Voilà qui je suis.

(Barbara Pravi)

Anche a me è capitato di recente di trovarmi nella parte scomoda di chi viene frainteso e guardato con sospetto. Eravamo con le mie bambine in una libreria e ragionavamo attorno ad una storia illustrata per bambini che avevano tirato fuori dallo scaffale delle letture consigliatissime, del perché il principe era una principessa; dell’aspetto volutamente ambiguo di una delle due principesse, né troppo femminile né troppo maschile, ma piuttosto un po’ maschile e un po’ femminile; del perché fosse poi sempre la solita storia di riscatto di una principessa, anche se stavolta ad aiutarla era un’altra principessa. Della vergogna che nessuno dovrebbe mai farti provare, del destino che non dovrebbe essere una pagina scritta, dell’amore e delle sue multiple forme e del rispetto che dovrebbe informare ogni amore. Soprattutto ragionavamo della confusione, sì, la gran confusione a cui una storia così esponeva loro e tutti gli altri ragazzi. Ma non è stato tutto questo ad attirare l’attenzione della coppia forse omosessuale, forse no che era seduta proprio accanto a noi; una di quelle coincidenze assurde, anche perché erano italiani come noi in un caffè libreria in cui tutti gli altri parlavano francese. Mi sono girata e li ho distinti solo quando ho captato quelle parole sdegnate che provenivano dalla loro direzione: «una di destra». Parole seguite alle mie con cui spiegavo alle ragazze proprio con le parole della filosofa Adriana Cavarero che esiste un dato biologico, che per nascita i sessi sono due, che ci sono casi di intersessualità, eccetera, eccetera. Giusto per fare un po’ di chiarezza nello sguardo sperduto e interrogativo delle bambine. Perché dire queste cose oggi è politicamente scorretto, peggio, è reazionario. Se gli avessi detto che sono piuttosto di sinistra, da una vita, non mi avrebbero creduto; se gli avessi detto che sono femminista, da una vita, mi avrebbero dato della “TERF”, femminista bacchettona e omofoba… meglio rimanere zitta, non dire niente. Del resto a me le etichette, le sovraidentità, gli schieramenti che ti collocano nettamente di qua o di là, non sono mai piaciuti. Situazione grottesca, piccolo fastidio per non aver dato sfogo alla mia impulsività, libro riposto nello scaffale e siamo andate via con una storia di fantasmi. Erano “i morti”, meglio conosciuti nel colonialismo linguistico angloamericano come Halloween.

Nel 2019 la filosofa e attivista americana Judith Butler scriveva tra le altre cose un articolo intitolato “Sex and Gender in Simone de Beauvoir’s Second Sex”. Il saggio di Cavarero e Guaraldo, Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa) è anche una risposta alla posizione di Butler, distante da quella di Cavarero ma in dialogo serrato. Al rileggere il testo di Butler mi sento di affermare che in fondo il punto di partenza di Butler e Cavarero è lo stesso. Perché quel punto di partenza è insormontabile. Anche per la pensatrice americana, Beauvoir distingue chiaramente il “sesso” femminile, dato incontrovertibile, e quello che poi dopo di lei è stato chiamato “gender”, concetto introdotto dal pensiero anglosassone, dai gender studies, e usato oggi à tort et à travers [a proposito e a sproposito]. Il sesso è il dato anatomico, mentre il gender è il significato culturale che sesso e corpo femminile acquisiscono o piuttosto subiscono nel sistema androcentrico. Butler lo riassume con una espressione felice in cui c’è il corpo e quello che viene dopo: body’s acculturation [‘acculturazione del corpo’]. Il sesso anatomico (femmina/maschio) è il locus, il corpo in cui ci costruiamo come individui e in cui avviene anche la costruzione del genere che è un processo costante, discontinuo, casuale e volitivo di appropriazione, riappropriazione, interpretazione e reinterpretazione del nostro corpo e delle possibilità culturali (spesso limitanti, veri e propri tabù e restrizioni) che riceviamo. Il femminile, la femminilità (vergine, moglie, madre, ma con corpo ammiccante e desiderabile, puttana, traditrice, ecc.) è una manipolazione culturale del nostro corpo di donna; non esiste un comportamento “naturalmente” femminile (debole, instabile, bisognosa di protezione, ecc). Being female and being a woman are two different sorts of things1, scrive Butler. Come tale il genere o identità sessuale è innaturale, acquisito, immaginato, percepito (all gender is by definition unnatural2). Possiamo anche concedere a Butler che per divenire un certo genere non è necessario essere di un certo sesso.

Butler scrive: one is one’s body from the start, end only thereafter becomes one’s gender3! La stessa Butler scrive nero su bianco che the masculine pursuit of disembodiment is necessarily deceived because the body can never really be denied4! Il corpo sessuato sta lì, dall’inizio, anche per Butler. L’anatomia è un limite (o piuttosto una possibilità), una restrizione ma è anche il punto di partenza, inevitabile, semplice e necessario. Subito dopo però Butler si mangia la coda e continuare dicendo che questo punto di partenza sarebbe fittizio perché è anch’esso il frutto di quella attività volitiva costante di crearci e generarci, rinnovarci incessantemente. Né uovo né gallina.

