Il 27 settembre 2024 a Catania presso il salone Russo della Camera del Lavoro si è tenuta la presentazione del libro Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi. Nel corso della discussione si è molto parlato del contenuto di una locandina in difesa dell’aborto che è girata sui social. Ludovica Augugliaro, studentessa, ci ripropone sotto forma di contributo scritto l’intervento che ha fatto in quell’occasione.
«Il diritto all’aborto delle persone con utero è sotto attacco», così leggiamo su un manifesto il cui scopo era portare l’attenzione su una questione tanto importante quanto delicata come l’aborto. Benché molti vedano dietro questa grottesca scelta di termini un mero tentativo di inclusività, io vi leggo ben altra cosa. L’essere inclusivi dovrebbe essere pari all’aggiungere una sedia e non sgomitare per prenderne una già assegnata a qualcun altro giunto prima. Questo è il modus operandi dell’inclusività odierna, o di ciò che si spaccia per essa, e cancellare la parola DONNA anche all’interno di un discorso che la riguarda in prima persona, in favore di termini scioccamente considerati “neutri”, ne è la triste prova.
Se veramente lo scopo fosse stato quello della neutralità sarebbe bastato scrivere semplicemente “Il diritto all’aborto è a rischio”. Dunque perché optare per una costruzione degradante, riduttiva e, come scritto prima, grottesca come “persone con utero”?
Persone con utero serve a ricordare che, oltre alle donne, l’aborto va tutelato anche per gli uomini trans, che sono biologicamente esseri umani di sesso femminile, e le persone non-binary che, benché non si identifichino né nel genere femminile né in quello maschile, come qualsiasi altro essere umano vengono al mondo come maschi o femmine.
Quindi, la censura della parola DONNA nel manifesto sopracitato, ridurla a “persona con utero”, significa di fatto anteporre per rilevanza il genere al sesso, anche trattandosi di aborto, e voler mettere in primo piano persone che hanno un intero mese dell’anno dedicato alle loro battaglie e alle loro comunità e che, anche parlando di un tema che riguarda principalmente le donne, devono sgomitare per prenderne il posto in prima fila a partire da un manifesto.
L’essere efficacemente inclusivi prevede questo: chi include deve aggiungere uno spazio, un posto a sedere, senza però perdere il proprio, chi viene generosamente incluso in un dialogo deve invece comprendere quando è tempo di parlare e quando di ascoltare. Sgomitare per prender parola a tutti i costi, ricercare perpetuamente i riflettori, voler incessantemente essere i protagonisti di qualsiasi dialogo degenerandolo in un ridondante monologo, non solo è segno di mancata educazione ma è anche terribilmente inefficace in quanto gli interlocutori, annoiati e sfiniti, perderanno l’attenzione e il piacere di includere tali persone in futuri dibattiti.
Una definizione tanto elementare come donna: essere umano adulto di sesso femminile oggi, per qualcuno, è inaccettabile in quanto “poco inclusiva” o addirittura transfobica. Eppure proprio in queste definizioni elementari risiede l’identità delle persone transgender e ciò che le rende tali. Una donna trans è di fatto un uomo (essere umano adulto di sesso maschile) che, data la sua disforia di genere, necessita di essere percepita socialmente come una persona di sesso femminile, e quindi una donna.
Vorrei ricordare che il principio su cui si basa l’intera argomentazione gender è proprio la distinzione tra questo e sesso. Il primo, teoricamente, è determinato dall’esperienza dell’individuo nella società, il secondo è concreto, inequivocabile, a partire dal concepimento. La radice stessa di tale discorso oggi è pressoché dimenticata, in quanto, benché esistano numerose identità di genere, il sesso biologico resta duale: maschile e femminile. Ciononostante, in discorsi dove quest’ultimo dovrebbe avere la precedenza in quanto a rilevanza, come l’aborto, lo sport, la divisione degli ambienti negli spogliatoi e nei bagni pubblici e il criterio più opportuno sul quale andrebbero scelti, vince sempre il gender. La concretezza del sesso d’appartenenza è inesorabilmente in secondo piano rispetto a qualcosa di astratto anche nella sua definizione tutt’altro che univoca.
Mettere l’elementarità delle cose in discussione lede, in primis, le fondamenta della comunità LGBTQIA+. Se alla semplice domanda «Cos’è una donna?» non è più possibile rispondere in maniera semplice, logica e condivisa, allora lo stesso catalogo di etichette, ognuna con la sua bandierina, su cui si basa la comunità queer non ha ragione di esistere.
Il paradosso del panorama odierno è che, se da una parte è quasi impossibile fornire definizioni altrettanto elementari e sensate come quelle che si desidera surclassare, contestualmente la tendenza è quella di etichettare qualsiasi cosa, anche la più scontata. Ho scoperto infatti che, nel catalogo arcobaleno, sono in vendita anche un paio di etichette che mi riguardano. Sarei infatti demisessuale e sapiosessuale. Cosa descrivono queste due identità dotate del proprio merchandising di bandierine e spillette? La prima è una sfumatura dell’asessualità e identifica coloro che per fare l’amore con qualcuno necessitano di una connessione mentale e sentimentale che preceda l’atto. La seconda, invece, denota chi trova attraenti sessualmente persone intelligenti.
E quindi, per la mia riluttanza ad avere un rapporto sessuale con persone a caso ma con pene e l’aver scelto come compagno una persona capace di sollecitare anche il mio intelletto e di reggere conversazioni di lunga durata, ben lontane dai sottintesi volgari scambiati via chat tramite emoji del fuoco e della pesca, sono anch’io queer e appartengo a questa tribù. Adesso che ne sono a conoscenza, cosa della mia vita e della mia identità è cambiato? Assolutamente nulla.
Tuttavia, per alcune persone, i giovanissimi soprattutto, questo senso di appartenenza è vitale. Viviamo in una società di ragazzi iperconnessi e inesorabilmente soli e per sfuggire a tale solitudine necessitano di appartenere a un gruppo, e una comunità come l’LGBTQIA+ risulta piuttosto accattivante. Vuoi per i colori sgargianti della bandiera arcobaleno, in contrapposizione al grigio degli eterosessuali “basic”, per la crescita immediata del numero dei followers aggiungendo pronomi e bandierina nella descrizione del profilo, finanche per content creators che basano le loro intere piattaforme unicamente sulla loro identità di genere e/o il loro orientamento sessuale e che, in questo modo, raggiungono numerosa visibilità, notorietà: fama.
Per loro sfortuna si ritrovano da una parte educatori, dai genitori agli insegnanti, impreparati su queste tematiche che travisano o, peggio, ignorano, dall’altra abili oratori che vendono i loro stili di vita come uniche alternative e magiche soluzioni a profondi disagi interiori che meriterebbero altri tipi di supporto.
A questi ragazzi, ai miei coetanei, vorrei dire questo: un’etichetta, con tanto di bandierina, non decreta chi voi siate. Siamo molto più del nostro orientamento sessuale, dei nostri pronomi, delle spillette attaccate allo zaino. L’ identità si costruisce, pezzo dopo pezzo, tramite le relazioni sociali (reali, non virtuali) che si instaurano, attraverso lo stile personale e, soprattutto, grazie a ciò che si legge. Solo con la lettura è possibile sviluppare un pensiero critico, l’unico scudo contro un costante e subdolo indottrinamento che non accetta alcun confronto, che, a partire dal linguaggio, silenzia e censura chiunque la pensi diversamente.
Un video in cui si narra la storia di un libro eretico medievale e della sua Autrice, una donna morta sul rogo per aver rifiutato di rinnegarlo.
Conobbi l’esistenza di questo libro molti anni fa quando incontrai casualmente la filosofa Luisa Muraroche mi chiese di tradurre in forma teatrale un manoscritto mistico di una donna del trecento intitolato Lo specchio delle anime semplici, scritto in medio-francese e in forma dialogata. Fu come un colpo al cuore fin dalle prime righe e, da allora, ho cercato di divulgarlo in teatro e ora con il video Margherita Porete, il libro e la vita in cui racconto le parti più laicamente accessibili del libro e anche la storia della sua Autrice. Una storia che venne alla luce a sei secoli di distanza, nel 1946, quando la studiosaRomana Guarnieriscoprì, in un verbale dell’Inquisizione di Parigi, che quel sublime libretto non era stato scritto da un ignoto monaco, come credette anche Simone Weil, ma da una donna, certa Margherita, detta Poirette da Valenciennes.Il predetto verbale riportava che lei non si era pentita ed era rimasta in prigione per due anni in totale silenzio, fino alla sua morte come eretica relapsa, cioè non pentita. E dunque il video persegue l’intento di far conoscere in estrema sintesi tutta questa stupefacente storia, a mio avviso più significativa di quella ben più celebre di Giovanna d’Arco.
La realizzazione è stata possibile grazie alla sensibilità e collaborazione di attori e attrici del calibro di Domitilla Colombo, Daniela La Pira, Sergio Scorzillo e di Paolo Tedesco che ha anche realizzato il filmato con alta professionalità e perfetta aderenza al mio intento.
Lo specchio delle anime semplici è oggi universalmente considerato dagli studiosi uno dei massimi capolavori della letteratura spirituale di tutti i tempi e paragonato alle opere di Platone, Hegel, Spinoza e, come livello di scrittura, alle opere di Dante e Shakespeare.
Bibliografia essenziale di riferimento
Romana Guarnieri, “Quando si dice il caso”, rivista Bailamme, 1990
Luisa Muraro, Lingua materna scienza divina, M. D’Auria editore,1995
ead., Le amiche di Dio, a cura di Clara Jourdan, M. D’Auria editore, 2001; 2a ed. Orthotes 2014
ead., Il Dio delle donne, Mondadori, 2003; Marietti, 2020
Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, ed. San Paolo, 1996
Immagine di Donatella Franchi, per gentile concessione dell’artista.
Da Viottoli – Dialogo in occasione di un incontro del ciclo “Eretiche”, organizzato dall’Osservatorio interreligioso sulla violenza contro le donne (OIVD) a Pinerolo il 5 maggio 2024.
Doranna – Il femminismo è stato un modo in cui io e altre donne ci siamo date reciprocamente voce fuori dall’ideologia patriarcale. Nel vostro libro intitolato Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, oltre alle numerose immagini e illustrazioni inedite, avete raccolto più di sessanta testimonianze di donne protagoniste di questa storia. Molte di queste nella Libreria delle donne di Milano inventarono pratiche che contribuirono all’elaborazione di pensieri. A partire dagli anni ’70, la Libreria è infatti uno dei luoghi più vivi del femminismo italiano, un laboratorio sulle pratiche politiche del presente, basato sulla condivisione di esperienze e verità soggettive che illuminano la vita di tutte e di tutti, anche la mia. Vorrei sentire da voi, femministe e anche storiche, quali sono state le pratiche e le scoperte che hanno contribuito a far nascere la Libreria.
Luciana e Marina – L’idea di aprire una libreria, simile alla Librairie des femmes di Parigi, dove vendere libri scritti da donne e documenti prodotti dal movimento, è nata dal desiderio di alcune che da una decina d’anni avevano fatto autocoscienza: una pratica in cui sole donne, riunite in piccoli gruppi periodicamente, parlavano a partire da sé della propria esperienza di disagio fino a quel momento sentito come personale, senza ordini del giorno, con un ascolto non giudicante. Il personale diventava politico. Vi erano incontri più allargati in collettivi e in confronti internazionali dove le parole scambiate diventavano scritti che mostravano la parzialità e i danni del dis-ordine patriarcale e le modalità valorizzanti di stare tra donne. Su come realizzare la Libreria, dodici donne per un anno discussero tra loro, proponendo un progetto aperto alla collaborazione di altre per reperire scritti, opere artistiche e per contribuirvi economicamente. Dal 15 ottobre 1975 divenne un luogo aperto sulla strada dove si discuteva di tutto, illuminando la scrittura dei testi politici con la lettura delle scrittrici, alla ricerca di parole che dicessero l’esperienza femminile.Ad esempio, dadiversi incontri su autrici significative nacque il Catalogo giallo. Le madri di tutte noi e la scoperta dell’importanza di avere una genealogia femminile per non essere schiacciate in un presente in cui il senso della propria vita dipenda dall’annullarsi nell’altro.
