Un goccio di crema al whisky
Wanda Tommasi
9 Dicembre 2022
All’università di Verona ho lavorato per più di trent’anni, non mirando né alla carriera a tutti i costi – infatti di carriera ne ho fatta ben poca, il minimo sindacale, diciamo – né tantomeno a posti di potere: questi ultimi proprio non li avrei voluti, li ho sempre evitati come la peste. D’altro canto, nessuno me ne ha mai proposti. Meno male: si capiva che non puntavo a quello.
Ciò che contava per me, ciò che mi dava piacere era l’accendersi di una luce nello sguardo di una/o studente, di un’ascoltatrice di una mia conferenza o di una lettrice di un mio libro: quella luce era indizio di sintonia, di comprensione, di complicità, e poteva dare inizio talvolta a una relazione o a un’amicizia, che andava ben oltre i rispettivi ruoli, istituzionali o meno.
La relazione fondante, fonte sorgiva della mia politica in università, è sempre stata quella con Chiara Zamboni: una relazione politica, ma sorretta anche da un’amicizia profonda e autentica. Ricordo tuttora il piacere che ci concedevamo ogni lunedì pomeriggio, quando entrambe avevamo l’orario di ricevimento studenti: per un quarto d’ora, ci ritiravamo nel mio studio a scambiarci pareri sulle/gli studenti, a fare il punto della situazione, a cercare una misura per come muoverci in università e per contrastare la governance neoliberale che stava avanzando, per orientarci politicamente. La nostra breve conversazione era sempre accompagnata da un piccolo brindisi: bevevamo un goccio di crema al whisky, un liquore a bassa gradazione alcolica, perché poi bisognava essere lucide per le/gli studenti. Per me Chiara è stata ed è tuttora una donna, una pensatrice, una filosofa, a cui riconosco una grandissima autorità. I frutti politici della nostra relazione erano visibili da tutti e ovunque in università, nei Consigli di Dipartimento così come in qualsiasi altra riunione accademica.
Il femminismo della differenza mi ha insegnato che l’autorità bisogna attribuirla a donne degne di fiducia, le quali non sono necessariamente quelle che stanno più in alto, che ricoprono ruoli di potere. Io e Chiara, dal punto di vista della gerarchia accademica, eravamo assolutamente alla pari.
Ricordo una discussione vivace, avvenuta circa un anno fa in Diotima, sulla questione dell’autorità femminile: alcune tendevano ad attribuire autorità solamente a donne di potere in Europa, come Angela Merkel, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde. Mentre la prima aveva guadagnato effettivamente autorità trasformando nel tempo la sua politica e andando a uno scambio autentico con la realtà, le altre due non apparivano altrettanto degne di fiducia. Chiara osservò che occorreva maggiore attenzione per attribuire autorità a donne prive di visibilità mass-mediatica, come le contadine del Nordest del Brasile, con le quali una giovane ricercatrice di Diotima era in contatto e che lottavano – e lottano tuttora – per creare una situazione fertile con la loro terra in una comunità, sia politica sia religiosa, ad autorità femminile. Spesso, per saper riconoscere e nutrire l’autorità femminile, non occorre guardare verso l’alto: basta guardarsi intorno.
Per me sicuramente Chiara e anche le contadine del Nordest del Brasile sono più degne di fiducia di quelle che hanno sfondato il tetto di cristallo: con queste ultime – con l’attuale premier italiana Giorgia Meloni e con la ministra Eugenia Roccella, per fare due nomi di attualità in Italia – non sento alcuna sintonia per la politica di destra a cui appartengono, benché m’interessi stare a vedere che cosa faranno, dal momento che sono pur sempre donne; quindi è in gioco la differenza sessuale che mi sta a cuore e che m’interpella. Tuttavia, là dove c’è massima esposizione pubblica nella politica istituzionale, è più difficile individuare semi di autorità in dispositivi e ruoli nati per il potere.
In ogni caso, ritengo che un buon criterio per decidere se una donna sia degna di fiducia sia il fatto che lei non si consegni tutta alla logica del potere, della carriera o dei soldi. Non tutta: se il suo centro di orientamento è altrove, nel piacere di coltivare relazioni, nella cura della vita, nel gusto della bellezza e nella gioia di aiutare a fiorire ciò che sta nascendo, si può riporre in lei la fiducia che merita.
Questo ce lo insegnano le nostre autrici mistiche. Il loro baricentro era altrove rispetto al già dato, al già pensato, rispetto al reale realizzato: era in un infinitamente piccolo sottratto alla logica del potere e della forza per Simone Weil, era in un Dio salvato dentro di sé nel mezzo della violenza della seconda guerra mondiale e della Shoah per Etty Hillesum. Pur senza giungere alle loro sublimi altezze, possiamo anche noi anteporre al potere, alla carriera o al denaro, il piacere che deriva da relazioni autentiche, politiche o di amicizia, coltivate per un guadagno d’esserci di entrambe le persone coinvolte, e possiamo contare sul fatto che queste relazioni non strumentali siano la leva per smuovere una realtà pietrificata e per far fiorire altro, di cui intravediamo le potenzialità latenti e che spetta a noi, grazie alla fecondità delle relazioni, portare verso il meglio.