Una domanda aperta
Massimo Lizzi
19 Maggio 2017
C’è un linguaggio della differenza maschile per se stessa, indipendente dai linguaggi della complicità e della rivalità tra uomini? un linguaggio che la fa parlare senza l’armatura dell’universale-neutro-astratto-oggettivo, e rende dicibile la verità soggettiva, e questo, non solo in poesia, anche nella prosa della vita ordinaria?
Comincia a esserci. Ma per ora, lo sfondo resta neutro-maschile, e su questo spicca una differenza femminile che fa, tanto per cambiare, la parte dell’Altro.
Il problema che poniamo non è tanto l’ingiustizia della condizione umana femminile, ma la qualità del discorso. Intendiamo, con ciò, l’ordine simbolico per una civiltà terremotata dalla fine del patriarcato, dove si moltiplicano le questioni che hanno a che fare con la vita sessuale. Che le domande almeno siano ben poste.
Gli strumenti simbolici a disposizione sono limitati e sostanzialmente neutro-maschili. Non aiutano nessuno. Per verificarlo, ricordiamo la vicenda della legge sulla procreazione assistita, la 40 del 2004, esempio di cacofonia del simbolico maschile. Sconfitti tutti con inevitabile ma non benefico ricorso alla magistratura.
Dove va a parare il discorso con cui vi invitiamo alla redazione allargata?
Senza esagerare ma dando corda all’immaginazione, pensiamo alla possibilità di far fruttare la differenza sessuale sul piano soggettivo e relazionale, pensiamo cioè a un esito di tipo etico che potrà eventualmente svilupparsi in diverse direzioni, dal diritto alla scuola, dalla religione all’arte. (Redazione ristretta di Via Dogana)
Intervento di Massimo Lizzi
La domanda che compare nell’invito (se esiste un linguaggio della differenza maschile che renda dicibile la sua verità soggettiva) è una domanda aperta, che resterà aperta, perché io non posso osare una risposta. Quello che posso tentare, è dare un senso al linguaggio che parlo io.
Di norma, parlo un linguaggio neutro-oggettivo. Di tanto in tanto mi scappa qualche affermazione strana, che qui mi dicono essere un’espressione della mia verità soggettiva, ma io non mi rendo ben conto di come scelgo di parlare e perché, anzi quando qui sono sollecitato a parlare in forma soggettiva, mi sento in difficoltà e sento pure un moto di irritazione, come se mi venisse posta una regola alla quale fatico ad adattarmi.
Frequento questo luogo da tre anni, ma provengo dalla cultura politica della sinistra, quella che ha come suo valore centrale l’uguaglianza, l’articolo 3 della Costituzione e che vede nella differenza un ostacolo da rimuovere. Per comprendere il pensiero della differenza, ho trovato un appiglio nel pensiero socialista, che dal lato del rapporto tra i sessi era emancipazionista, ma per le ragioni sue aveva il senso della critica al concetto astratto di individuo e di cittadino: per i marxisti dietro quel concetto c’era il borghese e così facevano valere la differenza sociale; per le femministe c’è il maschio e così fanno valere la differenza sessuale. Queste due operazioni di svelamento sono, per me, somiglianti e questo mi ha permesso di introdurmi al pensiero della differenza.
Parlo il linguaggio tradizionale e mi sono formato l’idea che esprimersi nel linguaggio della verità soggettiva richiede una libertà che non sento di avere. Nemmeno in una situazione come questa: io dico cose a cui do un significato; voi le ascoltate e potete dargliene un altro, o disapprovare; possono sorgere fraintendimenti, tensioni, contrasti. Può finire male, quindi devo stare bene attento a quello che dico. Come? Facendo il più possibile riferimento a verità condivise, dunque alla verità oggettiva. Questo è un ambiente, per me, relativamente amichevole e posso non preoccuparmi, ma in un’assemblea sindacale, in una riunione di partito, in un congresso, dovrei di certo preoccuparmi di più, se non per l’aspetto che in quei contesti avrei le idee più chiare su quali sono le verità condivise, mentre qui concetti e linguaggi talvolta mi sono oscuri e sfuggenti. Per esempio, al concetto di differenza, nella mia cultura, corrisponde un oggetto da definire, un significato, mentre qui, se capisco bene, lo si intende come un soggetto che definisce, un significante.