Da allora la gestione è rimasta non gerarchica, le scelte avvengono attraverso il consenso non a maggioranza e le proposte nascono dal desiderio di una che prende vita dalla relazione con un’altra e cresce di due in due, fino ad arrivare, tra l’altro, alla pubblicazione nel 1987 di Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertàfemminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, un libro tradotto in spagnolo, tedesco, inglese, francese, che ne racconta scoperte e storia.
D. – Ho conosciuto la Libreria delle donne di Milano negli anni ’90 grazie a Pinuccia Corrias. Con lei ho imparato che il femminismo della differenza non è il presupposto per una rivoluzione sociale bensì per una rivoluzione simbolica, iniziando a misurarmi con la complessità della pratica del partire da sé. Con lei ho condiviso percorsi importanti di pratica delle relazioni tra donne, primo fra tutti il lungo percorso del gruppo pinerolese di ricerca teologica al femminile e il gruppo intergenerazionale sulla differenza sessuale, costituitosi in occasione del festival della filosofia di Pinerolo Pensieri in Piazza. In questi ambiti siamo entrate in relazione con alcune della Libreria delle donne di Milano, soprattutto con Luisa Muraro, di cui ho frequentato in Libreria nel 2015 il corso di scrittura pensante, che ha profondamente segnato il mio approccio alla scrittura. Per me è diventato un luogo politico fondamentale. Come lo è diventato per voi?
L. e M. – Entrambe abbiamo fatto autocoscienza con donne con cui ancor oggi ci incontriamo. Compravamo testi in Libreria per discuterli in altre associazioni, mentre abbiamo cominciato a considerarla il luogo principale di confronto politico dalla metà degli anni Ottanta, dopo che il Sottosopra verde (1983) propose di superare il separatismo per investire i luoghi di lavoro con il sapere e le pratiche femministe. Essendo insegnanti, contribuimmo alla Pedagogia della differenza, conosciuta attraverso Marirì Martinengo: utilizzavamo sempre il linguaggio sessuato; ricercavamo il contributo delle donne alla costruzione di civiltà e lo facevamo conoscere, anche modificando i libri di testo; sperimentavamo alcuni momenti in cui nelle classi separate per sesso permettevamo alle ragazze di trovare parole per dire la loro esperienza rispecchiandosi tra loro e in opere di donne, e ai ragazzi di cogliere la loro parzialità; valorizzavamo pratiche di relazione tra le ragazze e tra noi donne insegnanti.
Per noi è stata ed è fondamentale la riflessione sul rapporto con la madre che fonda, come dice il titolo del libro di Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, che rompe con l’idea patriarcale dell’individualismo prometeico illuminista e mostra invece l’origine duale della vita, la dipendenza e la necessità del riconoscimento delle relazioni.
D. – Recentemente, all’interno di una mostra pittorica di un liceo artistico, campeggiava al centro della sala un quadro intitolato Tessitrici di relazioni: un girotondo di donne danzanti. Mi ha colpito veder raffigurato da una artista il segno tangibile di un cambiamento in atto, ciò che per me è stato il filo conduttore del mio agire politico nel femminismo:la pratica politica delle relazioni tra donne. Nel patriarcato le relazioni tra donne, fuori dalla sfera privata, non avevano esistenza sociale, tant’è che le donne spesso venivano rappresentate come nemiche, rivali, futili, invidiose l’una dell’altra. A me sembra invece, per esperienza diretta nel mio percorso, che alcune pratiche politiche femministe abbiano portato buoni frutti. Sempre più donne, in relazione tra loro, si danno autorità, sanno vedere nel presente e nella realtà ciò che ancora non è evidente, dicono ciò che è buono e ciò che non lo è e agiscono perché il positivo possa realizzarsi. Questo genera forza femminile.
Marina, nel suo saggio sulla storia vivente in La spirale del tempo, sostiene che una pratica si comprende facendola, parlarne può solo permettere di intuirla, di far nascere la voglia di provare. Condivido questa osservazione e vi chiedo di raccontarci quali pratiche sono importanti per voi oggi.
L. e M. – Il racconto di pratiche create per un particolare contesto può solo “autorizzare” all’invenzione, non si tratta di “ricette” o tecniche da imparare e applicare. È necessario continuare a riflettere sul presente, su come agiamo e sulle conseguenze di ciò che facciamo, cioè su quali pratiche mettiamo in atto, come fa il libro Femminismo mon amour che raccoglie articoli significativi nati dalle redazioni aperte dello scorso anno della rivista on line Via Dogana 3.
Come dici tu, è importante riconoscere autorità femminile. Si ha paura di questa parola per il fantasma patriarcale del potere che crea gerarchie per mantenersi, mentre autorità deriva da augere, far crescere. La si riconosce a una in un momento preciso, quando ti aiuta nella comprensione e realizzazione di un tuo desiderio, quando ti fa capire qualcosa del mondo. Abbiamo bisogno, come dice Vita Cosentino, del massimo di autorità con il minimo di potere.
Rimane importante partire da sé e dare credito alla parola dell’altra, come fa il movimento MeToo; riconoscere anche nei gruppi la forza creativa del rapporto duale di disparità, non esclusivo, dove si gioca il di più dell’altra; mantenere momenti di separazione dagli uomini, avere dunque, quella che Ina Praetorius chiama una “stanza della tessitura”, come fanno anche oggi Le Compromesse, alcune giovani attive in Libreria, per trovare parole con cui dire la propria esperienza e modi per renderle pubbliche.
Fin dall’inizio per il femminismo la scrittura è stata importante per sviluppare e far circolare il pensiero, dai Sottosopra, sorta di manifesti che escono senza periodicità, alla rivista Via Doganaprima cartacea e ora on line, daiQuaderni di VDal sito la cui redazione carnale si riunisce ogni giovedì, fino al coinvolgimento di case editrici su singoli progetti. Inoltre la libreria è un luogo di incontro pubblico in cui vengono proposti testi politici, letterari, artistici, soprattutto di donne, a partire dal desiderio di una e dopo una riunione di programmazione per individuare con quale taglio discuterne, lasciando molto tempo al dibattito e alla convivialità.
Fra le pratiche di scrittura quella relazionale generativa, che noi pratichiamo, nasce dal bisogno di non lasciarsi imbrigliare nelle letture già date per dire il nuovo che la singolarità di ciascuna può apportare: si tratta di chiedere il giudizio di un’interlocutrice a cui si riconosce autorità, non sentirsi sminuite per questo, non aver paura di essere defraudate dell’autorialità ma trovare modi per segnalare la pratica relazionale da cui il testo nasce.
D. – Entrambe fate parte di Comunità di Storia Vivente dal 2006. Condivido con voi e con la Comunità di Storia Vivente in faccia al Monviso questa pratica di ricerca e di scrittura femminile della storia che ci permette una lettura differente della realtà. Per me è stato importante, insieme alle donne della mia comunità, risignificare la mia storia personale alla luce di questa pratica. Voi che insieme Marirì Martinengo e Laura Minguzzi siete le fondatrici della Comunità di Milano potete ricordare qual è stata l’intuizione originaria e come si è sviluppato e continua questo percorso.
L. e M. – Ci piace cominciare con la citazione dal libro di Marirì Martinengo La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”, in cui nel 2005 per la prima volta emerge l’intuizione originaria della storia vivente: «C’è una storia vivente annidata in ciascuna e ciascuno di noi, costituita di memorie, di affetti, di segni nell’inconscio; […] una storia vivente che non respinge l’immaginazione, un’immaginazione che affonda le sue radici nell’esperienza personale, storia più vera perché non cancella le ragioni dell’amore, non respinge le relazioni, dal suo processo cognitivo» (p. 21). Da qui siamo partite per una pratica di comunità diversa da quella di ricerca storica che ci aveva portato a scoprire tracce di libertà femminile nella vita di donne del passato. Fu un lavoro di quasi vent’anni con incontri, ricerche, convegni, pubblicazioni, come il libro Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo. Con la pratica della storia vivente, invece, ciascuna ricerca in sé nodi irrisolti che sono tali perché non c’è ancora un simbolico che li rappresenti in modo aderente alla verità soggettiva. La scommessa è trovare parole per dirli e così scioglierli, individuando concetti che diano una chiave di lettura per rileggere il passato. Si liberano così energie bloccate dalla menzognera lettura patriarcale, sia di uomini sia di donne, e si apre la possibilità di una trasformazione del presente.
La pratica consiste in incontri periodici di poche donne in relazione di fiducia tra loro, in cui ciascuna fa emergere un proprio nodo mentre le altre ascoltano con attenzione ed empatia, rilanciando ciò che risuona in sé, e la scrittura e riscrittura chiariscono e rendono pubblico ciò che può cambiare il simbolico. Il lavoro è molto lungo perché sui nodi si sono creati degli equilibri, anche se a volte difficili. Attualmente noi due stiamo continuando la ricerca con Giovanna Palmeto e Laura Modini nella Comunità Sami e siamo nella fase della scrittura finale di nuovi racconti.
Sono già state pubblicate su riviste e libri diverse scoperte che è riduttivo riassumere per evitare di banalizzare e creare fraintendimenti, proprio perché hanno una dirompenza trasformativa rispetto alle interpretazioni correnti. Accenniamo che queste letture della realtà riguardano tra l’altro l’economia, la guerra, la violenza maschile, le forme di resistenza e la parola pubblica delle donne, la trasmissione genealogica femminile, la devianza dai modelli. Oggi possiamo riferire che trovano molti riscontri anche in giovani donne provenienti da varie parti del mondo, in quanto dal 2019 teniamo il corso di Historia viviente nel Master on line La política de las mujeres dell’Università di Barcellona. Le allieve, che seguono con noi un percorso di lettura di ciò che finora è stato prodotto e di scrittura in dialogo con i testi e la propria esperienza, sottolineano gli spostamenti nel loro modo di rapportarsi a momenti imbriglianti della loro esistenza e della realtà che le circonda. Scoprono la violenza e parzialità della storia finora appresa e riconoscono come pratiche politiche positive i comportamenti propri e di altre donne, anche della loro genealogia, spesso invisibili o svalorizzati, accrescendo la loro forza.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Santini Marina, Tavernini Luciana, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua,Il Poligrafo, Padova 2015.
Libreria delle donne di Milano, Le madri di tutte noi (Catalogo giallo), Milano 1982.
Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertàfemminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, Rosenberg & Sellier, Torino 1987.
Sottosopra, i numeri della rivista sono in vendita o consultabili in https://www.libreriadelledonne.it/categorie_pubblicazioni/sottosopra/
Muraro Luisa, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma (1991) 2022.
Comunità di storia vivente di Milano (a cura di), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti & Vitali, Bergamo 2018.
Redazione di Via Dogana 3, Femminismo mon amour, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne di Milano, 2024.
Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti, ECIG, Genova 2005.
Marirì Martinengo, Claudia Poggi, Marina Santini, Luciana Tavernini, Laura Minguzzi, Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo, SEI, Torino 1996; ipertesto nel sito curato da Donatella Massara “Donne e conoscenza storica” http://www.donneconoscenzastorica.it/vecchio/testi/libere/apertura.htm
(Viottoli, n. 1/2024)
Alcune studentesse e studenti dell’Università di Verona come di altre università hanno chiesto ai docenti di dedicare le lezioni del 5 maggio 1999 alla riflessione sulla guerra nei Balcani; quello che segue è il testo del mio contributo.
Care studentesse, cari studenti, non ho cose risolutive da dirvi su quello che ci sta capitando. Che è una guerra, né più né meno. La stiamo facendo contro un paese che si chiama, ufficialmente, Repubblica federale di Jugoslavia, capitale Belgrado. Non è una guerra che loro fanno a noi, potrebbero anche provarci, ma tutti lo escludono, infatti l’Occidente ha inventato guerre unilaterali, che sono molto comode dal suo punto di vista, perché l’altro non è in condizione di rispondere. E noi facciamo parte dell’Occidente, sia pure un po’in bordo. Siamo dalla parte giusta, direbbe l’anziano filosofo torinese Norberto Bobbio.
