Un desiderio nascente
Fosca Giovanelli
30 Giugno 2025
Tra fine febbraio e inizio marzo ho letto per la prima volta “Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne”, libro edito nel 1987 dalla Libreria delle donne di Milano. Eppure, solo in vista di questa redazione aperta ho compreso che, da febbraio, io non ho mai smesso di leggerlo. Oggettivamente non è un volume infinito e non presenta migliaia e migliaia di pagine, ma è un testo che, nella sua finitezza, è in costante divenire. Questo suo divenire non si inserisce in una categoria statica, situata e astratta, ma si fa corpo e accoglie ogni piega del reale.
«Per una donna […] per diventare grande, in ogni senso del termine, c’è bisogno di una donna più grande di sé», infatti, la pratica dell’affidamento è ciò che «mette fine alla sterilità simbolica del sesso femminile». Solamente vivendo la Libreria ho potuto comprendere come il contenuto della citazione consista nell’aver assegnato parole e significato ad un significante che è esperienza trasformativa in quanto vissuta. È per questa ragione che le donne della Libreria sono riuscite a costruire, a mantenere e a diffondere un ordine simbolico altro. A questo proposito, mi piacerebbe trattare una questione affrontata più volte sia nel testo (cfr. Non credere di avere dei diritti) sia nelle discussioni in presenza, ovvero quella dell’invidia. L’invidia è uno degli strumenti attraverso cui il sistema capitalistico si alimenta, costringendo i soggetti a produrre compulsivamente per essere ancor più performanti. Non solo questo sentire è rimasto immutato nella dimensione reale, ma ha assunto nuove declinazioni negli spazi virtuali. Un esempio lampante è la cosiddetta FoMO (Fear of Missing Out). Questa nuova forma di malessere coincide con il timore di perdersi esperienze ed è scatenata dalla possibilità di assistere in diretta alla bellezza delle vite altrui, mostrate ed esibite sulle varie piattaforme virtuali. La FoMO porta, inoltre, a idealizzare l’interiorità e i modi di vivere di coloro che scegliamo di “seguire” sui social. Questo genera un senso di smarrimento, di inadeguatezza e soprattutto di invidia corrosiva. Anche a me capita di riscoprirmi invidiosa e di idealizzare morbosamente ciò che concerne l’alterità. Quello che mi ha stupito incredibilmente è la modalità in cui, interiorizzando le pratiche del femminismo della differenza e tessendo relazioni con le altre donne che agiscono in questo luogo incredibile, ho imparato a convertire l’invidia in ammirazione verso donne più grandi di me, il cui desiderio alimenta il mio e lo trasforma da potenza in atto. Siccome diventa attuale e si inserisce nella realtà è politico. In altri termini: l’affidamento è una delle pratiche alla base della libertà femminile, ciò che permette al desiderio di ognuna di attuarsi, di cambiare il reale e creare senso in modo nuovo e vitale.
A questo punto della riflessione mi pongo alcune questioni. Come dimostrato, i social media e la conseguente possibilità di osservare gli aspetti positivi delle vite altrui generano un senso di invidia distruttiva e di depressione. Ma sarebbe possibile, per la mia generazione e anche per quelle precedenti, pensare un modo alternativo di abitare i social? Se i social prescindono dalla presenza e dall’essere corpo come può il desiderio nascere e incarnarsi? Le pratiche della politica delle donne trovano la loro ragion d’essere nella presenza. Io su tutto questo non ho risposte precise. Ciò che so con certezza è che non è possibile rigettare l’immanenza della vita, ma solo accoglierla e trovare un modo per starci dentro.
Infine, grazie alla Libreria delle donne di Milano, ho capito questo: vedere soluzioni nuove nella problematicità del sistema dato non è impossibile. Ci sono riuscita: ho convertito quell’invidia distruttiva, che è un sentire che da sempre mi ha reso estranea a me stessa, in un sentire che agisce contro tale sensazione. Un’invidia generativa, un desiderio nascente, che mi permette di affidarmi.