ma del tutto priva degli altri piccoli aiuti che nella quotidianità precedente – che mi rifiuto di chiamare normalità – mi sollevavano, almeno per qualche ora ogni tanto, da alcune incombenze) della mia mamma novantaseienne, inevitabilmente esposta al bombardamento mediatico sulla brutta fine di tante persone anziane, spaventatissima e, proprio per questo, più richiestiva, più bisognosa, più fragile. È stata in qualche modo una esperienza estrema, che mi ha portata quasi al limite delle mie risorse.
Lì in quella fatica che in qualche momento mi è sembrata senza speranza ho incontrato dentro di me la necessità di distinguere vita e sopravvivenza. La mia amatissima Rosetta Stella mi aveva indirizzata in questo senso, quando diceva, lei lo diceva benissimo, io lo riprendo come riesco, che la sopravvivenza è il contrario della vita. Mi sembra utile da tenere a mente. Intanto perché aiuta a tenere insieme i due estremi di ciò che viviamo nella Pandemia, da una parte l’isolamento e la solitudine, dall’altra l’essere lì tutti quanti insieme in questo passaggio. Le regole che ci vengono indicate attengono la sopravvivenza, mi pare. Individuale, della specie? Non lo so.
La vita invece chiede impegno soggettivo, e rischia ogni attimo di passare in secondo piano, forse perché vita e morte si toccano, è proprio quasi impossibile pensare l’una senza l’altra. Eppure il mondo in cui siamo ha fatto della morte un gran rimosso fino a “ieri”, per poi esibirla nella pandemia.
Si parla moltissimo di razionalità scientifica, di oggettività, della necessità di affidarsi a quel livello di indicazioni. Da un lato capisco, dall’altro provo disagio in proposito: come se mi si chiedesse di spegnermi… Poi mi verrà detto quando “riaccendermi”, ma come sarò diventata in questo “dopo”?
Così molto banalmente cerco di interrogarmi su quello che faccio e di orientare su questa distinzione le scelte quotidiane. È una specie di pratica della Pandemia, mi esercito a cercare dove finisce “vita” e comincia “sopravvivenza”. Cerco di fermarmi su quel crinale, ascoltando la paura e il desiderio, e cercando di confrontare il mio sentire con quello di chi ancora mi sopporta.
Ho ascoltato con grandissimo interesse l’introduzione di Ida Dominijanni all’ultima riunione di Via Dogana, mi è sembrata molto bella: ha segnalato diverse questioni, tutte importanti, che mostrano come molto di quanto detto e trovato nella ricerca del femminismo italiano del quale mi sento parte stiano diventando più visibili nella situazione attuale.
Le parole di Ida a me non sono sembrate un “ricapitolare”. Mi hanno fatto pensare: come possono essere rigiocate, rilanciate quella ricchezza di pensiero e di pratiche?
Segnalo solo – tra le tante cose – quella che a me interessa di più: forse perché mi pare la più ambigua. Come si legano e si slegano tra loro “libertà relazionale”, “spoliticizzazione”, “questione del desiderio” (e dunque dell’erotismo o al contrario della depressione)? Mi sembrerebbe utile, e mi piacerebbe, lavorare sulla trasgressione, questione che – mi pare – attraversa tutte le altre, ma “diversamente” per ognuna. Trasgredire mi sembra molto difficile, in un mondo di narrazioni che rimasticano e digeriscono di tutto, riportando ogni cosa alla normalità, e alla norma. Difficile, ma erotico. Servono anche altre parole, sul cui senso contendere? A me piace molto nominarmi “alterata” (comprende anche ascoltare i sentimenti di indignazione, quando li provo), e mi piace “femminismo della libertà”.