Quello che ho da dire, ho deciso di dirlo in una lezione pubblica (ringrazio gli studenti che mi hanno dato questa idea) e ho chiesto al quotidiano il manifesto di pubblicarla. C’è bisogno di parole. I giornali, televisione compresa, sono pieni di discussioni sulla guerra, per fortuna, e io li leggo volentieri, ma le parole che mancano sono di un altro tipo. I giornali ragionano sulla guerra come se fosse una cosa sensata, più o meno giusta (o, secondo altri, più o meno sbagliata). Mancano le parole per quelli che sono rimasti di sasso, come me e come molti di voi. I soldi che prendo ogni mese li prendo da voi o da chi vi mantiene, li prendo dalle mie ex compagne di scuola elementare che, a undici anni, mentre io andavo alle medie, sono andate a fare marmellate da Boschetti, li prendo dagli operai che hanno costruito questo edificio dentro il quale voi studiate e io insegno. In cambio di che cosa? Di parole. Non parole che ci sono già. Le altre, per non restare sassi.
Nella mia vita è la seconda volta che l’Italia entra in guerra. La prima volta ero vecchia di due giorni, la guerra durò quasi cinque anni e i miei ricordi d’infanzia somigliano a quelli di un reduce. Credevo che la vita fosse fatta di bombardamenti, fosse anticarro, caccia che scendono in picchiata a mitragliare, dormire in cantina e sognare grandi mangiate di latte e pane.
Poi venne la pace e mi sono adattata. Poi, verso i dieci anni, mi portarono sull’Altipiano d’Asiago, dove ho fatto la conoscenza della Prima guerra mondiale. A distanza di quanti anni, trenta, l’Altipiano era ancora coperto di cicatrici e di reliquie. Diventarono i nostri giocattoli. Non ho ricordi orribili, perché sono stata protetta dall’infanzia e da mia madre. Però conosco la guerra: l’ho vissuta, l’ho guardata, l’ho toccata, me l’hanno raccontata.
Conosco un po’ anche la storia dell’Italia e sono arrivata alla conclusione che noi non possiamo più andare in giro a fare guerre. Invece sui giornali è scritto che sì, ne stiamo facendo una, lo dicono con parole contorte, che però equivalgono. Ma non riesco a convincermi. Agli inizi, ogni mattina leggevo i giornali sperando d’aver capito male. Adesso, sperando di leggervi la parola fine. Quando, nel 1992, cominciarono ad arrivare notizie terribili dalla Bosnia, io, aiutandomi con la mia ignoranza della geografia, cominciai a spingere la Bosnia distante dall’Italia, verso oriente, credo d’averla mandata in Asia, quasi in Mongolia. Questa volta il gioco non mi riesce, la geografia dei Balcani l’ho imparata, ma non mi abituerò all’idea.
Mai avrei creduto, e fino a due mesi fa in Italia nessuno, ne sono certa, ha pensato che la Nato ci avrebbe portato a fare la guerra nei Balcani. Proprio lì da dove è partita la Prima guerra mondiale, che si è tirata dietro sciagure immani, il nazismo, lo sterminio degli ebrei e degli zingari, la Seconda guerra mondiale. Chissà se negli Usa conoscono la storia dei Balcani… I professori d’università sì, gli altri mi chiedo, perché negli Usa fuori dalle università la cultura libresca circola molto poco, meno che da noi.
La peggiore ipotesi che potevo fare sull’Italia era l’introduzione della pena di morte. L’ho sempre escluso, sia chiaro, e continuo, però mi è capitato una volta di pensare: se dovesse succedere, emigrerò, non potrei vivere in un paese che ha la pena di morte. Adesso di colpo mi trovo a vivere in un paese che fa la guerra, è incredibile. Stiamo uccidendo i nostri vicini che non ci hanno fatto niente, stiamo distruggendo le loro case, le loro fabbriche, gli stiamo portando via il sonno, il lavoro, il combustibile, la salute, la vita. Le ragioni che ci hanno dato di questa guerra non stanno in piedi. Non si può aiutare degli innocenti ammazzando altri innocenti, così non si fa che moltiplicare il male. Forse ci aumenteranno le tasse per finanziare la guerra. Ho letto su un giornale: ci rifaremo con la ricostruzione. Ma non ci rifaremo della nostra disumanità.
Molti, per non disperarsi, si aggrappano all’intervento umanitario: dovevamo pure fare qualcosa per gli abitanti del Kosovo. Certo che dovevamo, per esempio non dovevamo fare i furbi quando la ex Jugoslavia è entrata in crisi; per esempio dovevamo proporre, come Europa, un piano di aiuti economici razionali e disinteressati; per esempio, non dovevamo dare soldi e pubblicità a giovanotti in cerca di avventure, e dare invece tutto il sostegno possibile agli oppositori politici più responsabili…
La notte, quando mi sveglio, preparo un discorso per spiegare agli alleati della Nato che l’Italia non può starci. Ma ci siamo già… Lo so, ma di notte posso ancora credere che no, senza contare che il discorso potrebbe tornar buono, chissà, per il nostro prossimo otto settembre.
Eccolo, anzi eccoli, perché ne ho preparati più d’uno: «Cari alleati, noi non ce la sentiamo di intervenire contro la Serbia perché noi che siamo suoi vicini, anzi un po’ congiunti, sappiamo che la penisola balcanica è un mosaico unico al mondo di popoli e di culture, che ogni tanto esplode e quando esplode bisogna assisterli con pazienza e sapienza perché le tessere si rimettano insieme. Bisogna ascoltare tutti e non mettersi con nessuno contro nessuno, e non pensare di avere noi la soluzione del conflitto perché soltanto loro sono in grado di ritrovare il delicato disegno della loro convivenza, lo hanno già fatto in passato, si sono insaccati in quella penisola da secoli e secoli e in tanti secoli di non facile convivenza hanno imparato il suo segreto anche se ogni tanto se lo dimenticano. È come eseguire una musica difficile. Se proprio vogliamo contribuire, diamo soldi, non è la soluzione, ma è sempre meglio delle bombe».
Secondo discorso: «A parte il fatto che la nostra Costituzione ci vieta espressamente di fare guerre che non siano di difesa, a parte il fatto che con voi abbiamo firmato un’alleanza a scopi difensivi soltanto e non risulta che la Jugoslavia abbia aggredito nessuno di noi, tenete conto che la nostra capitale, Roma, è anche la capitale del mondo cattolico e il Papa non è d’accordo con le guerre in genere e soprattutto con questa. È vero che non siamo tutti veramente cattolici e molte prendono la pillola anticoncezionale, molti usano il preservativo, divorziano, bestemmiano, sono gay ecc., tutte cose che al Papa non piacciono. Ma la guerra è un’altra faccenda e al Papa diamo ragione, ce l’ha! Voi, inoltre, vi state dimenticando che l’anno prossimo abbiamo il giubileo. Non dite che l’anno prossimo sarà finita, perché delle guerre si sa quando cominciano ma non quando finiscono. E poi, finisse pure tra una settimana, che sarebbe già troppo in là, noi dobbiamo prepararci fin d’ora, anzi siamo in ritardo. Come possiamo pensare alla guerra dovendo prepararci spiritualmente? E fare fronte all’invasione dei pellegrini? Rischiamo un caos spaventoso, nei lavori pubblici come nelle nostre anime».
Avrei concepito un altro discorso ancora, è il più forte, ma ho idea che a D’Alema non piacerebbe pronunciarlo. Ve lo dico: «Cari alleati, lasciateci fuori dalle guerre, non siamo adatti perché le nostre mamme ci hanno educati a dare bacini all’avversario. Appena si cominciava una baruffa, subito intervenivano le mamme a dividerci e poi “bacino, bacino”. Lo chiamano mammismo, ma è una civiltà anche questa. Giudicatela come vi pare ma siete avvisati che noi, dopo un po’, vogliamo dare bacini all’avversario».
Tu hai voglia di scherzare, mi dite. Sì, moltissima, respingo la retorica dell’“atroce guerra” che risuona in bocca di quelli che la guerra l’hanno decisa. Ma forse non è retorica, forse i nostri governanti non hanno deciso niente. Infatti, ripetono che era una scelta obbligata. A rigore, dunque, una non scelta. Se fosse così, dobbiamo tirare le conseguenze: altri hanno deciso per noi, ci hanno obbligati, forse siamo dalla parte della punta della spada (la parte sbagliata, direbbe Bobbio) e non dalla parte dell’impugnatura. Io questo non lo so, non sono in condizione di saperlo, né voi, del resto. Mi viene in mente un verso dei Sepolcri di Foscolo a proposito del potere politico: «…di che lagrime grondi e di che sangue».
O: di che sperma. Non è una parolaccia. Me l’ha suggerita quel film che s’intitola Sesso e potere dove si racconta di un presidente degli Usa il cui staff s’inventa una guerra (Sapete dove? In Albania, cioè un posto sconosciuto agli americani) per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da uno scandalo sessuale del presidente. Storia inventata prima che venisse fuori quella di Clinton con l’ormai famosa staggera Monica Lewinski. Nel cinema gli americani sono geniali. Va detto, però, che tra la pellicola e la realtà c’è una differenza tutt’altro che secondaria. Nella realtà, tutti i tentativi per coprire lo scandalo sono falliti e il presidente Clinton è stato messo alla gogna, in una maniera indecente, alla lettera, con tutti quei particolari, e per noi in Europa inaccettabile, ma non altrettanto negli Usa, la cui classe al potere ha una cultura, nel suo fondo, dura e bigotta. Basta leggere il bellissimo romanzo La lettera scarlatta di Hawthorne (1850). Solo che una volta la condanna del sesso libero ricadeva sulla donna mentre ora, in seguito al femminismo, può ricadere anche sull’uomo. Falliti i tentativi di coprire lo scandalo, il presidente Clinton ha salvato il potere riconoscendosi colpevole. E ora si sta rifacendo dell’umiliazione patita facendo una guerra giusta (che è peggio di una guerra finta, perché l’inganno non è esteriore ma interiore).
Per rendervi conto di quello che dico, guardate le foto del presidente Clinton in mezzo agli altri capi politici della Nato che festeggia i cinquant’anni a Washington, il 24 aprile scorso. Alto, pimpante, con il braccio destro alzato, sorridente. Si vede che si sta rifacendo della sua virilità messa alla gogna. Gli altri, tolto Solana, troppo onorato di essere in quella compagnia, hanno tutti l’aria di esibire una contentezza che non sentono.
Fra le distruzioni di questa guerra, quando dovremo fare i conti, prevedo che si dovrà mettere anche l’eredità del Sessantotto. La decisione di bombardare la Jugoslavia, infatti, è stata presa o sostenuta da uomini in gran parte di sinistra e provenienti dalle rivolte studentesche del famoso Sessantotto, da Clinton a D’Alema, passando per il segretario generale della Nato, Solana, e il ministro degli esteri tedesco, Fischer. La cosa che più mi urta, in questa faccenda, è che anche da noi gli intellettuali si siano messi a fingere, sui giornali e in televisione, una discussione sul bene e sul male, sulla guerra giusta e la guerra ingiusta, traendo in inganno le persone oneste e semplici, le quali persone possono credere che veramente l’intenzione di questa guerra fosse umanitaria e, soprattutto, che si possa giustificare una guerra con simili intenzioni.
In una celebre lettera del 1932, Perché la guerra?, quando ancora la Prima guerra mondiale era l’unica e non la prima di un elenco, lo scienziato Albert Einstein chiese a Freud se fosse possibile «dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino più capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione». Aggiunse subito che non stava tanto pensando alle «masse incolte». «La mia esperienza dimostra anzi che è proprio la cosiddetta “intellighenzia” a cedere per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata» (Freud, Opere 1930-1938, pag. 291).
