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C’è un libro di Diotima, La Sapienza di partire da sé, a cui è inevitabile tornare per riproporre questa politica sorgiva del femminismo, come una possibile politica per l’oggi, per donne e uomini. Da quel volume vorrei riprendere la riflessione di Luisa Muraro sulla posizione del soggetto perché chiarisce uno degli aspetti più controversi che si incontrano nel riproporre il partire da sé in un’epoca la cui cifra è il narcisismo.

Come mi ha fatto notare Ida Dominijanni nella redazione aperta di Via Dogana 3, oggi il sistema dei media e dei social è tutto incentrato su una versione distorta del partire da sé: è un gigantesco Ego che si moltiplica e che fa a pugni con altri Ego. Segnala, quindi, il rischio che questa pratica venga macinata dalle forme egemoniche della comunicazione. La consapevolezza di questo rischio, in una partita che comunque va giocata, mi spinge a sottolineare che gli aspetti da mettere più in luce nel riproporlo riguardano il fatto che è una pratica relazionale e non individuale, come già argomenta Chiara Zamboni nella sua introduzione. 

Nel suo saggio, Luisa Muraro dice che con questa pratica si scopre «il soggetto – me – non in posizione di soggetto ma di complemento: trovo me in relazione con gli altri, abitata da ricordi, mossa da desideri. Trovo dunque desideri che mi muovono, ricordi che mi occupano, altre o altri che mi parlano». E poche righe dopo la descrive come «una pratica di decentramento dell’io, il cui posto viene preso da una pluralità di istanze parziali, in un gioco di rimandi» (pag. 20).

Seguendo questa impostazione, il “me in relazione con” delinea una posizione soggettiva che non sta tutta appoggiata sull’individualità del soggetto, in quanto lo pensa intessuto dalle relazioni che lo collegano a situazioni e contesti reali, che stanno concretamente in questo mondo e non vivono astrattamente nella mente. D’altra parte è anche una pratica che preserva dal “noi” identitario, perché agendo in contesto coinvolge altre e altri, ma crea uno spazio comune mobile e fluido, che dura quanto dura, e quindi non si solidifica mai in una qualsivoglia organizzazione o identità collettiva. Quindi, a mio modo di vedere, la sua forza sta nel fatto che si situa tra l’individuale e il collettivo e in questo senso è una politica che è quasi un antidoto sia all’individualismo narcisista che all’arroccamento identitario. 

Come altre che scrivono in questo numero, anche io penso che per le donne il partire da sé sia una pratica che continua a essere efficace nel femminismo, ma che è andata anche ben oltre questo ambito, coinvolgendo donne di ogni tipo. Se infatti di recente è ripartito il #MeToo nelle università e nel mondo del teatro, non mancano segnali che ci raccontano questa estensione. Un piccolo esempio: giorni fa alla trasmissione Tutto scorre di Radio Popolare si parlava della parola “cambiamento” e quasi tutte le donne che chiamavano al microfono aperto dicevano in vario modo che il cambiamento, anche quello della società, parte dal cambiamento di sé.

Per quanto riguarda gli uomini bisognerebbe capire meglio. Sicuramente il partire da sé è riconosciuto come un principio generatore nel mondo intellettuale e della cultura, anche ufficiale. Non è stata certo una giuria femminile quella che ha assegnato il premio Nobel per la letteratura ad Annie Ernaux, un’autrice capace di scrivere l’intero mondo nella fedeltà al partire da sé. Si sta vedendo, però, che anche intellettuali maschi lo hanno fatto proprio per produrre opere parlanti a un vasto pubblico. Ho in mente Marco Bellocchio con il suo docufilm Marx può aspettare, in cui con sguardo lucido mostra se stesso, i fratelli e le sorelle nella rievocazione del suicidio, a soli ventinove anni, di Camillo Bellocchio, il fratello gemello, nel dicembre del ’68. Lo stesso regista parlandone in una intervista online considera una verità quasi scontata che «la creatività inizia con la nostra stessa vita, con come abbiamo vissuto» (filmtv.it). Un’altra opera che mi ha sorpreso di recente è stato il docufilm 16 mm alla rivoluzione. Il regista Giovanni Piperno vuole parlare del comunismo, anzi meglio vuole fare i conti con il comunismo. Ci mostra molti materiali di archivio alternati a una conversazione con Luciana Castellina. Alla prima impressione sembra un materiale un po’ caotico, ma poi si comprende che a fare da filo conduttore è la sua storia personale, fin da quando bambino veniva portato dai genitori alla sezione del PCI. Certo sono esempi che riguardano attività intellettuali creative e quindi più facilmente legate alla soggettività, ma sono comunque segnali di un cambiamento che è in corso.

Ma c’è anche dell’altro. In questo nostro tormentato presente, vivo ogni giorno l’angoscia per la guerra incombente. Attraverso i media siamo continuamente a contatto con l’orrore di guerre sempre più crudeli nei confronti della popolazione, di stragi sempre più efferate, di uccisione di donne a ripetizione da parte di uomini a loro vicini. Orrori che si aggiungono ad orrori. Qualcuna poi ha detto che «la terza guerra mondiale è già cominciata sui social» per la violenza verbale che lì si esercita, nascondendosi dietro uno schermo. In questo panorama orribile, che mai avrei pensato di vivere, ci sono stati due atti che mi hanno profondamente colpito perché hanno avuto la forza di aprire degli squarci e hanno fatto vedere che si può esserci. Entrambi sono ispirati dal partire da sé. Il primo è stato l’appello Mai indifferenti – voci ebraiche per la pace che ha il grande merito di essere una posizione che è riuscita a parlare, restando fuori dagli schieramenti e dalle contrapposizioni guerresche. L’altro atto significativo ai miei occhi è stata la presa di parola della sorella e del papà di Giulia Cecchettin dopo il suo assassinio. Le loro voci hanno prodotto uno scatto nella consapevolezza come mai era successo prima e non intendono fermarsi. Infatti è appena uscito il libro Cara Giuliascritto da suo padre, che vuole continuare a parlare.

A ben guardare entrambi questi atti hanno una caratteristica in comune: sono donne e uomini insieme, ma che stanno in un rapporto asimmetrico in cui gli uomini ascoltano quello che dicono le donne. L’appello Mai indifferenti, come ha raccontato Renata Sarfati, una delle promotrici, nell’incontro di Via Dogana 3 nasce da una sorta di autocoscienza, fatta assieme ad alcune amiche ebree di fronte al massacro del 7 ottobre ad opera di Hamas e alla risposta ancora più cruenta del governo di Netanyahu. Poi tutto il resto è seguito. Nel secondo caso il papà di Giulia ha ascoltato le parole dell’altra sua figlia Elena e da lì ha cominciato a parlare anche lui. Sono dinamiche nuove in cui si intravvede un processo di attribuzione di autorità alla parola femminile. E che pongono ancora il femminismo davanti a uno storico problema: non si va a un cambio di civiltà senza l’apporto anche degli uomini. Certo non di tutti.