Che umanità vogliamo essere?
Tahereh Toluian
10 Febbraio 2019
Quello delle migrazioni è un tema che mi sta particolarmente a cuore. Mi riguarda in prima persona e da diversi punti di vista. Devo la mia nascita all’immigrazione. Mia madre è italiana e mio padre un immigrato iraniano. Conosco quindi la fatica della ricerca delle necessarie mediazioni quando si incontrano mondi diversi.
La mia lingua madre è l’italiano, sono nata e cresciuta qui in Italia e ho la cittadinanza italiana ma tengo molto alle mie doppie origini che per me hanno significato una doppia appartenenza e contemporaneamente una doppia estraneità.
Dalla rivoluzione del ’79, per molti anni, la mia famiglia ha offerto prima accoglienza a donne, uomini e bambini che scappavano dall’Iran. Ho quindi familiarità con la determinazione e la forza del desiderio di felicità di chi lascia il proprio paese, andando incontro ad altro e altri, anche quando l’unico movente sembra essere la necessità che non lascia spazi di libertà.
Ho vissuto due volte l’esperienza dell’emigrazione, in condizioni molto diverse. A sedici anni ho dovuto lasciare la Sicilia, in seguito a minacce e intimidazioni mafiose, perché mio padre era uno degli imprenditori che si rifiutava di pagare il pizzo. Mia madre, per proteggerci, volle portare me e mio fratello a Milano. Siamo partiti di notte, di nascosto, senza salutare né amici né parenti. Per mesi non abbiamo potuto metterci in contatto con nessuno. Fu uno strappo violento.
E poi a trent’anni, con mio figlio ancora piccolo, ho seguito mio marito negli Stati Uniti, dove gli veniva offerta un’interessante occasione di lavoro e ricerca.
So quindi cosa significa dovere ma anche volere lasciare il luogo in cui si è nati e cosa significa ricostruirsi un mondo nel luogo in cui si arriva. Ma so bene che la mia è un’esperienza da privilegiati: ho comunque il passaporto giusto.
Per le mie origini, mi trovo in una posizione che non è fissa. Un punto di vista, il mio, in continuo movimento tra dentro e fuori. E quindi oggi la deriva nazionalista, il risentimento, l’odio, la criminalizzazione degli stranieri, espressioni come “sostituzione etnica”, mi colpiscono profondamente, mi sento chiamata in causa, parlano anche di me. Al di là del fatto che le mie preoccupazioni siano fondate, mi chiedo se in futuro ci sarà posto per me e i miei figli in Italia, se dovrò lasciarla e se ci sarà un luogo in cui saremo accolti.
La violenza delle parole che circolano, i numerosi episodi di violenza razzista contro stranieri o italiani dalla pelle nera, mi fanno paura. E allo stesso tempo molta rabbia, mi sento tradita. E mi chiedo che effetto faccia tutto questo sui giovani immigrati, sui giovani di seconda e terza generazione. Mi chiedo che futuro stiamo costruendo con loro.
Come parte di questa comunità che è l’Italia, inserita in una più grande che è l’Europa, io vivo sulla mia pelle quotidianamente le difficoltà della crisi economica. Conosco la fatica del non lasciarsi annientare dal senso di impotenza e anche di umiliazione, a cui vorrebbe condannarmi un sistema, enormemente più grande di me, che detta spietate regole ma che mi vuole responsabile dei miei fallimenti, in quanto imprenditrice di me stessa.
Ma oggi quello che mi procura più dolore è il sentirmi complice di politiche direttamente responsabili della morte, della tortura e del trattamento disumano a cui vengono condannate le donne, i bambini e gli uomini che lasciano i loro paesi, perché devono o perché vogliono, mossi dal desiderio di una vita migliore per sé e per i propri cari.
Nell’articolo Migranti e la catastrofe umanitaria dell’Europa, Franca Fortunato cita Simone Weil: «Ogni volta che dal fondo di un cuore umano risale quel lamento infantile che Cristo stesso non riuscì a trattenere “Perché mi si fa del male?” vi è certamente ingiustizia».
E questa ingiustizia è sotto i nostri occhi. È perfino esibita e rivendicata come successo politico. Sappiamo delle morti, sappiamo della feroce violenza subita dalle donne nel loro viaggio, cosa accade ai loro bambini; quali sono le disumane condizioni di vita negli hotspot (centri di identificazione e registrazione) delle isole greche in seguito agli accordi tra Ue e Turchia; cosa sono i lager libici dove, grazie al pilatesco accordo con la guardia costiera libica, facciamo respingere bambini, donne e uomini. Insomma sappiamo tutto. E per me è diventato insopportabile assistere a questa ingiustizia.
Ci siamo confrontate moltissimo in redazione e so che questo è un sentire comune a molte di noi. Anche a quelle di noi che temono le migrazioni di massa, che nella storia dei popoli hanno spesso significato la cancellazione della civiltà che le precedeva, ma sanno che oggi è diverso: oggi è possibile la scommessa politica femminile, che apre a nuove possibilità.