Il contatto diretto con la realtà che dice Einstein, ce lo dà il nostro essere corpo. La realtà è corpo, sono corpi, non interamente certo, ci sono anche i minerali, stavo dicendo il sole, le stelle, la luna, ma sono corpi celesti e anche la società è corpo. E i corpi, quando si avvicina la guerra, tremano e sono in pena. Sanno che la guerra è fatta per distruggere, in un crescendo che non si saprà come fermare, tutto quello che piace ai corpi, come la casa, la tavola apparecchiata, il caffè, i vestiti, le fidanzate, i fidanzati, la luce, il tepore, l’amore. Perciò, io credo, il 24 marzo siamo rimasti di sasso, per passare nella realtà minerale, non essere più corpi, diventare tondi e insensibili. Le idee del bene e del male, mi dispiace per Platone, troppo spesso hanno ucciso e distrutto. Io vi consiglio di ascoltare piuttosto il vostro sentimento di corpi vivi, bisognosi, dipendenti, e ragionare di conseguenza.
Articolo uscito su “il manifesto”, 4 maggio 1999, e poi ripreso nel Quaderno di Via Dogana «Guerre che ho visto», di varie autrici, disponibile in Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, info@libreriadelledonne.it
Sin da quando ero alle elementari, vedendo i miei compagni di classe musulmani uscire da scuola durante il pranzo, mi sono sempre domandata cosa fosse effettivamente questo Ramadan di cui loro parlavano e in seguito, quando mi fu spiegato, ho sempre ritenuto fosse una prova ardua. Così quando la mia compagna di classe il mese scorso, a pochi giorni dall’inizio del Ramadan, mi ha proposto scherzando di fare un giorno di digiuno con lei, l’ho presa come una bella occasione per capire di più quella cultura che abita accanto a noi ma non è la mia.
Come mi aveva consigliato, mi sono svegliata alle quattro del mattino per fare colazione e poi sono tornata a letto, purtroppo per poco dovendo andare a scuola. Le prime ore di digiuno sono passate abbastanza in fretta, le lezioni mi tenevano impegnata, allo stesso modo i giri in corridoio. Non avevo fame né sete, mi mancava solo la mia pausa caffè, ma intorno alle quattordici la situazione si è fatta più critica, non tanto perché mangio intorno a quest’ora, ma soprattutto per il caldo e il lungo tragitto da scuola a casa della mia amica. Ho iniziato a sentire una gran fame e la mia pancia ha iniziato a contrarsi dolorosamente. Per di più la metro era bloccata e siamo state costrette a prendere un bus suppletivo pieno di persone che, strette strette, rendevano l’ambiente ancora più caldo e asfissiante ma finalmente siamo arrivate a casa dove abbiamo aiutato sua madre a finire di cucinare gli involtini per la cena. Per passare le ultime ore prima dell’iftar (fine del digiuno) abbiamo fatto un giro al parco vicino per poi tornare e scaldare la cena. Arrivati a casa la madre, il padre e il fratello della mia amica, abbiamo cenato; c’erano gli involtini, dei tacos, un po’ di insalata, ma soprattutto un delizioso tajine, piatto tipico marocchino di carne e spezie. Il tempo della cena è trascorso in fretta, a mia sorpresa non ero così affamata e sono rimasta incantata ad ascoltare i loro discorsi in marocchino, lingua che ritengo affascinante per la sua fluidità e anche con una strabiliante similarità, in certe cadenze e parole, con il dialetto lombardo.
Mi chiedo da dove venga questa mia grande curiosità verso religioni e tradizioni diverse che ormai da molto tempo convivono con il mondo occidentale. Io non ho ricevuto un’educazione cattolica, a differenza dei miei genitori, e i miei nonni sono religiosi. Ho chiesto loro informazioni su riti e tradizioni del cattolicesimo e so che ci sono tratti simili nelle grandi religioni monoteiste (per esempio durante la Quaresima). Ma credo che il mio desiderio di capire e conoscere sia spinto da un moto interiore di non limitarmi alla superficialità di leggere e studiare ciò che è diverso da me, al contrario, di viverlo in prima persona per renderlo davvero mio e vedere fatti e persone il più possibili rispondenti al vero e non attraverso le inevitabili lenti dei preconcetti. Quindi questo desiderio attiene più alla sfera esistenziale, che oltrepassa quella culturale, perché mi coinvolge in prima persona e chiama in causa le mie relazioni più strette. Riflettendo su questo punto, credo di essere arrivata al nocciolo della questione: sono convinta che la differenza sia innanzitutto ricchezza e non distanza. Voglio dire che vivere dall’interno un’esperienza che culturalmente non ci appartiene, mettersi nei panni di un’altra persona, è il primo passo verso una conoscenza autentica che può abbattere barriere che sembrano invalicabili e che può rendere le relazioni tra persone culturalmente diverse non solo limitate alla tolleranza una verso l’altra ma a una consapevolezza più profonda e completa l’una della cultura dell’altra. È così che un’esperienza che pare confinata nella sfera personale può assumere una valenza politica, nel senso più vero di questa parola: stare insieme, in una comunità solidale e variegata.
Rossella Bertolazzi non è più tra noi
di Laura Minguzzi
Rossella Bertolazzi della Libreria delle donne di Milano, tra le fondatrici del Circolo della rosa, vincitrice nel 2020 del Compasso d’oro, il primo e prestigioso premio mondiale di design, negli anni ’80 caporedattrice del mensile SE\Scienza Esperienza fondato da Giovanni Cesareo, non è più tra di noi.
Per come l’ho conosciuta io più di trenta anni fa, al Circolo della rosa, una donna di straordinaria vitalità, intelligenza, generosità e ironia. Una presenza unica e insostituibile. Una forza della natura si direbbe con parole comuni. Possedeva una versatilità molteplice che ha espresso in campi differenti, nella scrittura, nella comunicazione mediatica, nella capacità direttiva di un’importante istituzione europea ecc.. Sono indimenticabili per me le sue qualità di chef al Circolo della rosa, dove in occasioni speciali, con passione e inventiva metteva a punto originali menù con il gruppo relazionale Estia. Una figura che comunicava forza e desiderio di stare insieme, fare insieme. Sapeva coniugare il femminismo con la progettualità e l’amore per le relazioni, valorizzando quelle e quelli con cui lavorava alla Scuola di Arti Visive IED di Milano che ha diretto dal 2001. Non amava le luci della ribalta ma la sostanza delle cose e con il suo approccio diretto e sincero, scevro da formalismi, metteva a proprio agio e trasmetteva il piacere della compagnia. «Una donna burbera e dolcissima, con uno spirito da combattente, che le ha consentito di puntare sempre all’innovazione», così è scritto nelle motivazioni per cui le hanno conferito il premio oltre ai suoi titoli e meriti professionali. Cara Rossella, ci mancherai moltissimo, a me e a tutte le amiche e gli amici della Libreria e del Circolo della rosa.
Rossella e l’anello
di Silvia Baratella
Ho iniziato a frequentare la Libreria delle donne quindici anni fa e, dopo i primi tempi, a partecipare alle cene del sabato. In cucina c’erano le cuoche di Estia, tra cui Rossella Bertolazzi. La vedevo indaffarata insieme a Ida Faré, Stefania Giannotti e le altre quando passavo a prendere il vino, e man mano che mi sentivo più a casa, le stoviglie per apparecchiare i tavoli. Apprezzavo gli eccellenti risultati dei loro sforzi congiunti, i menù spiritosi delle cene speciali, scritti con rime, battute, giochi di parole, ma non avevamo molto tempo per conoscerci.
Una sera dopo una cena, quando quasi tutte erano andate via, Rossella e altre cuoche di Estia si sono sedute a chiacchierare. Mi sono seduta con loro e ho avuto la prima vera conversazione con lei. Rossella stava raccontando con brio la sua disavventura con un anello antico, un bellissimo gioiello di famiglia di una sua amica che lei aveva molto ammirato e che le aveva chiesto in prestito per far bella figura in un’occasione professionale importante. L’amica aveva acconsentito volentieri. Ma durante la giornata il dito si era gonfiato e l’anello non usciva più. Ricordo tutta una serie di peripezie: il sapone che non aveva funzionato, i tentativi inutili di farsi aiutare da gioiellieri, poi da medici. Aveva avvisato l’amica, che le aveva detto senza esitare di far tagliare l’anello perché il suo dito era più importante, ma lei non voleva sacrificare il cimelio di famiglia dell’amica. Alla fine, non mi ricordo più come, era riuscita a far sgonfiare il dito e a sfilare l’anello senza rovinarlo. Da quando qualche anno fa anche a me hanno iniziato a gonfiarsi le dita, controllo compulsivamente che gli anelli mi si sfilino, pensando sempre a Rossella: credo che mi abbia salvata da incidenti analoghi.
Gli anni sono passati. Ida non c’è più, la salute di Rossella è peggiorata gradualmente, colpendo anche la vista. Eppure per tanto tempo è venuta lo stesso a cucinare e mi stupisce ancora come fino a pochi anni fa ci sia riuscita lo stesso, al tatto, seduta a un angolo del tavolo di cucina con il necessario disposto intorno a sé. Poi c’è stato il Covid, il confinamento, tante cose sono cambiate, ma anche quando non cucinava più Rossella finché ha potuto è venuta in Libreria. E ora la sua compagnia ci mancherà terribilmente.
Rossella per me
di Fiorella Cagnoni
Oggi è morta a Milano Rossella Bertolazzi. Ha diretto per anni e anni la Scuola di Arti Visive dell’Istituto Europeo di Design, ha vinto il Compasso d’oro – il più antico e autorevole riconoscimento mondiale nel design. Ha anche ricevuto un Ambrogino d’oro.
Ma Rossella per me e per molte amiche milanesi, della Libreria e delle città, era la più grande cuoca del pianeta, la perfetta benché severa socia di scopone scientifico, la più sinuosa elegante e leggera ballerina malgrado la bella rotondità delle sue forme. La più attenta e affettuosa compagna di pensiero e di divertimenti, nella mai ridondante attenzione e amabilità lombarda.
Quante cene “pan e pachett” – quante nottate di poker con suo marito Giovanni Cesareo, il mio diletto Silvio, la Stefi, la Lipschitz… –
A sua figlia Magdalena Barile un abbraccio da qui a là.
