Svelate le “prigioni” segrete di riabilitazione dell’Arabia Saudita per le donne disobbedienti
Tom Levitt, Deepa Parent
28 Maggio 2025
dal Guardian
Ragazze e giovani donne raccontano di aver subito fustigazioni e abusi nelle cosiddette “case di cura” dopo aver litigato con i loro padri o mariti
Una giovane donna che indossa un’abaya nera è fotografata in una città del nord-ovest dell’Arabia Saudita, in piedi precariamente sul davanzale di una finestra al secondo piano. Una seconda fotografia mostra un gruppo di uomini che la scortano giù con l’aiuto di una gru.
L’identità della donna è sconosciuta, ma si dice che fosse detenuta in una delle “prigioni” notoriamente segrete dell’Arabia Saudita, destinate alle donne cacciate dalle loro famiglie o dai mariti per disobbedienza, relazioni sessuali extraconiugali o assenza da casa.
Si è trattato di un raro esempio della difficile situazione di centinaia o più ragazze e giovani donne che si ritiene siano detenute in tali strutture, dove vengono “riabilitate” per poter tornare dalle loro famiglie.
Parlare in pubblico o condividere filmati di queste “case di cura”, o dar al-reaya, è diventato impossibile in un Paese in cui le voci sui diritti delle donne sembrano essere state messe a tacere. Ma negli ultimi sei mesi, il Guardian ha raccolto testimonianze su come si vive all’interno di queste istituzioni, descritte come “infernali”, con fustigazioni settimanali, insegnamenti religiosi forzati e nessuna visita o contatto con il mondo esterno.
Si dice che le condizioni siano così insostenibili che si sono verificati diversi casi di suicidio o tentato suicidio. Le donne possono trascorrere anni rinchiuse, impossibilitate ad andarsene senza il permesso della famiglia o di un tutore maschio.
«Ogni ragazza che cresce in Arabia Saudita sa cos’è la dar al-reaya e quanto sia orribile. È un inferno. Ho cercato di togliermi la vita quando ho scoperto che mi avrebbero portata lì. Sapevo cosa succedeva lì alle donne e ho pensato “Non posso sopravvivere”», racconta una giovane donna saudita che in seguito è riuscita a fuggire in esilio.
Maryam Aldossari, un’attivista saudita che vive a Londra, afferma: «Una ragazza o una donna resterà lì dentro per tutto il tempo necessario ad accettare le regole».
Mentre l’Arabia Saudita celebra l’assegnazione della Coppa del Mondo maschile FIFA e si promuove meticolosamente sulla scena mondiale come paese riformato, le donne che hanno osato chiedere pubblicamente maggiori diritti e libertà hanno dovuto affrontare arresti domiciliari, carcere ed esilio. Le attiviste affermano che le case di cura del paese sono uno degli strumenti meno noti del regime per controllare e punire le donne e ne chiedono l’abolizione.
I funzionari sauditi hanno descritto le case di cura, istituite in tutto il Paese negli anni ’60, come luoghi in cui si fornisce «rifugio a ragazze accusate o condannate per vari reati» e affermano che vengono utilizzate per «riabilitare le detenute» con l’aiuto di psichiatri «al fine di restituirle alle loro famiglie».
Ma Sarah Al-Yahia, che ha avviato una campagna per abolire le case di cura, ha parlato con diverse ragazze che descrivono un regime violento, in cui le detenute vengono sottoposte a perquisizioni corporali e test di verginità all’arrivo e in cui vengono somministrati sedativi per addormentarle.
È una prigione, non una casa di cura, come amano chiamarla. Si chiamano con i numeri. «Numero 35, vieni qui». Quando una delle ragazze palesava il suo cognome, veniva frustata. Se non pregava, veniva frustata. Se veniva trovata sola con un’altra donna, veniva frustata e accusata di essere lesbica. Le guardie si radunavano e guardavano mentre le ragazze venivano frustate.
Yahia, che ora ha trentott’anni e vive in esilio, racconta che i suoi genitori la minacciavano di mandarla alla dar al-reaya da quando aveva tredici anni. «Mio padre la usava come minaccia se non avessi obbedito ai suoi abusi sessuali», racconta, aggiungendo che ragazze e donne potrebbero trovarsi di fronte al terribile dilemma di scegliere tra dar al-reaya e rimanere in una casa dove regna la violenza.
«Rendono impossibile ad altri aiutare le donne in fuga dagli abusi. Conosco una donna che è stata condannata a sei mesi di carcere per aver aiutato una vittima di violenza». Dare rifugio a una donna accusata di “assenteismo” è un reato in Arabia Saudita.
«Se subisci abusi sessuali o rimani incinta di tuo fratello o di tuo padre, sei tu quella che viene mandata a dar al-reaya per proteggere la reputazione della famiglia», afferma.
Amina*, venticinque anni, racconta di aver cercato rifugio in una “casa di cura” a Buraydah, una città nell’Arabia Saudita centrale, dopo essere stata picchiata dal padre. Dice che l’edificio era “vecchio, fatiscente e inquietante” e il personale “freddo e indisponente”. Hanno sminuito la sua esperienza, racconta Amina, dicendole che le altre ragazze stavano “molto peggio” ed erano “incatenate a casa” e le hanno detto di «ringraziare Dio che la mia situazione non fosse poi così grave».