È da tempo che voglio scrivere per porre la questione e non ci sono riuscita. Anche scrivere questa breve relazione è stato difficilissimo. Ho capito che lo scacco nasceva dall’obiettivo, troppo ambizioso per me, di trovare la soluzione, mentre non è di questo che si tratta.
E per cominciare a ragionare insieme, voglio dire della mia difficoltà.
Mi sono ammutolita, paralizzata. Da una parte, in cerca di un’intuizione geniale che indicasse la direzione, fuori dagli schemi contrappositivi e cercando di non tralasciare nessuna delle questioni implicate in questo problema e di cui comunque voglio elencare almeno alcune:
E mi sono ritrovata ammutolita anche dalla preoccupazione di non apparire buonista, in un momento in cui pare che la bontà, già peccato di ingenuità, stia diventando anche nel senso comune sanzionabile, perché sovversiva nel senso deteriore, dopo che anche la legge, con gli attacchi alla ong, ha cominciato a suggerire il capovolgimento per cui il reato è il soccorso e non l’omissione di soccorso.
Eppure qualcosa sta cambiando. Io credo proprio per l’intollerabilità dell’ingiustizia a cui assistiamo.
Forza buoni, titolava la copertina dell’Espresso di qualche settimana fa, con un numero in cui si parla dell’Italia delle reti sociali, delle forme di associazione tra italiani e stranieri e tra società civile e comunità religiose, dei progetti di solidarietà che nascono dal basso su tutto il territorio nazionale per fare fronte alle difficoltà e la crescente povertà, della disobbedienza civile dei sindaci oltre a quella delle ong.
E io voglio ricordare l’Italia dell’immediata reazione della società civile con la raccolta fondi che di fatto neutralizzava l’ordinanza del comune di Lodi che impediva ai bambini stranieri l’accesso al servizio mensa. O anche l’esperienza di Caserta, dove le fasce più deboli e gli stranieri hanno stretto una sorta di alleanza e così i migranti dello Sprar hanno chiesto di usare il premio ricevuto dalla città di Caserta per la sua attività di accoglienza dei migranti, per finanziare i buoni libro per le famiglie in difficoltà della città.
Nello stesso articolo dell’Espresso si cita una ricerca americana (di Lara Putnam e Theda Skocpol), che mostra che le donne entrate in politica negli Stati Uniti non hanno fatto il loro percorso all’interno dei circuiti della politica istituzionale dei partiti, ma nelle reti civiche locali.
C’è sempre più libertà femminile nella vita pubblica. Lo registra anche un’altra ricerca, questa volta di Médecins Sans Frontières, che rileva che sul territorio italiano le situazioni in cui si pratica accoglienza al di fuori delle istituzioni sono popolate da donne.
Voglio nominare Ada Colau, sindaca di Barcellona, sempre più convinta della sua scommessa sulla municipalità «soprattutto perché le città sono il luogo della prossimità, della vita quotidiana, dove l’Altro non è un’astrazione, ma è il mio vicino di casa, lo conosco», dice nell’intervista pubblicata su Left. E ancora dice che «Il femminismo è legato a doppio filo al municipalismo perché propone cambiamenti che devono prodursi nell’ambito della vita».
E in effetti è nei contesti reali che abbiamo visto una vera politica dell’accoglienza, non intesa come assistenzialismo e oltre la logica dell’emergenza, esperienze nate dal basso che sono diventate modello di convivenza con vantaggio reciproco per la comunità che accoglie e per chi arriva. Nomino fra tutte l’esperienza di Riace, perché diventata simbolo di una convivenza possibile perché reale (e quindi purtroppo da cancellare), ma tantissime sono le realtà in tutta Italia in cui questa politica ha funzionato.
Dalla ricerca di MSF nasce il documentario Dove bisogna stare. «Questo documentario racconta di una possibile risposta a questi tempi cupi. Non racconta l’immigrazione dal punto di vista di chi sceglie di partire o è costretto a farlo: è innanzitutto un film su di noi, sulla nostra capacità di confrontarci con il mondo e di condividerne il destino», si legge nelle note di regia.
E le protagoniste sono quattro donne molto diverse tra loro, che trovano strade e pratiche diverse, in comune hanno che sanno dove bisogna stare (nei contesti in cui si è, lì dove le cose ci si presentano) e la consapevolezza che la loro è politica, non è buonismo né assistenzialismo.
Una delle protagoniste, una giovane donna di Como, raccontando la genesi del suo impegno dice che alla vista dei profughi ammassati per strada, a causa dell’inasprimento della chiusura della frontiera svizzera, quella non le è apparsa più come la sua città. È in quel momento che nasce il suo impegno. Mi sono riconosciuta in quella sua frase: non si tratta solo di aiutare chi viene qui, la posta in gioco è che umanità vogliamo essere.
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Sull’immigrazione: pensieri parole opere e omissioni, del 3 febbraio 2019