Testi/pretesti, pura felicità
Rosaria Guacci
6 Aprile 2025
Il pieno uso delle nostre facoltà produce felicità. La felicità ci fu data ai tempi in cui mettemmo mano alla scrittura del cosiddetto Catalogo giallo Romanzi. Le madri di tutte noi, a cura della Libreria delle donne di Milano e Biblioteca delle donne di Parma.
Erano gli anni ’80 e fra noi amiche più strette vigeva la consuetudine di parlare dei romanzi che ci erano piaciuti, così come oggi ci chiederemmo l’un l’altra quali viaggi ci piacerebbe fare, quali lavori e cose simili.
Storie? Tutte Storie? No, Lia Cigarini aveva sdoganato il romanzo come fonte di libertà per una donna soprattutto durante la sua formazione, sottraendolo alla sensazione di “piacere vergognoso” di cui godere in segreto, non parlandone in pubblico come fino ad allora molte l’avevano inteso. Allora si pensò di dividerci in gruppi di lavoro, ognuno dedicato alle scrittrici che ci erano più piaciute: le madri simboliche per noi essenziali.
Andammo da loro e da loro prendemmo. E restituimmo.
Come al mercato, quel mercato della felicità di cui nel 2016 avrebbe poi scritto Luisa Muraro nel libro omonimo, partendo dall’episodio biblico della messa in vendita di Giuseppe da parte dei fratelli gelosi della sua bellezza e dell’amore per lui del padre Giacobbe. Il figlio aveva tessuto al padre una tunica dalle lunghe maniche e anche noi avremmo intessuto abiti che volevamo perfetti per le scrittrici prescelte. Ci immettemmo dunque al mercato col poco che avevamo per acquistare il meglio, come la vecchietta che, nella narrazione di Luisa, si era messa in fila coi suoi gomitoli di lana per acquistare Giuseppe, il soggetto/oggetto più bello. “L’importante è il desiderio, anche quello di ciò che ci sembra impossibile da ottenere, perché il reale non è indifferente al desiderio e non assiste indifferente alla passione del desiderare. Il mondo è salvo solo al patto che coloro che lo abitano abbiano aspettative incommensurabili ai propri mezzi e non perdano mai la fiducia di essere destinati a qualcosa di grande”.
Ecco, noi volevamo la madre scrittrice che nel suo splendore non avevamo mai avuto o che avevamo piuttosto perduto, con la speranza di ricostruire quell’oggetto simbolico, fors’anche fino ad allora trovato mancante, impreziosendolo con un filo d’oro (il nostro desiderio, la nostra passione) come si vede in certi vasi kintsugi della tecnica giapponese.
I gruppi di lavoro si erano quindi scelti. Il metodo di lavoro era formidabile: il lavoro collettivo delle molte, orizzontale, reciproco, dove ognuna pensava, scriveva, aggiungeva, cancellava e il risultato parziale veniva di volta in volta sottoposto all’assemblea delle tutte.
Ci eravamo divise, forse un po’ ingenuamente, in seguaci delle scrittrici “vincenti” o “perdenti”. (Era nell’aria la “voglia di vincere” partendo dallo “scacco”, che Lia aveva messo a tema nel cosiddetto Gruppo n. 4. Nel 1983, due anni dopo la stampa del Catalogo giallo, il lavoro di quel gruppo sarebbe esitato nel “Sottosopra verde” Più donne che uomini chiamato anche “Voglia di vincere”.)
Noi intendevamo come perdenti le scrittrici che si erano mantenute in un’apparente indifferenziazione (le sorelle Brontë) o in quello che a noi sembrava vuoto, riempito di troppe parole, e avevano terminato le loro vite col suicidio (Sylvia Plath, Virginia Woolf). Era ancora lontano il tempo in cui una critica come Liliana Rampello avrebbe riscattato nel suo Canto del mondo reale la leggerezza, la perfezione, la lietezza della vita di Virginia laddove la morte rappresentava uno degli episodi e non il più significativo.
Tornando a noi, il risultato finale del Catalogo fu che le pagine scritte sulle “perdenti” mi sembrarono le più soddisfacenti e compiute dell’intero testo.
Fatto quindi salvo il metodo di lavoro, cosa cercavamo? Testi/pretesti da cui partire per prendere ma anche dare. Nulla sarebbe accaduto se non ci fossimo innamorate di parole o frasi che possedevano, per noi, luce. Pagine di scrittura risolta stando all’interno del nostro genere e nell’esperienza del nostro genere che trovava le parole recettive nell’esperienza.
Il viaggio era dall’approssimazione all’esattezza massima a noi possibile. Volevamo penetrare il “luogo nascosto della materia prima” (Lispector), l’accumulo di vita prima non registrata restando protette dalla figura materna. Che “era lì. Era lì fin dall’inizio” (Woolf). Alle sue spalle c’era un’assenza.
La prima lotta fu quella contro il linguaggio appreso, non materno, quello che invece ci avrebbe permesso di rivedere la realtà con quel segno che prima avevamo perduto: ora ci serviva riguadagnare di nuovo quello che era già in noi, “vecchie cose diffuse senza nome” (Adrienne Rich), che premevano forte per uscire.
Provammo “vivide sensazioni di apertura”. Come se fossero a portata di mano “cose straordinarie invece della frustrazione di situazioni che prima ci toglievano ogni piacere” (Carla Lonzi, Autoritratto). E nel contempo continuavamo la ricerca al fondo di noi stesse di “una parola migliore e ancora migliore di quella migliore” (Colette).
Come già detto, il metodo di lavoro fu squisitamente collettivo; fu messa in essere la ricerca, credo compiuta, di una genealogia femminile grazie anche alla parzialità riconosciuta delle attribuzioni. Furono due anni di pura felicità. Il catalogo “Le madri di tutte noi, ristampato tre volte, è sotto gli occhi del mondo.