Il giorno dopo, il personale ha convocato suo padre, racconta Amina, ma ha fatto ben poco per proteggerla. «Ci hanno chiesto di mettere per iscritto le nostre “condizioni”. Ho chiesto di non essere picchiata o costretta a sposarmi e di poter lavorare. Mio padre mi ha imposto di rispettare tutti, di non uscire mai di casa senza permesso e di essere sempre scortata da un accompagnatore. Ho firmato per paura: sentivo di non avere scelta».
Una volta tornata a casa, racconta Amina, le percosse sono continuate e alla fine è stata costretta a fuggire in esilio. «Ricordo di essere stata completamente sola e terrorizzata. Mi sentivo prigioniera in casa mia, senza nessuno che mi proteggesse, nessuno che mi difendesse. Mi sembrava che la mia vita non contasse nulla, che anche se mi fosse successo qualcosa di terribile a nessuno sarebbe importato», racconta.
Le ragazze imparano ad aver paura delle dar al-reaya fin da piccole. Shams* racconta che aveva sedici anni quando una ragazza che era stata in casa di cura fu mandata alla sua scuola. Raccontò alla classe di aver iniziato una relazione con un ragazzo e di essere stata presa dalla polizia religiosa e costretta a confessare tutto al padre. Dopo essere rimasta incinta, la sua famiglia la ripudiò e il padre le impedì di sposarsi, così fu mandata alla dar al-reaya. «Ci disse che se una donna ha rapporti sessuali o una relazione diventa una “donna di poco valore”. Se sei un uomo, rimarrai sempre un uomo, ma se una donna si rende di poco valore, lo sarà per tutta la vita».
Layla*, che vive ancora nel Paese, racconta di essere stata portata in una dar al-reaya dopo aver denunciato alla polizia il padre e i fratelli. Afferma che hanno abusato di lei e poi l’hanno accusata di aver gettato la vergogna sulla sua famiglia pubblicando sui social media un post sui diritti delle donne. È rimasta nella casa di cura finché suo padre non ha acconsentito al suo rilascio, nonostante fosse lui il suo presunto aggressore.
«Queste donne non hanno nessuno. Potrebbero restare ripudiate per anni, anche senza aver commesso alcun reato», afferma un’attivista saudita per i diritti delle donne che desidera rimanere anonima. «Le uniche vie d’uscita sono un tutore maschio, il matrimonio o buttarsi giù dall’edificio. Uomini anziani o ex detenuti che non trovavano moglie ne cercavano una in questi istituti. Alcune donne li accettavano come unica via d’uscita».
Alcuni uomini sauditi sostengono che se una è lì se lo merita o che le donne dovrebbero esser grate al governo per le strutture che le proteggono, afferma Fawzia al-Otaibi, un’attivista costretta a fuggire dal Paese nel 2022.
«Nessuno osa twittare o parlare di questi luoghi. Nessuno chiede di te quando ci vai. Fanno vergognare le vittime», dice Otaibi.
Le attiviste affermano che se il regime saudita prendesse sul serio i diritti delle donne, riformerebbe il sistema delle case di cura e fornirebbe rifugi adeguati e sicuri alle vittime di abusi. «Ci sono donne che hanno brave famiglie che non abusano di loro né le rinchiudono», afferma un’attivista saudita che ora vive in esilio. «Ma molte vivono sotto rigide restrizioni e subiscono abusi in silenzio. Lo Stato sostiene questi abusi con queste istituzioni. Esistono solo per discriminare le donne. Perché le autorità saudite permettono loro di rimanere aperte?»
L’organizzazione per i diritti umani ALQST afferma che le strutture di dar al-reaya sono note in Arabia Saudita come strumenti statali per far rispettare le norme di genere e «sono in netto contrasto con la narrativa delle autorità saudite sull’emancipazione femminile».
La responsabile delle campagne, Nadyeen Abdulaziz, afferma: «Se intendono seriamente promuovere i diritti delle donne, devono abolire queste pratiche discriminatorie e consentire l’istituzione di veri e propri rifugi che proteggano, anziché punire, coloro che hanno subito abusi».
Un portavoce del governo saudita ha affermato che esiste una rete di strutture di assistenza specializzate che supportano i gruppi vulnerabili, tra cui donne e bambini vittime di violenza domestica. L’istituzione ha respinto categoricamente le accuse di reclusione forzata, maltrattamenti o coercizione.
«Questi non sono centri di detenzione e qualsiasi accusa di abuso viene presa sul serio ed è soggetta a indagini approfondite… Le donne sono libere di uscire in qualsiasi momento, per andare a scuola, al lavoro o per altre attività personali, e possono andarsene definitivamente quando vogliono, senza bisogno dell’approvazione di un tutore o di un familiare».
Ha inoltre affermato che le segnalazioni di violenza domestica vengono ricevute su una hotline dedicata e riservata e che tutti i casi vengono gestiti rapidamente per garantire la sicurezza delle persone coinvolte.
(*) I nomi sono di fantasia.