Come succede che, ogni tanto, io dica qualcosa che qui è percepito come verità soggettiva? Credo succeda così: il linguaggio neutro-oggettivo ci educa a cercare il fondamento delle cose che diciamo in fonti d’autorità a noi esterne: sistemi di valori che presiedono lo stato, la chiesa, l’azienda, la comunità scientifica, il partito, il movimento, etc. Questo ci mette in una posizione alienata. Se la mia soggettività, la mia esperienza, non sono fondative del mio pensiero, perdono di importanza e non è, quindi, per me, necessario ascoltarle, osservalrle, conoscerle. Può capitare – ammettiamo che ne abbia la competenza – che io faccia un discorso sulla procreazione assistita e mi pronunci contro l’interruzione programmata della relazione materna con argomenti medico-scientifici. Con questo discorso, farei valere una fonte d’autorità scientifica, che mira alla verità oggettiva, mi sentirei in sintonia e non avvertirei alienazione.
Vi sono però situazioni nelle quali si sostiene razionalmente un discorso, senza sentirsi realmente in sintonia, situazioni nelle quali la corda dell’alienazione dalla propria soggettività si tende troppo. Una macchietta, in un vecchio programma di Renzo Arbore, diceva spesso: «non capisco, ma mi adeguo». Mi è successo di agire così, pensando che poi l’adeguamento sarebbe venuto: sono io quello impreparato, gli altri del mio gruppo ne sanno di più, poi capirò, intanto li seguo, sperando in una prossima riconciliazione tra il mio sentire e il loro pensare. Questo talvolta riesce, talvolta no. Quando non riesce, mi ribello alla pressione conformistica e mi esprimo in atti liberatori. Credo mi capiti così di riuscire a mettere in parole, anche con frasi strane, la mia verità soggettiva.
Qualcosa del genere mi capitò molti anni fa, con lo scioglimento del PCI. In una prima fase provai a sostenere razionalmente la svolta, perché il mio ambiente nel partito la sosteneva, era la linea del segretario, della maggioranza e il mondo andava in quella direzione. Ma quella posizione non la sentivo mia; la riconciliazione con la mia soggettività non avvenne e alla fine ribaltai la mia collocazione fino a rompere tutti i miei rapporti. Più di recente, mi è capitato nella vicenda di Maschile plurale, che mi ha portato qui. In una fase iniziale, a partire dall’incontro con voi, ho seguito l’orientamento che pratica il conflitto nella relazione, con il sottotesto che ad essere prioritaria è la preservazione della relazione, quindi il conflitto passa, la relazione resta. Un orientamento che non ho mai sentito mio, perché, secondo me, se un conflitto importante su questioni dirimenti si risolve in modo insoddisfacente o non si risolve, ad essere messa in discussione è la stessa relazione. Così, alla fine, forse in modo non troppo composto, mi sono riappropriato della posizione che sentivo mia.
La domanda sul linguaggio della differenza maschile che dica la sua verità soggettiva, chiede (o presume) che sia un linguaggio diverso da quello della complicità o della rivalità tra maschi. Tuttavia, credo, qualsiasi comportamento e linguaggio maschile, anche il più genuino, si espone al rischio di cadere in uno di questi due coni d’ombra: la complicità e la rivalità. O perché sono motivazioni comunque almeno parzialmente presenti nel comportamento maschile; o perché sono due stereotipi che permettono di interpretare un comportamento che non si capisce o che non si ha voglia di mettersi a capirlo; o perché sono due interpretazioni manipolatorie: si attribuisce e si accusa rivalità, per indurre alla comprensione, oppure si attribuisce e si accusa complicità, per indurre alla critica.