Chissà se era una provocazione quella dello scrittore Walter Siti quando ha dichiarato a Rivista Studio, in questi giorni, in riferimento al Premio Strega, che «[…] vincerà una donna, e sarà così per ancora due o tre anni, e poi finito un ciclo si tornerà a un regime normale». Certo è che ha sentito la necessità di aggiustare il tiro dopo che si è alzato il vento della polemica. «Viviamo in una società che accetta ancora la disparità di genere e mi è evidente la necessità di riportare l’attenzione sui libri scritti da scrittrici» ha aggiunto. «Il mio augurio è che nella società del futuro si possa tornare a concentrarci sull’opera letteraria indipendentemente dal genere, dall’orientamento sessuale o dall’etnia di chi l’ha scritta». L’idea che lo spazio (conquistato) delle donne sia una tendenza, una moda del momento, mi appare un’affermazione pericolosa che però riesce a farmi sorridere: una forma di esorcismo maschile verso la rivoluzione femminista, oramai inesorabile persino ai loro occhi, al punto che c’è bisogno di minimizzare, o fare dell’ironia. La seconda idea invece, che per superare la disparità di genere sia necessario il ritorno al neutro, mi fa sorridere e basta. Poi a smorzare il sorriso subentra una rabbia pacata. Una rabbia che immagino condivisa dalle donne che come me sanno bene che nel mondo contemporaneo e anche in quello del futuro l’opera letteraria delle donne, come ogni altra opera intellettuale o pratica, non è neutra affatto, come non è neutro il trattamento che ai lavori delle donne è stato riservato ed è ancora riservato in molti campi della cultura. E se gli effetti dell’atteggiamento discriminatorio nei confronti dell’opera creativa delle donne sono stati ampiamente denunciati, smontati, superati grazie all’impegno e all’ingegno del lavoro condiviso di donne di tutte le generazioni, e della cooperazione anche con gli uomini, rimane in buona parte ignorato nel dibattito odierno il peso del neutro (o per meglio dire del neutro-maschile) e dell’universale nelle generazione di opere creative, lo schiacciamento esercitato da questo costrutto moderno, figlio prediletto dell’Illuminismo, sulla soggettività femminile. Solo la creazione di un nuovo ordine simbolico, a partire da sé, ha permesso alle donne di pensare al di fuori dall’ordine patriarcale prestabilito, e di dare vita così a un linguaggio proprio, nuovo, vivo, vissuto, ardente, politico, sessuato. Prendendo in prestito un’espressione di Adriana Cavarero, «eliminando la parola donne si elimina il soggetto che ha davvero compiuto la rivoluzione»1. Anche parlare della vittoria delle donne come di un trend passeggero cancella la storia del femminismo, oltre che rinforzare la posizione neoliberista che il femminismo possa diventare l’ennesimo brand, operazione che sta sfociando in ideologia da più parti, consegnandoci sui media di ogni genere una versione semplificata, altamente digeribile oltre che politicizzata (per non dire strumentalizzata) del “femminismo” contemporaneo. Ma il punto non è solo la storia e la portata del femminismo, a cui dobbiamo riconoscere ed essere grate per il cambiamento sociale a cui assistiamo: è l’esistenza di una società femminile, a cui tutte le donne e tutti gli uomini partecipano attivamente. Nelle parole di Luisa Muraro, «prima della scelta femminista, c’è la risposta del fare società femminile, che resta sempre cosa buona, con o senza femminismo»2. Se a vincere lo Strega è una donna anche quest’anno (Donatella Di Pietrantonio con L’età fragile) lo dobbiamo anche, e soprattutto, all’esistenza di questa società, ed è questa la più grande rivoluzione. Se teniamo presente infatti che «la nostra civiltà si è sviluppata facendo mediazioni al neutro-maschile, come se le donne non esistessero per se stesse», come afferma sempre Muraro, è evidente che il futuro non sarà affatto riaffacciarci sul panorama uggioso del neutro, ma continuare a salpare verso rotte nuove e inesplorate, alla ricerca di parole che provengono da dentro di noi, che sono corpo e che in quanto corpo tracciano un cammino, lo segnano, lo animano. Sono parole che noi donne andiamo in giro scovando e che germogliano dall’interno quando incontriamo l’Altra e l’Altro, nella scintilla del dialogo, dello scontro, dello scambio, del corpo a corpo. Fare società femminile, e poi femminista, è anche questo, generare nella mediazione, saper confliggere, e imparare da questo processo. Inanellando parola dopo parola, corpo dopo corpo, ne sta giovando oggi anche il panorama letterario, che non sempre coincide però con quello intellettuale, e su questo dovremmo ancora lavorare facendo uno sforzo in più nel creare confronti e spazi di conversazione. Vedo nella possibilità di un confronto con autori come Siti, tuttavia, nella sopita città di Milano, un’opportunità di moltiplicazione del senso libero del partire da sé nell’incontro con l’alterità della soggettività altrui. Perché il contrasto, non inteso come ostacolo ma come componimento, è un qualcosa da tenere vivo, tantopiù in un mondo in cui espressioni come “disparità di genere”, grazie alla libertà femminile, si sono svuotate di senso. La logica della spartizione dei poteri edificata dalla cultura maschile deve essere finalmente superata con prospettive nuove, tra cui la possibilità proprio di rapporti diversificati e forti, «rapporti dove le diversità entrino in gioco come una ricchezza e non più una minaccia»3[3]. A questo proposito, come ha scritto la Libreria delle donne di Milano già negli anni Ottanta, la “disparità”, se vista dalla prospettiva relazionale tra donne, diventa un’attribuzione di valore e una vera e propria pratica femminista. Tolto il bisogno di sentirsi alla pari non solo con l’uomo ma con le altre donne, entra in gioco quel “di più” che ognuna di noi ha con sé, ed ecco che il nostro essere diverse ci appare come una risorsa e una leva nei nostri rapporti a fare di più, meglio e insieme. Ed è così che una parola logora assume un nuovo, scintillante significato.
- A. Cavarero, Mai dire donna, intervista di P. Tavella, in Il Foglio, 16 agosto 2023, https://www.ilfoglio.it/societa/2023/08/16/news/mai-dire-donna-la-filosofa-femminista-adriana-cavarero-contro-la-neolingua-che-parla-di-persone-con-utero–5590326/ ↩︎
- L. Muraro, Imparare a parlare bene delle donne, in Via Dogana 3, maggio 2018, https://puntodivista.libreriadelledonne.it/imparare-a-parlare-bene-delle-donne/ ↩︎
- Sottosopra. Più donne che uomini, Libreria delle donne, gennaio 1983. ↩︎
L’apertura della legislatura in cui la guerra è costituente di un presunto “arco costituzionale” europeo
Interpreto il comunicato di Disarmisti esigenti a cui partecipo con altre donne.
Il nostro presidio, di Disarmisti esigenti e altri, dal 16 al 19 luglio davanti alla sede del Parlamento europeo rimarca un impegno preciso: contrastare l’uso della retorica della pace di chi poi vota a presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen.E l’abitudine di votare solo per motivi di schieramento partitico, andando poi ad appoggiare con il voto gli aiuti militari a Zelensky.
Lo illustriamo in una conferenza stampa a Roma, il 9 luglio 2024, alle ore 11:00, presso la Libreria D’Amico, via Silvio D’Amico 1.
Ci chiediamo se sia utile che buona parte della sinistra cosiddetta radicale del gruppo Left sostenga la posizione che sia giusto che l’“aggredito” resista militarmente all’“aggressore”. Molti, tra cui molti elettori del PD che pure è un pilastro della maggioranza per la guerra, si proclamano e si credono pacifisti. Ma dimostrano di non avere alcuna strategia, alcuna vertenzialità contro i governi che fomentano la violenza della guerra, sono assenti e in silenzio assoluto nei momenti in cui viene deciso di accettare solo una “pace giusta”, cioè di andare avanti fino alla completa sconfitta militare dell’avversario, legittimando così concretamente la corsa agli armamenti e ai massacri. Lo abbiamo visto quando, in Italia, si sono approvati gli aiuti militari all’Ucraina.
Noi siamo molto sospettose anche rispetto a certe “unità contro la destra” che considerano l’opposizione contro la guerra addirittura divisiva. Non è forse il clima bellico, con la militarizzazione dell’intera società, il più fertile incubatore dei fascismi?
Noi donne e uomini di Disarmisti Esigenti saremo a Strasburgo appunto per vigilare e documentare, per mettere in evidenza che ci vuole coerenza tra parole e opere! Vogliamo cercare eurodeputate ed eurodeputati onesti, disposte/i a lavorare per i popoli che non vogliono essere massacrati, a prendere seriamente l’impegno di opporsi alle guerre, perché facciano da sponda istituzionale ai movimenti di base che si danno da fare con le azioni dirette, le obiezioni, la disobbedienza civile nonviolenta!
Non sarà affatto facile, perché l’atlantismo e la guerra contro la Russia sono il perimetro dell’“arco costituzionale” che, a livello europeo, andrà a formare la nuova versione della “maggioranza Ursula”. Ma è probabile che anche chi voterà contro la Commissione UE sarà a favore della sua politica di sostegno all’“autodifesa armata” dell’Ucraina in forma di guerra ad alta intensità.
Quello che invece noi sosteniamo è che, nelle condizioni tecnologiche e sociali contemporanee, da “villaggio globale” di fatto, non si può più immaginare una “guerra giusta”, come ha capito, tra i leader mondiali, Papa Francesco.
Ad esempio in Africa, dove sono del tutto estranei alle dispute territoriali in Ucraina, come conseguenza del conflitto che ha ostacolato le esportazioni di grano, la fame ha già fatto più morti delle centinaia di migliaia dei soldati periti sul campo di battaglia.
Non esiste nessuna causa territoriale che oggi valga la pena di difendere con le armi. Perché esse provocano problemi sempre peggiori di quelli che si ripromettono di risolvere, comportano il rischio di escalation incontrollabili, fino alla guerra atomica. E perché ogni rivendicazione tribale ci distoglie dal compito principale che oggi compete a tutte e tutti ai quattro angoli del Pianeta, alla comune umanità che siamo: la pace con la Natura, una nuova civilizzazione che riduca gli inquinanti, con tutto ciò che comporta in cambiamento degli stili di vita troppo lussuosi per la sostenibilità. La guerra costa e inquina più di ogni altra cosa, dev’essere evitata. L’essere a Strasburgo di pochi pacifisti che attivano il rapporto tra i popoli e gli eletti mi sembra uno sforzo da sostenere.
Per dare un respiro storico alla questione dell’astensione femminile al voto può essere utile leggere la ricerca di Dario Tuorto e Laura Sartori, Quale genere di astensionismo? La partecipazione elettorale delle donne in Italia nel periodo 1948-2018, (in “SocietàMutamentoPolitica”, 11, 2020, pp. 11-22).
Dopo una prima fase di storia repubblicana in cui la partecipazione femminile al voto era simile a quella maschile, negli anni Settanta emergono dinamiche contrastanti. Nonostante l’aumento della presenza femminile nel lavoro, nella società e nella politica, sostenuto dal femminismo e dalle lotte per l’autodeterminazione e la parità, questa maggiore visibilità non si traduce in una maggiore partecipazione elettorale delle donne.
A partire dalle elezioni del 1976 emerge un divario di genere nella partecipazione elettorale, con un aumento dell’astensionismo femminile e una maggiore mobilitazione maschile. Questo crea un divario negativo per le donne, stabilizzandosi su 1-2 punti percentuali in meno rispetto agli uomini fino alla fine della Prima Repubblica. Ciò indica una disconnessione tra la loro crescente presenza in vari ambiti della società e la partecipazione politica attiva attraverso il voto.
Negli anni Settanta le donne non solo sono state influenzate dalla sinistra e dalla critica femminista alle istituzioni escludenti, ma hanno anche iniziato a spostare il loro voto verso formazioni nuove e trasversali. Tuttavia l’emancipazione femminile si è manifestata anche attraverso l’astensione dal voto.
Dal 1976 al 1992, lo scarto medio di partecipazione elettorale tra uomini e donne è aumentato a circa 2 punti percentuali. Questo divario è cresciuto ulteriormente tra il 1994 e il 2018, arrivando a quasi 4 punti percentuali, con una differenza di 5 punti percentuali nelle elezioni del 2013 e 2018, mentre nelle elezioni del 2022 l’astensionismo delle donne è stato maggiore di quello degli uomini del 3,5%, molto probabilmente per la novità rappresentata da una donna che si candidava al ruolo di Presidente del Consiglio.
Durante la stabilizzazione degli orientamenti politici, la maggiore propensione delle donne a votare può riflettere un civismo più pronunciato rispetto agli uomini, legato alla trasmissione di valori civici e alla consapevolezza del ruolo della partecipazione nell’identità pubblica. Invece l’astensione può rappresentare una forma di contestazione, disaffezione e radicalismo, e un rifiuto degli obblighi tradizionali.
Secondo i due ricercatori il femminismo può essere una chiave per spiegare la diminuzione della partecipazione elettorale femminile. Il rifiuto di una politica percepita come maschile e patriarcale (gli autori richiamano un libro di Adriana Cavarero, Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità) prevalentemente incarnata nei partiti politici tradizionali può aver allontanato le donne dalle urne. Questo rifiuto ha sancito una distanza dalla sfera istituzionale e ha legittimato la scelta di altre forme di attivazione, non convenzionali, come l’impegno in attività sociali e di volontariato. Queste forme di partecipazione, pur essendo diverse da quelle elettorali, rientrano comunque in una sfera politica sufficientemente significativa.
Nel complesso, i dati rivelano in modo inequivocabile come il divario di genere rifletta comportamenti profondamente diversificati in base all’età, con un contrasto forte nelle fasce di età più estreme. Per le donne anziane il maggiore astensionismo può essere ricondotto, almeno
in parte, alla loro marginalità sociale.
