Szymborska, versi ribelli alla catalogazione e indifferenti al peso della sorte
Valentina Parisi
30 Marzo 2025
da il manifesto
Da uno scherzoso componimento liceale a una strofa buttata giù alla vigilia della morte: le poesie «disperse» vengono ora raccolte da Andrea Ceccarelli sotto il titolo «Racconto antico», da Adelphi
Cimentandosi nel 1996 in quel particolarissimo genere letterario che è il discorso di accettazione del premio Nobel, Wisława Szymborska deplorava con la consueta ironia il carattere «nient’affatto fotogenico» del proprio mestiere. Nessun regista, a suo dire, si sarebbe mai arrischiato a girare un documentario sulla vita quotidiana di un individuo che «fissa con lo sguardo immobile la parete o il soffitto, di tanto in tanto scrive sette versi, dopo un quarto d’ora ne cancella uno, dopodiché passa un’ora in cui non accade nulla… Quale spettatore reggerebbe uno spettacolo simile?» Peggio ancora, questa sequenza soporifera si sarebbe verosimilmente conclusa con l’attimo in cui il poeta insoddisfatto, dopo tante tribolazioni, annienta i frutti imperfetti del proprio lavoro.
All’esercizio dell’auto da fé Szymborska si dedicava in effetti con una certa ostinazione – lo dimostra il fatto che al momento dell’attribuzione del Nobel fosse autrice di soli nove esili volumetti di poesie, di cui due (quelli degli esordi real-socialisti risalenti a mezzo secolo prima) disconosciuti e mai più ripubblicati.
Eppure nel suo caso il reiterato ricorso al cestino della carta straccia – da lei ritenuto lo strumento più prezioso per chi scrive – non era motivato esclusivamente da una spasmodica tendenza all’autocritica. Altrettanto stringente doveva sembrarle l’imperativo etico di utilizzare con morigeratezza quel potere quasi stregonesco che offre la scrittura: retrocedere al «paradiso perduto della probabilità», addentrarsi tra gli interstizi del possibile e fondare così, sulla base degli elementi trascelti, un ordine diverso da quello esistente. Se scrivere è innanzitutto «la vendetta di una mano mortale», ovvero la creazione di un mondo alternativo di cui l’autore stringe strettamente in pugno le «sorti indipendenti», è chiaro che di un simile dono non si dovrebbe abusare, pena l’incorrere in quei pericoli che Szymborska aborriva, e cioè nel chiacchiericcio o, peggio, nella falsità.
In un lungo arco temporale
Considerando la propensione dell’autrice verso questa sorta di ecologia della creazione, sembra tanto più straordinario che a tredici anni ormai dalla sua scomparsa escano ancora poesie inedite, non incluse in nessuna raccolta pubblicata in vita, ma nemmeno distrutte. Poesie che difficilmente potrebbero essere raggruppate sotto una rubrica diversa da quella di «disperse» scelta da Andrea Ceccherelli per il sottotitolo di Racconto antico, proposto ora da Adelphi a sua cura (pp. 140, € 13,00). L’ampiezza dell’arco temporale (si va da uno scherzoso componimento liceale a una strofa messa su carta alla vigilia della morte), nonché l’ovvia eterogeneità dell’intonazione, rendono infatti impossibile individuare fra questi versi un minimo comune denominatore. Al contempo, non è difficile intravedervi quell’interrogazione tenace e spesso stupita del reale che costituisce la cifra inconfondibile della poetessa polacca. Così come pressoché immutata nel tempo rimane la sua tendenza a procedere secondo una logica accumulativa, che ai risvolti concreti dell’essere affianca innumerevoli varianti irrealizzate.
Queste eventualità inopinatamente scartate dal destino talora restano, a volte, perfino implicite, consegnate a un pudico, quanto scherzoso non detto: «Se mai le cose potessero parlare – / ma se parlassero, potrebbero anche mentire. / Soprattutto quelle ordinarie e poco apprezzate, / per attirare finalmente l’attenzione. // Mi spaventa l’idea / di cosa mi direbbe il tuo bottone caduto, / e a te la mia chiave di casa, / vecchia mitomane».
Altrove, la vita potenziale degli oggetti si condensa in apologhi spassosi, invariabilmente conclusi da appelli edificanti alla gioventù comunista. È il caso di Favole sulla vita delle cose inanimate del 1949, dove la poetessa – allora ventiseienne – immagina le possibili sorti di un libro che, non essendo mai stato letto da nessuno, decida di leggersi da solo; inoltre, di una stufa intenzionata a cambiare quotidianamente nome, a seconda del santo o della santa celebrati quel giorno: e, ancora, di un letto pigro, convinto che non esista nulla di meglio del sonno.
L’alternativa del «se mai» assume tonalità affatto diverse in La dialettica e l’arte, forse una delle poesie più «dissenzienti» di Szymborska, uscita a Parigi sulla rivista dell’emigrazione polacca «Kultura» nel 1985 sotto pseudonimo, e significativamente non inclusa nella raccolta successiva, Gente sul ponte, uscita l’anno seguente. Qui l’autrice passa in rassegna le prevedibilissime conseguenze derivanti per un poeta dal sottomettersi supinamente alle direttive del potere politico o, al contrario, dall’ignorarle: «La tua opera, artista, è sulla bilancia della sorte / Se dirai Sì / subito acquisterà peso / Se dirai No / ne perderà all’istante / Se dirai Sì / diventerai finalmente / migliore dei peggiori / perché i peggiori saranno quelli che hanno detto No».
Quando tutto è bianco o nero
Umori non meno sediziosi trapelano da La tribuna, dissacrante ritratto di non meglio specificate autorità militari e civili, che evoca alla mente i Generali dipinti da Enrico Baj. Più malinconica è invece la riflessione metapoetica contenuta nel componimento dedicato a František Halas, poeta ceco che, malgrado la sua militanza di sinistra e il ruolo attivo svolto nella Resistenza, divenne oggetto di una sorta di damnatio memoriae in epoca staliniana. Irridendo il manicheismo propagandato dall’alto («Semplifichiamo il mondo. L’erba sappia / che anche il suo colore o è bianco o è nero»), la poetessa polacca osserva ironicamente come le «vie di un tempo, non perfettamente rette» non siano ormai più tollerate.
Forse ha origine proprio da questa constatazione la sua successiva tendenza a deviare dagli schemi precostituiti («Sono, ma non devo / esserlo, una figlia del secolo») per progettare «un mondo nuova edizione /, riveduta», che risponda unicamente alle regole della scrittura. È la prospettiva aperta in Racconto antico, forse la più bella tra le «poesie disperse», riemersa dall’archivio del marito dell’autrice Adam Włodek. Sancendo qui per la prima volta l’autonomia assoluta dell’universo letterario rispetto a quello reale, Szymborska afferma scherzosamente il carattere veridico di ogni narrazione, dal momento che chi scrive non può fare a meno di condividere, soprattutto nei momenti più lieti, le esistenze di carta dei suoi personaggi: «L’autore giura che era lì al banchetto / con gli sposi, a bere vino centenario, / che nel mondo non descritto è troppo caro».