Se non c’è separazione tra il modo in cui siamo e il modo in cui siamo visti e ci comportiamo, per essere riconosciuti secondo forme già definite, l’espressione della soggettività maschile sta in rapporto con le inclinazioni ritenute maschili. Nel libro Differenza di genere e differenza sessuale. Un problema di etica di frontiera (Orthotes, 2017), il curatore Carmelo Vigna ha scritto un saggio in cui descrive le inclinazioni dei due sessi, pur precisando che si tratta di ciò che avviene mediamente di più tra gli uomini e tra le donne e che ciascuno di un sesso può ben imparare l’inclinazione dell’altro sesso. Tra queste, dice, l’uomo è portato al compito e per il compito è disposto a sacrificare il legame; la donna è portata al legame e per il legame è disposta a sacrificare il compito e, talvolta, la sua stessa vita. In questa inclinazione femminile è stata vista una grandezza femminile, che io, in verità, non riesco a vedere, non sono capace di ammirare le donne che danno la priorità ai legami, eppure è strano, perché io soffro molto quando una donna rompe il legame con me, dovrebbe dunque convenirmi e dovrei saper apprezzare l’inclinazione femminile che privilegia il legame. E poiché mi riconosco nella priorità del compito, l’espressione della mia soggettività sarà fedele a questa inclinazione.
Noi uomini femministi abbiamo una propensione, più che all’autocoscienza, all’autocritica, come quella che si facevano i comunisti: elencavano tutti i loro errori e alla fine non riuscivano a salvare più niente della loro storia. Quando diciamo che un certo modo di (pensare, dire, agire) è tipicamente maschile, stiamo dicendo che non va bene e che sarebbe meglio cambiarlo. Io stesso penso così, tendo a credere che della maschilità non si salvi nulla e, però, capisco che è un problema, perché con questa idea divento una tabula rasa che si consegna alle femministe affinché ci scrivano sopra quello che vogliono. Cosa che, in effetti, le femministe tendono a fare. Credo che il modo di essere della maschilità dobbiamo riconoscerlo come parzialità e differenza, in quanto non possiamo pretendere che le donne vi si adattino, nell’adesione alla finzione della neutralità. Il nostro modo di essere vale solo per noi, ma dovrebbe valere, mentre nel movimento delle donne accade spesso solo un ribaltamento: la maschilità è messa radicalmente in discussione, noi ci adattiamo alla differenza femminile e accettiamo il rifiuto di qualsiasi faccia del maschile, perché è sempre una faccia della stessa medaglia.
Mi è piaciuto molto, perciò, nell’introduzione, il riferimento che ha fatto Luisa Muraro allo spirito cavalleresco. Qualcosa che, paradossalmente, è disprezzato dalla cultura progressista e da una parte del femminismo. Cito un episodio. In preparazione della giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne, un gruppo di uomini in Sicilia ha organizzato una sua manifestazione. Per pubblicizzare l’iniziativa ha concepito una immagine nella quale si vede una donna aggredita rannicchiata sulle gambe, un uomo in piedi che le offre un fiore e con l’altra mano tiene a distanza l’aggressore. Questa immagine è stata tempestata di critiche, perché rappresenta lo stereotipo della donna vittima, dell’uomo che salva la donna, etc. Una critica che ha il suo fondamento. Tuttavia, penso questo: un gruppo di uomini, non educato, istruito da una consuetudine di relazioni con il femminismo, che vuole iniziare ad impegnarsi contro la violenza, dove trova le risorse nella cultura e nella storia del suo sesso, per esprimere questa volontà di impegno? Io la vedo nello spirito cavalleresco. L’immagine dell’uomo che difende la donna è la prima che viene in mente. Se è la faccia della stessa medaglia, è la faccia che può evolvere.
Se l’espressione della verità soggettiva maschile richiede libertà, un po’ più di libertà ce la potete concedere. E d’altra parte credo anche che ci faccia bene pensare che non siamo i primi uomini, solo emulatori del femminismo. Tra le cose tipicamente maschili da superare, c’è questa volontà di essere i primi, gli iniziatori, i capostipiti. Invece, nella storia, sono esistiti, prima di noi, altri uomini che si sono sottratti in tutto o in parte al patriarcato ed hanno trovato un rapporto di migliore e più civile convivenza con le donne. Così come le donne femministe hanno riscoperto le proprie genealogie, anche gli uomini femministi, anziché disprezzarle, possono provare a riscoprire le loro.