Tra i giovani, le donne votano più dei loro coetanei maschi, soprattutto se hanno un titolo di studio elevato. Questo indica che un maggiore senso di efficacia e una percezione positiva del proprio ruolo nel processo politico incentivano la partecipazione. La partecipazione giovanile è meno influenzata da determinanti sociali e territoriali, il che la rende una scelta più autonoma.
Le giovani donne, nonostante i migliori risultati scolastici e la determinazione nella carriera lavorativa, subiscono una doppia penalizzazione in un paese che valorizza poco sia i giovani sia le donne. Questa situazione le rende sensibili e pronte a mobilitarsi su temi come il welfare, la conciliazione lavoro-famiglia e il sostegno per la vita indipendente, ma anche pronte a punire i partiti, anche attraverso l’astensione, se le aspettative non vengono soddisfatte. Ma intanto le giovani donne votano di più, e più dei maschi. Come la spieghiamo? La ricerca non giunge ad alcuna conclusione se non che indicazioni più solide sui fattori determinanti della partecipazione femminile e delle differenze di genere non possono che venire dall’integrazione dell’analisi sociodemografica con quella dei comportamenti e degli atteggiamenti sociopolitici.
Qualche settimana fa, spulciando nella mia vecchia libreria di campagna, mi sono imbattuta in alcuni testi di Sylvia Plath; li ho riletti e, come mi era accaduto altre volte, ne sono rimasta turbata. Molti smarrimenti della poeta mi sembrano, tra l’altro, attualissimi e sovrapponibili a quelli che, oggi, vengono avvertiti soprattutto dalle donne. Ci ritroviamo, infatti, a difendere diritti già acquisiti, oggetto di tante battaglie da parte del femminismo. Così ho pensato di rendere omaggio alla poeta scrivendo di lei e, in tal modo, ricordarla a quante/i l’hanno amata.
Negli anni settanta la poesia di Sylvia Plath fu letta e analizzata in modo parziale e riduttivo perché ne furono considerati unici temi dominanti la presunta schizofrenia e la denunciata violenza maschile responsabile non soltanto della “follia” della scrittrice, ma anche del suo suicidio.
Certo fu donna e poeta assai scomoda, provocatoria e sovversiva; genio che ambiva alla perfezione, specchio di quante videro riflessa in lei la propria soggettività fino a creare il Plath Myth.
Emerge inequivocabilmente dai suoi scritti un atteggiamento anti-maschile in cui le figure di dio/padre/marito, vestite con abiti nazisti, vengono identificate in quelle di carcerieri e oppressori.
C’è infatti nella poeta, soprattutto negli ultimi anni, una chiara identificazione con gli ebrei vittime dell’olocausto e della perversione maschil-nazista, ma c’è di più in quella che può sembrare solo una identificazione nel ruolo di vittima. C’è qualcosa che tende ad andare oltre il dato biografico e che presenta una condizione di sofferenza esistenziale comune alla generazione vissuta negli anni ’50 e ’60. C’è la violenza di una struttura sociale e storica nominata nelle tragedie di Hiroshima e Dachau. C’è una società che ruota intorno a valori quali «domesticità, religiosità, rispettabilità, sicurezza attraverso l’acquiescenza verso il sistema» e che induce le ragazze ad essere studentesse e figlie perfette, madri e mogli inappuntabili.
Così il sogno di perfezione in Plath si schianta contro un’avvertita inadeguatezza: il sentirsi non all’altezza delle aspettative della madre, dalla quale non era mai riuscita a distaccarsi, al punto da dipendere totalmente dalla sua accettazione fino a perdere il senso di sé.
La ricerca poetica di Sylvia Plath mette in gioco la sfera personale, si connette alla complessità della sua psiche sfociando verso visioni sempre più sconvolgenti e facilmente confondibili con nuove possibilità di essere donna e poeta.
Ma il frutto della elaborazione poetica, intellettuale e psichica finisce per scontrarsi con gli obblighi della vita quotidiana e le sue forme, i ruoli, i legami sociali nei quali viveva immobilizzata e dai quali avrebbe desiderato liberarsi, mentre la madre – così presente e così distante – la costringeva a fingere di essere forte per superare ogni difficoltà, per farcela comunque.
La poeta canta da un luogo di dolore estremo.
La “stanza tutta per sé” è stanza di cristallo che la taglia e l’attraversa. Da quel luogo di dolore non può che rappresentare luoghi di dolore deromanticizzati e resi negli aspetti più umilianti e ghettizzanti: l’orrido, la mostruosità, l’oscenità, l’abiezione, l’isteria sono il tessuto connettivo dei suoi versi. L’ansia e la disperazione evolvono in forme e figure senza corpo con testa di medusa, arpia, gorgone che raccontano esperienze borderline.
Dal dolore insostenibile si può fuggire rifugiandosi nell’asensibilità asettica, come se da dentro una teca di vetro si potesse guardare tutto senza percezione di dolore; come se auto-imprigionandosi e allontanando da sé ogni possibile tattilità, ogni con-tatto, si potesse rendere sordi il corpo e l’anima.
Ma, come scrisse Anne Sexton, amica di Sylvia Plath: a woman who writes feels too much (una donna che scrive sente troppo). Così la scrittura, che avrebbe potuto salvarla, in realtà la pone ancora al centro di un dolore la cui ferocia intollerabile incontra il suicidio, il salto fuori di sé forse come possibilità di estinguere il dolore medesimo, forse come tentativo di cancellare il sé.
La mia scelta è tuttavia quella di non codificare il gesto, bensì ritenerlo un fatto tragico e privato anche nella prospettiva di demolire stereotipi nei quali, ancora oggi, Plath rischia di rimanere ingabbiata.
È la stessa poeta a darsi corpo di strega in poesia come scelta di provocazione che, verosimilmente, mirava a rovesciare la mistica della femminilità americana – e non solo – proposta dai cartelli pubblicitari degli anni cinquanta ed oltre. Strega, luna (dea), olocausto, sono i tre temi ricorrenti nei suoi scritti dove la parola della ribellione solitaria venne considerata pericolosa e sovversiva dall’ipocrita società, tanto da essere letta come follia, e isterico fu definito il corpo da cui quella parola veniva fuori a turbare le coscienze “buone” e “giuste”.
Questa poeta ambiziosa e fragile che avvertiva soffocante indossare solo gli abiti di madre e sposa, rappresenta uno dei sacrifici femminili al mondo e all’arte, perché scardinando in solitudine le porte del disvelamento di sé, mediante la ricerca linguistico-poetica, frantumò se stessa e fu travolta dai suoi stessi demoni creativi ed esistenziali.
Vorrei aggiungere al commento Europee, luci nel vento (12 giugno 2024) di Ida Dominjianni al voto europeo la mancata applicazione in Italia della par condicio nei media, e nella tribuna elettorale delle testate RAI, quello che credo fosse un obbligo: riservare uguale visibilità a tutti i programmi elettorali.
È stato così possibile attuare il silenzio stampa e televisivo sui gruppi presenti al voto e non graditi da emittenti e giornali, o forse soltanto deboli rispetto al governo.
Mi appare una cosa molto grave che i partiti abbiano accettato questo despotismo contro l’informazione della cittadinanza prima del voto. È stato un atto così antidemocratico da farmi riconoscere il Fascismo. Ha certamente avuto un peso nelle votazioni e lo ha per il futuro politico che ci riguarda.
Il potere dei media è mastodontico, ne abbiamo avuto sorpresa io ed Elena Urgnani – di Disarmisti Esigenti, candidata nella lista Pace Terra Dignità – dall’esito dei suoi voti: 35 voti a Milano e 26 ad Abbiategrasso dove vive, tramite propaganda in presenza; il resto, fino al totale di 400, dal Piemonte, dove una televisione locale le ha dato per circa cinque minuti voce e visibilità.
«Ciascuno può informarsi da sé!» (intendendo con questo «in rete»), questa frase, giustificata dall’espansione obbligata che ha avuto la comunicazione digitale, sembra l’epitaffio della cura delle relazioni collettive. L’isolamento individuale che porta a non votare, nei fatti ci sottopone alla sola voce del potere. Senza stimoli alla condivisione delle scelte, la politica dei partiti dà la vittoria di nuovo al fascismo.
Segnali interessanti: il quotidiano La Stampa ha pubblicato (19 maggio 2024) un articolo di Annarosa Buttarelli dal titolo “Quando abbiamo dimenticato che il ricorso all’aborto è un problema degli uomini?”.
In quell’articolo si fa un passo avanti importante sul tema. Si ribadisce come irreversibile l’autodeterminazione della donna come unità psicofisica inviolabile: da lì non si torna indietro, benché si assista oggi «al tentativo di aggredire questo presidio irreversibile che il “soggetto imprevisto”, le femministe delle origini hanno guadagnato nel corso della rivoluzione delle donne».
Contemporaneamente si sottolinea con decisione il cambio di civiltà necessario perché «l’inculturazione mancata dei maschi riguardo al rispetto dell’inviolabile corpo fecondo delle donne fa attrito con la riuscita de-culturizzazione patriarcale delle donne che si sono assestate nell’autodeterminazione. Sta ai maschi trovarsi all’altezza del coraggio femminile.»
Buttarelli invita a farsi ispirare dalle parole di Carla Lonzi: «Proviamo a pensare una civiltà in cui la libera sessualità non si configuri come l’apoteosi del libero aborto e dei contraccettivi adottati dalle donne. In tale civiltà apparirebbe chiaro che i contraccettivi spettano a chi intendesse usufruire della sessualità di tipo procreativo, e che l’aborto non è mai una soluzione per la donna libera».
Lo sappiamo bene: ci siamo sempre fatte carico del problema contraccettivi, adottando via via le soluzioni che apparivano nel tempo più sicure e meno invasive. Ma oggi il tema minaccia di essere anche più sottilmente invasivo. Come spiega Laura Tripaldi in Gender Tech. Come la tecnologia controlla il corpo delle donne, siamo entrati/e in una rete di sorveglianza biotecnologica.
Se vogliamo fare passi avanti in questo cambio di civiltà, è imprescindibile che gli uomini si chiedano: come ci rendiamo responsabili in relazione al corpo fecondo delle donne? Lo dice chiaro e semplice Gabrielle Blair che affronta il tema in Eiaculate responsabilmente. 28 buone ragioni (Feltrinelli 2024). Pare che anche nella ricerca qualcosa si muova (vedi Katherine J. Wu, Misure da uomo, articolo su The Atlantic/Internazionale – https://puntodivista.libreriadelledonne.it/misure-da-uomo/ -) e entro i prossimi vent’anni (!) avremo nuovi anticoncezionali maschili (per i quali naturalmente si cercano standard molto più severi di quelli fin qui usati per gli anticoncezionali femminili! E questo potrebbe avere ricadute positive anche per le donne).
Concludo ribadendo, come ci suggerisce Buttarelli, che è importante fare luce su questo cambio epistemologico: la libertà delle donne, con l’autodeterminazione (altro che denatalità e difesa della vita!) ha sottratto la generatività al dominio patriarcale e ha cominciato a ripensarla, ma quando gli uomini non si rendono in prima persona responsabili nel loro rapporto con il corpo fertile femminile, c’è una violenza simbolica che continua.
Forse, oso dire, è solo un primo passo, ma imprescindibile, per mettere in discussione l’indifferenza secolare della filosofia per il corpo materno. Come dice Adriana Cavarero: «Fenomeno esclusivamente femminile, la gravidanza permette di conoscere una “verità” essenziale della condizione umana, che al corpo integro dell’altro sesso non è dato esperire» (A.C., Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno). È più che mai necessario reintegrare la nascita come aspetto centrale della temporalità umana: la nascita ha la precedenza sulla morte. Le donne lo sanno. E il mondo ha più che mai bisogno di saperlo.
