Un medico a Gaza
Silvia Marastoni
19 Giugno 2025
Ezzideen Shehab non ha ancora trent’anni, è nato e cresciuto a Jabaliya, e dopo dieci anni vissuti all’estero, dove si è laureato, è tornato a Gaza e ha dedicato la sua vita a curare. Ma quella missione gli è stata sottratta, ha scritto nell’ottobre scorso in un articolo pubblicato da The Nation che, nonostante il tempo passato, vale ancora la pena di leggere (e di cui riportiamo qualche passaggio): «Gli strumenti di cui ho bisogno per curare vengono distrutti, e le vite che ho giurato di proteggere vengono decimate. […] Ho visto i bambini morire perché abbiamo esaurito qualcosa di così basilare come gli antibiotici. Molti dei miei colleghi sono stati uccisi, semplicemente per aver fatto il loro lavoro. Altri sono stati bloccati in aree pericolose, incapaci di raggiungere gli ospedali dove sono così disperatamente necessari. Ogni giorno rischiamo la nostra vita, sapendo che anche i luoghi destinati a guarire sono diventati bersagli. […] Settantadue membri della mia famiglia sono stati uccisi. Ospedali, scuole e case – luoghi destinati a proteggere – sono stati cancellati. Ogni spazio che una volta prometteva la sicurezza è stato trasformato in polvere. […] Ho perso il conto di quante volte io e la mia famiglia siamo stati sfollati. Siamo stati costretti a fuggire da un edificio distrutto all’altro, alla ricerca di sicurezza che non esiste».
Dal giugno 2024 ha raccontato quel che ha visto e vissuto nella Striscia e nelle strutture sanitarie in cui ha operato (tra cui il Pronto Soccorso dell’Indonesian Hospital e l’Alrahma Medical Centre) anche dall’account personale che ha aperto su X (ex Twitter), in cui si presenta così: «Hello, sono un medico a Gaza. A volte uno scrittore. Che rivela storie nascoste, una voce per chi non ha voce. Testimone delle profondità più oscure dell’umanità».
«Ogni giorno mi muovo tra le rovine, cucendo ferite che il mondo non vedrà mai. E di notte scrivo, perché certe verità non possono restare sepolte», dice ancora nell’appello apparso sulla piattaforma di Chuffed.org con cui chiede sostegno per poter pubblicare il suo primo libro (aperto alle sottoscrizioni fino al prossimo 19 luglio). «Se le mie parole vi sono arrivate, non è per caso. È perché il dolore esige di essere testimoniato. […] Aiutatemi a portare questo libro nel mondo. […] perché la memoria, una volta scritta, non può essere cancellata».
Il suo ultimo messaggio su X è del 12 giugno scorso. È stato visualizzato, ripostato, condiviso e pubblicato in tutto il mondo innumerevoli volte. Da alloradi lui non si hanno più notizie.
Non c’è internet.
Non c’è segnale. Nessun suono. Nessun mondo al di là di questa gabbia.
Ho camminato per trenta minuti tra rovine e polvere. Non in cerca di una via di fuga, ma di un frammento di segnale, quanto basta per sussurrare: «Siamo ancora vivi».
Non perché qualcuno stia ascoltando,
ma perché morire inascoltati è la morte definitiva.
Gaza ora è in silenzio.
Non con la pace, ma con l’annientamento.
Non un silenzio di quiete, ma di soffocamento.
Hanno tagliato l’ultimo cavo.
Nessun messaggio parte. Non entrano immagini.
Anche il dolore è stato proibito.
Ho incrociato i cadaveri di edifici, di case, di uomini, alcuni che respiravano, altri no.
Tutti cancellati dalla stessa mano che ha cancellato le nostre voci.
Questo non è un assedio di sole bombe.
È un assedio della memoria: una guerra contro la nostra capacità di dire «Noi eravamo qui».
I bombardamenti non si sono mai fermati, soprattutto a Jabaliya.
Bombardano le strade dove i bambini chiedono l’elemosina.
Bombardano le file dove le madri aspettano la farina.
Bombardano la fame stessa.
Niente cibo. Niente acqua. Nessuna uscita.
E chi ci prova, chi cerca aiuto, viene colpito.
Qui la gente muore e nessuno lo sa.
Non perché l’uccisione si sia fermata, ma perché l’uccisione della connessione è riuscita.
Internet è stato il nostro ultimo respiro.
Non era un lusso; era l’ultima prova della nostra umanità.
Ora non c’è più.
E nel buio, massacrano senza conseguenze.
Ho trovato questo debole segnale SIM come un uomo morente trova una fiammella.
Mi sono trovato sotto un cielo spezzato, rischiando la morte, non per salvarmi, ma per inviare questo.
Un unico messaggio.
Un’ultima resistenza.
Se state leggendo, ricordate:
abbiamo attraversato il fuoco per dirlo.
Non siamo stati silenziosi.
Siamo stati messi a tacere.
E quando i collegamenti saranno ripristinati,
la verità sanguinerà attraverso i fili,
e il mondo saprà ciò che ha scelto di non vedere.