Un luogo sicuro nella voce di altre donne
Sara Campeggi
26 Marzo 2024
La spontaneità è un privilegio che io, da donna, sento di non avere. Spontaneità sottintende immediatezza, un agire istintivo, un porsi nel mondo con naturalezza senza calcoli preparatori, tutte situazioni che io, da donna, non posso permettermi. Non è che non possieda tale caratteristica, la spontaneità, perché essa non rientra nella mia natura femminile, ma perché in quanto donna nel momento in cui sono spontanea devo poi fare i conti con le conseguenze della mia spontaneità.
Questo avviene in ogni ambito della vita: quando esprimo un’opinione, quando decido cosa indossare, che strade percorrere, chi frequentare, cosa fare nel mio tempo libero… tutto potrà essere usato contro di me e ognuno si sentirà in diritto di esprimere un giudizio sulla mia persona. Ogni volta che cammino nel mondo io so di non essere mai in uno spazio neutro e sento di abitare un contesto che per definizione mi è ostile e con cui entrerò inevitabilmente in conflitto ogni volta che agirò da donna libera. È per questo motivo, secondo me, che le donne hanno inventato la pratica del partire da sé e perché questa scelta si è rivelata vincente, ieri come oggi. Il mondo è cambiato ma la mentalità maschile mantiene la sua egemonia e le donne si trovano ancora a doversi conquistare spazi di libertà, non solo fisici ma anche mentali e immaginari. È per questo che molte donne, consapevolmente o meno, scelgono di partire da sé. Le donne scelgono una pratica, attività che implica non solo un agire concreto ma anche esercizio, conoscenza e relazione, e lo fanno perché sentono che il contesto che abitano crea in loro una sensazione di malessere, malessere a cui devono dare un nome per poterlo affrontare e poterlo esporre nel mondo. Partono da sé perché devono farlo, perché nel silenzio, nel sottrarsi ad un contesto che non le rispecchia, possono interrogarsi, imparare ad accettarsi per quello che sono, rafforzando le loro idee e la loro identità. In quel silenzio si diventa consapevoli e ci si chiede «sono pronta a gestire le conseguenze di quello che dirò e di quello che farò da questo momento in poi?» per poi scegliere di agire. Questa domanda me la sono fatta anch’io per tanto tempo, e finché non mi sono sentita sicura o in luogo sicuro ho sempre scelto il silenzio. E quello che mi fa sentire al sicuro, ho scoperto, ha a che fare con la fiducia. Fiducia in me stessa, quando sento di averla, ma soprattutto fiducia di altre donne nei miei confronti. Le donne che si rendono disponibili all’ascolto senza essere giudicanti, che sono aperte alla relazione, che possono capire il mio vissuto perché condividono l’esperienza di essere donna e che creano spazi alternativi; ecco, loro sono il luogo sicuro dove è possibile rompere il silenzio e partire insieme verso qualcosa di trasformativo.
Questo luogo sicuro, per me, sono state Silvia Protino e Angelica Pirro, grazie al loro podcast A Day in a Female Life – Racconti di ordinaria violenza1. L’evento dirompente accaduto nella mia vita, il malessere di cui ho fatto esperienza, mi ha portata nella dimensione del silenzio. Silenzio in cui mi sono richiusa da sola per sottrarmi al mondo esterno ma anche a me stessa, e l’ho fatto per molto, troppo tempo. In quel silenzio ho cercato di dare un nome a quello che mi era accaduto e a quello che stavo provando, cercando di definire un qualcosa che era tanto difficile da nominare quanto da accettare. E quando ho trovato le parole mi sono resa conto che non c’era un luogo sicuro dove indirizzare la mia nuova consapevolezza perché il mondo esterno non era accogliente per me. Nel mondo esterno, maschile e subdolamente patriarcale, le mie esperienze venivano minimizzate, il mio vissuto veniva messo in discussione, i miei bisogni erano inascoltati. Siamo nel 2024 e ci sembra che essere donna non sia più sinonimo di discriminazione. Ci siamo dette che ora siamo libere e che gli uomini non hanno più potere su di noi, che il patriarcato è finito. Eppure quando si parla di violenza maschile ci sentiamo ancora sole e ci chiudiamo nella nostra solitudine. Quando si parla di violenza maschile sappiamo che non possiamo affidarci alle forze dell’ordine, alla legislazione, alla politica o al contesto culturale in cui viviamo. Quando si parla di violenza maschile, quando si vive questo malessere, si può trovare accoglienza solo nell’egida altre donne che sperimentano questo stesso malessere. È così che ho trovato il mio luogo sicuro, nella voce di altre donne che hanno raccontato le loro esperienze e che mi hanno fatto capire che non sono sola. Che non sono io il problema. Che il malessere di una interessa tutte e riguarda un intero contesto. È con questo partire da sé che si creano le relazioni trasformative, che interessano prima noi stesse e poi tutto il contesto che viviamo.