Il 30 maggio, 1° e 2 giugno si è tenuto a Torreglia il convegno straordinario “Incontriamoci così come siamo… sulla soglia…”, organizzato da Identità e Differenza di Spinea con la rete delle Città Vicine e le Nuove Beghine. Il convegno riprende gli incontri che si sono tenuti annualmente dal 1995 al 2018, importanti momenti di confronto di pratiche politiche femministe e di relazioni di differenza tra donne e uomini.
In questa occasione, Alberto Leiss di Maschile Plurale ha introdotto il tema della sua ricerca di genealogie maschili che desidera ritessere alla luce dell’incontro con il femminismo e ha avanzato la proposta di una pratica di incontro tra gruppi di uomini e gruppi di donne indipendenti. Ne è nato un dibattito interessante, che si è intrecciato agli altri temi portati da donne e uomini nell’incontro e incentranti in gran parte sul clima di guerra e le possibili risposte.
Umberto Varischio e Stefano Sarfati, entrambi impegnati alla Libreria delle donne, hanno messo a punto efficacemente il senso della loro pratica politica direttamente radicata in un contesto femminista e, come pure Claudio Vedovati, ciascuno con sfaccettature diverse, della scelta di inscriversi in una genealogia femminile. Marco Deriu (anche lui di Maschile Plurale) ha parlato del suo bisogno di ricostruire, come Alberto, una genealogia maschile a positivo, radicandola anche nella sua biografia personale e nella perdita precoce del padre.
Seguono i due interventi di Stefano Sarfati durante il convegno.
(La redazione del sito)
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Mia mamma è una delle fondatrici della Libreria delle donne di Milano, sono cresciuto tra le femministe, e ho sempre trovato una cosa normale dare autorità alle donne. Comunque aldilà di questa vicinanza che ho avuto fin da ragazzo, c’è stato un momento in cui ho letto, riflettuto e frequentato da vicino la Libreria delle donne e dopo un’iniziale difficoltà, il guadagno in termini di libertà è stato enorme. La mia grande scoperta (ma è la scoperta che fa ogni uomo che vi si avvicina) è stata che il femminismo della differenza è buono per gli uomini come per le donne, così come la madre è buona per i figli come per le figlie.
L’intervento di Alberto Leiss come altre volte in passato è stato per me stimolante e mi ha suscitato una riflessione. Quando Alberto ha accennato alle figure maschili da salvare, cosa si può salvare del patriarcato, mi ha fatto ricordare quando ho letto L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro, in particolare quando parla di genealogia materna. All’inizio rimasi spiazzato, ho sentito un senso di vuoto e spaesamento, mi dicevo: e io dove sono in tutto ciò? Mia sorella era inclusa nella genealogia di nostra madre e io no.
Poi ho pensato ok, mia sorella con le sue figlie continua la genealogia, mentre io sono diciamo così “un binario morto”, ma intanto che vivo sono nella genealogia di nostra madre, tanto quanto lei.
Quindi, per tornare all’intervento di Alberto Leiss la mia genealogia di uomo non sono i Montaigne, gli Spinoza eccetera, ma la mia madre naturale e altre madri simboliche.
Questo mi porta anche a essere d’accordo con l’intervento di Umberto, con cui condivido la pratica politica alla Libreria delle donne di Milano, di non ritenere interessante un gruppo di uomini che si esprimano in quanto uomini femministi, ma trovo interessante esprimermi da uomo femminista in un luogo principalmente di donne.
Da quando ci siamo riuniti l’ultima volta qui a Torreglia ad oggi il mondo è peggiorato, si parla di bombe atomiche, e siamo tutti e tutte angosciati. Personalmente credo che se tutti gli uomini dichiarassero la loro genealogia materna, ossia l’ordine simbolico della madre, figure come Trump, o Putin, ma anche Macron o Stoltenberg e le brutte copie nostrane, che in qualche modo esistono grazie alla figura simbolica del padre, perderebbero immediatamente consistenza.
Dopo la fine del patriarcato siamo finiti in un vuoto dove tutto può succedere, il passaggio che manca secondo me è il passaggio in cui gli uomini si rifanno a una genealogia della madre.
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La radicalità del percorso del femminismo italiano dagli anni del Demau ad oggi, ma anche la domanda di Adriana Sbrogiò di ieri: voi uomini cosa fate? meritano da parte di noi uomini che ci diciamo femministi, una risposta radicale. Anzi gliela dobbiamo.
Non è più il momento dei pianti per i padri perduti, non è più il momento dei grandi geni del passato, se vogliamo un cambio di civiltà questi padri si devono lasciar andare, per citare Carla Lonzi: «vai pure».
Ovviamente sto parlando di padri simbolici; non è che non capisca il trauma della perdita di Marco Deriu, rispetto il suo dolore, io qui sto parlando di politica, di guerra e di pace, di vita e libertà.
Ribadisco quello che ho detto ieri: noi uomini che ci diciamo femministi dobbiamo senza esitazione dichiarare la nostra adesione al mondo della madre e dobbiamo trovare delle parole da far dilagare nel mondo per intendere questa adesione simbolica.
Il contributo di Clelia Mori Gli uomini e la guerra del 29 marzo scorso mi ha riportato alla mente quando nacque il figlio di mia cugina, ma potrei dire il figlio di mia figlia, per l’infinitesimo ruolo materno che ho sperimentato con lei: ho sentito di varcare la mia vita in un futuro infinito. La gioia più grande della mia esistenza ha squarciato tutti i dolori, avevo un futuro che raccoglieva gli affetti della mia famiglia, della mia appartenenza. Non lo so se c’entra l’essere femmina o soltanto riconoscere l’appartenenza.
Clelia Mori argomenta bene. Ma anche altre nozioni sono utili per osservare la pluralità delle influenze che ci educano e ci modificano. Nelle popolazioni antiche ancora visibili Margaret Mead* mise bene in rilievo le diversità insite nel contesto di relazioni economiche e umane che diversificavano le reazioni di uomini e di donne in rapporto anche alla cura della vita e alla violenza. Vivere insegna, tutto è modificabile con l’economia, la relazione umana, la cultura applicata.
Presso gli Arapesh la scarsità del cibo metteva a rischio l’ovulazione. Maschi bambini, più capaci di lavorare la terra e altro perché di sette, otto anni, venivano sposati a bambine di cinque, perché le alimentassero, assolvendone i genitori. Questi ultimi, e proprio il padre, al primo accoppiamento sessuale dei bambini divenuti dopo anni adolescenti, rinunciava alla copula per sempre, preservando la possibilità di alimentare nel gruppo sociale complessivo i nuovi nati. E molti altri diversissimi esempi parlano delle potenzialità maschili, in molti versi. Possono essere senza regole, i maschi, ma anche molto autoregolati, disumani e umani sia le femmine che i maschi, si tratta di esperienza.
Le Mundugumor, sempre in Mead*, buttano i lattanti sulle spalle: se si tengono ai capelli vivono, se riescono a imboccare il seno dall’alto senza cadere, mangiano; i figli a loro sono di impaccio soltanto. Presso i balinesi, dove lo stupro era completamente inesistente, le madri stimolavano i piccoli sessualmente e smettevano prima dell’apice, al loro piangere li deridevano ripetutamente. I padri li attaccavano al proprio capezzolo come noi al ciuccio, per tenerli buoni. Tra noi chi condivide i carichi domestici con la madre perché lei così educa i maschi, sarà autonomo, e se la moglie lo lascerà continuare a farlo anche rispetto ai figli, questi permarrà capace di lavorare alla cura di tutto quanto si abitua a fare. A meno che non si pretenda da lui di massimizzare i soldi sul lavoro o di utilizzare tutto il tempo abile per conservarsi la possibilità di un posto remunerato.
Se un tempo arcaico vedeva la necessità di uccidere ogni straniero incontrato per la prima volta, per la paura del diverso, questo si faceva. E per difendersi dagli altri che ti imprigionavano e vendevano ai portoghesi che ti portavano schiavo in America, dovevi armarti e unirti ad altri, in Africa, e cercare di fare la stessa cosa a quelli che vivevano nel tuo stesso contesto. La Mead spiega così un passaggio dalla casa matriarcale al formarsi di quella patriarcale in quel luogo: i maschi strinsero legami tra loro per questo commercio e trasferirono in case di uomini il cibo che prendevano dalla casa materna, per solidarizzare. Il crescere di risorse dei maschi ha potuto creare il resto.
Anche la difesa dei propri figli e della madre che li allattava per anni aveva un senso di cura e collaborazione umana per i maschi. L’abbiamo disprezzato nel primo femminismo, come la gravidanza delle madri, per l’insopportabilità delle conseguenze politiche che il potere maschile ci aveva fatto subire. Ma non ci conviene minimizzare l’educazione: anche gli uomini sanno pensare agli altri se ne fanno esercizio.
(*) Molti sono i testi e i filmati, di Margaret Mead menziono Sesso e temperamento, Maschio e femmina, Popoli e Paesi, e il libro di Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente. I filmati di Margaret Mead erano custoditi presso l’Università di Pisa.
Da Radio Popolare – Elena Mordiglia, giornalista di Radio Popolare, è venuta a trovarci alla Libreria delle donne un piovoso venerdì pomeriggio. Abbiamo parlato con lei di libri, di come si lavora in libreria e naturalmente di femminismo. Dalla nostra conversazione è nata una puntata della sua trasmissione “Sui generis”, andata in onda nella serata di venerdì 17 maggio 2024.
Qui di seguito il link al podcast
(Radio popolare, 21 maggio 2024)
Da Alias il manifesto – A volte è sorprendente provare molte e differenti emozioni solo leggendo un piccolo libro. È quanto può succedere con la Corrispondenza tra Victoria Ocampo e Virginia Woolf, che arriva in libreria per l’editore Medhelan, sapientemente curato da Francesca Coppola, e con un saggio introduttivo di Nadia Fusini (pp. 200, euro 18,00).
Nonostante il corpo delle lettere sia esile, ventitré della Woolf e tre della Ocampo, l’insieme dei paratesti che accompagnano questo dialogo a distanza lo abbracciano in modo preciso e competente, così che possiamo leggere nella condizione migliore per scoprire quante cose si nascondono dietro e dentro alle righe di due grandi donne così intelligenti e sensibili, così diverse. Il loro ritratto è brillantemente disegnato nelle prime pagine da Fusini, al punto che le vediamo nella loro presenza fisica e intellettuale, ascoltiamo la voce sempre ironica e spesso affrettata dell’una e quella ammirata e devota dell’altra, in un racconto del senso profondo del loro legame, la cui radice è per entrambe la fiducia nella libertà femminile, la fiducia che una donna debba essere libera di cercare da sé il proprio posto nel mondo.
Da questa radice spontanea nasce lo sguardo amoroso di Victoria per Virginia, da lei Victoria si sente autorizzata a credere in se stessa, nella propria scrittura, a lei sente di fatto di dovere l’essenziale: «Se c’è qualcuno nel mondo – scrive – che può darmi coraggio e speranza è lei. Per il semplice fatto di essere com’è e di pensare come pensa».
Giustamente Nadia Fusini sottolinea che siamo di fronte a qualcosa di inedito, e non è la prima volta, qualcosa che smentisce quella «febbre che regnerebbe nell’universo delle donne, e cioè l’invidia», cui molto facilmente crediamo per una falsa tradizione, una febbre ancora oggi spesso all’ordine del giorno ma che per fortuna studi, analisi e racconti di molte donne finalmente smentiscono (non perché questi sentimenti negativi non esistano, ma per illuminare quanto è sempre stato tenuto fuori scena).
L’accurata ricostruzione di Manuela Barral ci avvicina a vita, opere e desideri di Victoria, e alla sua impresa forse da noi più nota, la rivista e casa editrice Sur, che pubblicherà, affidate a Jorge Luis Borges, due importanti traduzioni di Woolf, Una stanza tutta per sé nel 1936 e Orlando nel 1937; nel ’38 “arriva” Gita al faro, tradotto da Antonio Marichalar, ma altre scritture e conferenze l’amica argentina dedica alla scrittrice inglese, consapevole che anche questa invenzione, non solo di una scrittura per sé, ma di una casa editrice per altre e altri (come la Hogarth Press di Leonard e Virginia Woolf) è comune passione, comune intenzione di incidere in una tradizione mirabile per l’una, a ridosso del vuoto per l’altra.
Ma il vero, puro piacere è posare direttamente lo sguardo sulle loro lettere: si tratta di dettagli, quelli in cui le signore della scrittura diventano impareggiabili, tra scambi di fiori e farfalle, il ritrarsi puritano di Virginia di fronte a regali «meravigliosamente inopportuni» e la sovrabbondanza di doni, omaggi che viaggiano da un continente lontano, segnati dalla nostalgia («Come fare, Virginia, per incollare l’Europa all’America e asciugare l’oceano che le separa?»), ma intanto, a Londra, l’amica dalla mente visionaria la immagina «mentre ascolta il vento muovere migliaia di ettari di erba della pampa».
Lo stile, anche il semplice stile epistolare di Virginia è sempre riconoscibile e scintillante, mai innocente perché vivo di insaziabile curiosità, quando ad esempio chiede di minuzie della vita quotidiana vuole sapere tutto: «Mi dica che cosa fa, con chi esce, mi descriva la campagna, la città, la sua casa, la sua stanza, tutto, anche quello che mangia, i gatti, i cani, e il tempo che passa a fare questo e quello». Lei deve vedere, immaginare, sognare anche quando legge una lettera. Certo poi è sobria nel suo dolore quando accenna alla morte dell’adorato nipote Julian, e franca quando mostra tutta la sua irritazione per l’inaspettato arrivo di Victoria in compagnia di Gisèle Freund con la sua macchina fotografica. Suo è infatti uno dei più famosi ritratti della Woolf, che compare insieme a molte altre immagini in questo prezioso e delicato libro il cui arrivo è bene festeggiare.
Ieri, 8 maggio 2024, è morta a ottantasette anni Giovanna Marini. Compositrice, cantante, etnomusicologa e ricercatrice sul campo, autrice di ballate, ha “salvato” e fatto conoscere un enorme patrimonio di brani di musica di tradizione orale del nostro paese. Per me è stata importantissima. Dai dodici-tredici anni ho cominciato a conoscere le sue opere, presenti in casa nella collezione de “I dischi del sole” di mio padre. Era una delle poche donne in quell’ambito che non si limitasse a raccogliere e interpretare le canzoni popolari ma producesse anche testi, e dunque parola propria: le sue famose ballate. Ancora oggi in parte vedo la società statunitense con gli occhi del suo Vi parlo dell’America, un 33 giri di due facciate sul suo soggiorno a Boston nel 1965/66. Per me era importante dare credito a un pensiero e una voce di donna come la sua, anche se lei non sottolineava il suo sesso né si dichiarava femminista.
Non era femminista, ma ha tracciato un filo di genealogia femminile riconoscendo il suo debito con Giovanna Daffini, ex-mondina che le insegnò il modo di usare la voce nel canto tradizionale e le trasmise il suo patrimonio di canzoni.
Non era femminista, ma ha saputo affondare il suo sguardo lucido, intelligente e spietato nel groviglio complesso del materno e delle relazioni tra madre e figlia, e qui voglio ricordarla proprio con la sua opera La creatora (ovvero in nome della madre) del 1972. È una ballata che mette in scena una creazione traposta al femminile e gli effetti deleteri del rifiuto della figlia di riconoscere il debito con la madre, della sua incapacità di agire il conflitto, della sua sterile negazione. Da ragazzina l’avevo interpretato come un atto d’accusa alla tirannia delle madri, aiutata in questa lettura di comodo dal fatto che Giovanna Marini non faceva sconti a nessuna delle sue due protagoniste, finché non lessi un’intervista in cui lei stessa spiegava, spiazzandomi, di essere «ovviamente» dalla parte della madre… Chissà che la mia attuale idea di femminismo non la debba anche un po’ a questa sua lezione imprevista.
Intervento introduttivo all’incontro alla Casa della Cultura, Milano 14 aprile 2024, Parole e oltre. A partire dall’appello Mai indifferenti. Voci ebraiche per la pace. Video: https://youtu.be/BCb5c5XnhnE
Questo appello è nato non per caso ma da relazioni profonde.
Di fronte alle atrocità del 7 ottobre e alla successiva spaventosa reazione dell’esercito israeliano, ci siamo ritrovate tra amiche – all’inizio eravamo solo donne – per confrontarci sul sentimento di disperazione, di spaesamento, d’impotenza di fronte a ciò che stava accadendo. È stata una di noi, Joan Haim, che ha sentito fortemente la necessità di fare qualcosa di concreto, di costituirci non come un gruppo (non volevamo fare l’ennesimo gruppo) ma con una dichiarazione: Mai indifferenti.
Ognuna di noi ha cercato con uno sforzo di verità di esplorare e di dire i propri sentimenti, anche quelli più contradditori, fino ad arrivare alla stesura di un testo che è poi diventato l’appello dove abbiamo cercato di registrarli e di tradurli in politica. Volevamo spezzare la voce univoca delle istituzioni ebraiche che ci turbava, evitare la politica degli schieramenti “o sei con me o sei contro di me”, contro l’uso strumentale e distorto di parole gonfie di sangue e di lacrime quali antisemitismo, genocidio, sionismo, disumanizzazione dell’altro, senza la necessaria conoscenza della storia. E questo uso viene fatto strumentalmente dal governo di Israele, da parte di molta stampa e un po’ ovunque nel mondo, aggravando il conflitto, alimentando solo odio e facendolo apparire senza soluzione.
Vorrei qui citare una frase da un testo di Simone Weil, tratta da Non ricominciamo la guerra di Troia. Potere delle parole, scritto nel 1937: “Chiarire le nozioni, screditare le parole intrinsecamente vuote, definire l’uso delle altre attraverso analisi precise, ecco un lavoro che, per quanto strano possa sembrare, potrebbe preservare delle vite umane”.
Questo nostro impegno può contribuire a minare il clima di odio e di violenza che ci circonda. Insieme a tante altre persone e gruppi che già ci sono nel mondo vogliamo creare una rete che faccia sentire la sua voce, anche in Israele dove c’è chi lotta contro l’occupazione, per la pace e per l’idea di convivere con uno stato palestinese. Infatti, un altro desiderio che scaturisce da questo impegno è dare sostegno e visibilità a coloro che in Israele vogliono il rilascio degli ostaggi, il cessate il fuoco, la nascita dello Stato di Palestina, una pace giusta. C’è Haaretz, quotidiano di opposizione di grande qualità che non ha paura di affrontare i temi più controversi e scottanti, ci sono associazioni quali Standing together, Parents circle, Women wage peace, e molti altri, donne e uomini coraggiosi, arabi e israeliani, che operano in vari modi, manifestando, mettendo in atto un’altra politica fatta da persone che vedono e si riconoscono nel dolore dell’altro anche andando contro istintivi sentimenti di rabbia. Dobbiamo far conoscere la loro esistenza. Sono solo una minoranza, è vero, può sembrare utopico nella terribile congiuntura attuale ma sono punti di partenza per ricominciare.
Credo che oggi si debba andare oltre il pensiero schiacciato dalle ideologie e affrontare i problemi legati alla violenza dalla parte di chi la riceve, ma anche di chi la pratica. Questo significa calare il problema nel contesto socio-culturale costruito fin qui e nel vissuto psichico e intrapsichico dei soggetti agenti cercando collegamenti e connessioni tra ciò che la società rimanda come violento e ciò che ciascuno/a è rispetto al proprio agito di soggetto sessuato.
Avverto profondamente, soprattutto in questi ultimi tempi, la consapevolezza di un misfatto che si vorrebbe perpetrare: il tentativo di cancellazione del femminile in quanto non più corrispondente all’ordine patriarcale, il tentativo di limitare o condizionare la libertà femminile esercitando il controllo sul corpo e travalicando il principio della sua inviolabilità. Libertà che grazie al femminismo passa attraverso la possibilità di relazionarsi fra donne in modo diretto e non più secondo il modello riproduttivo che conduceva verso strade di omologazione legittimate dallo sguardo maschile e dalla sua intermediazione.
La relazione fra donne, non ritenuta politica, non è quasi mai stata trascritta nella storia, nel mito – e dunque nel simbolico – determinandone così la miseria, la declassificazione a “fatti di donne” o per dirla col nostro gergo siciliano, “cosi di fímmini”, fatti privati destituiti di valore politico.
E ancora oggi la realtà è soggetta a una invasione capillare e inesorabile di forme di violenza che ci colgono spesso impreparate/i, stupite/i e travolte/i da un senso di impotenza.
La proliferazione di atti violenti è stata così veloce da non darci il tempo di capirne e ricercarne le cause profonde condizionate/i come siamo ad analizzarne le conseguenze.
E siamo mancanti anche di un alfabeto per nominare e rendere riconoscibile la violenza, infinite essendo le sue espressioni.
La violenza sul corpo delle donne, come quella sul corpo dei/delle bambini/e, è la più brutale, ma è opportuno che gli uomini si interroghino su questo e sull’istinto non controllato dal cervello che insieme alla cultura li conduce all’efferatezza. Non c’è giustificazione che le donne possano trovare per gli stupratori acquattati nel buio dei garage in attesa della “preda”, né per coloro che ammazzano le donne perché non ne possiedono il corpo, né per quanti ricattano e schiavizzano per costringere alla prostituzione.
C’è un campo illimitato di violenze psicologiche e fisiche che riducono all’obbedienza, alla sottomissione e che replicano metodi usati dai nazisti nei campi di concentramento per annullare la soggettività umana privandola di identità e dignità, fino alla sua regressione allo stato animale.
C’è poi la violenza del linguaggio, il turpiloquio, l’offesa, l’insulto, l’umiliazione, la paura.
E poi vi sono le tracce visive e sconvolgenti della natura violentata, le immagini sporche dei nuovi media, l’arroganza del mezzo audiovisivo, l’invasività di una tecnologia che vorrebbe ridefinire e manipolare la percezione; le mutazioni dei paesaggi urbani, degli spazi domestici, la difficoltà di capire il mondo.
È un confronto serrato tra il pensiero e l’immaginario dominante, tra la realtà e la sua rappresentazione. Ed è in questa realtà che le donne praticano una possibile resistenza intesa come tensione capace di emettere segnali nuovi verso l’urgenza di un’alternativa, una diversa organizzazione del reale e del simbolico, un cambiamento che partendo da sé cambi il mondo.
La costruzione di un ordine simbolico rispetto all’appiattimento e all’omologazione culturale, ai condizionamenti e all’etica, non solo cattolica, che impone la “famiglia” come unica possibile forma sociale, conferisce valore alla ricchezza potenziale della realtà per svilupparne una singolarità che si ponga in maniera dialettica con un diverso pubblico.
Non si tratta di un approccio meramente contestatario e rivoluzionario, ma sovversivo proprio per il suo essere propositivo che pone la strada di una forte trasformazione e di un nuovo posizionamento femminile fuori dal vittimismo.
Quando le donne si sono impegnate nelle battaglie le vittorie sono state vittorie per tutta la società. La politica che vede le donne in prima linea è politica d’inclusione, di rispetto delle diversità, di pace. (Tina Anselmi)
Buona festa!
La redazione del sito
Da sinistra a destra:
– Ebe Bavestrelli, Antonietta Romano Bramo (Fiamma), Claudia Ruggerini (Marisa), Lia Bellora (soprabito bianco), Tina Anselmi (Gabriella)
– Maddalena Cerasuolo (Maria Esposito), Marisa Ombra (Lilia), Lia Galeotti Bianchi (Lia), Rina Ferrè, Gruppo donne
– Audrey Hepburn, Leda Antinori, Faccia della pace (Picasso), Carla Capponi (Elena), Enrichetta Alfieri
– Gina Borellini (Kira), Onorina Brambilla Pesce (Nori), Maria Antonietta Moro (Anna), Norma Pratelli Parenti, Irma Bandiera (Mimma), Gruppi di difesa della donna.