Il sé è un’unità fragile che si proietta e desidera incessantemente ma a un certo punto di quello che è un difficile processo di accettazione bisogna però anche scegliere: quello che siamo sarà anche la somma degli atti che abbiamo compiuto. Sarà come ogni narrazione, anche la più “disordinata”: qualcosa di compatto. Che lo vogliamo oppure no, il divenire, la vita implica una progressione nelle scelte e nei ripensamenti, una sintesi, il capitolo successivo, perché il dinamismo continuo implica anche dispersione e instabilità; perché se stessimo a compiere sempre la stessa scelta rimarremmo impantanati, fermi nella coazione a ripetere sempre la scelta del nostro genere, della nostra identità sessuale (altro che fluidità!). Quanto possiamo divenire nella costruzione della nostra identità come persona sessuata? Forse è questa la domanda. Ma i limiti sono fuori moda.

Per Cavarero il sé alla nascita è un’unicità incarnata dunque sessuata, assolutamente irripetibile: l’insostituibile che permane nel tempo («ogni essere umano è chi nacque e vive finché muore») piuttosto che la molteplicità dei nostri frammenti. L’identità che si costruisce sul chi è anche desiderio e promessa. E la parola porta e veicola il desiderio di identità e di unità. A differenza della visione del post-strutturalismo e del post-femminismo in cui l’identità è una chimera, si confonde e si perde nel linguaggio, non esiste senza il linguaggio, un linguaggio che sta finendo per censurare piuttosto che portare il nostro desiderio di unicità.

Poi, sappiamo, Butler (e con lei il femminismo post-strutturalista) compiono un salto logico da quella premessa che è l’interpretazione legittima dell’affermazione di Beauvoir ad una conclusione che resta la legittima ipotesi di Butler. E la dislocazione di genere (quando il genere non coincide con il sesso anatomico, in caso di disforia) diventa una specie di regola, di percorso necessario per ognuno di noi, per ognuna di noi (In these moments of gender dislocation in which we realize that it is hardly necessary that we be the genders we have become, we confront the burden of choice intrinsic to living as a man or as a woman or some other gender identity, a freedom made burdensome trough social constraints5).

Beauvoir non affronta il problema del genere che vogliamo divenire (in uno spettro fluido di possibilità non binarie) in caso di “gender dislocation”. Ma solo quello essenziale per il femminismo di allora e di oggi dell’alienazione e frustrazione che la femminilità, intesa come quel modo di essere donna confezionato dalla cultura patriarcale, impone alle donne. A lei interessa che le donne possano trascendere non il loro corpo sessuato, ma la lettura che di quel corpo è stata data dal patriarcato come l’altro, come il secondo sesso, come quel corpo “naturalmente” limitato e contingente. Che l’anatomia possa non essere un limite alle possibilità del genere, che il corpo non sia un fenomeno naturale, ma solo occasionale, che il corpo puro e semplice non potrà mai essere trovato, è solo l’ipotesi di Butler, non di Beauvoir. Beauvoir si muove nell’idea che i sessi sono due e in nessun momento suggerisce la possibilità di altri generi, oltre al maschile e femminile.

Cavarero e Guaraldo restituiscono al dato anatomico il suo peso, la sua realtà e necessità. Nulla toglie che dopo il dato anatomico (due sessi, uno femminile e uno maschile, oltre ai casi di intersessualità e transessualità), il corpo femminile o maschile diventino anche il luogo della costruzione del genere e delle altre identità attraverso cui il sé (il “chi”) transita (facendosi “che cosa”). In fondo Cavarero già sosteneva nel suo saggio Tu che mi guardi, tu che mi racconti, che siamo identità narrabili, quindi interpretabili, relazionali, quindi esposte allo sguardo altrui e al racconto altrui, perciò sempre diverse, costantemente dislocate. L’unità della nostra identità non è una realtà sostanziale ma appartiene solo alla sfera del desiderio. Eppure, seguendo il pensiero assolutamente originale di Hannah Arendt, siamo «questo e non altro». Laddove Butler attribuisce una varietà incommensurabile al fittizio essere un genere e insiste sul dinamismo nel campo delle infinite interpretazioni culturali, Beauvoir vedeva invece proprio nell’interpretazione culturale dell’essere donna una specie di prigione, fissa, bloccata, confinata in una sola interpretazione. Quello che diventiamo, che diventa la donna, è proprio ciò che la limita quando quella costruzione identitaria passa attraverso il colino della cultura patriarcale e fallologocentrica.

In “Donna si nasce” c’è un grande desiderio di riportare il femminismo a casa, in una sua dimensione, di ridare a questo femminismo, inglobato quasi dal movimento LGBTQ+ e che questa dispersività e l’aggressività del transfemminismo sembrano rendere “obsoleto”, una sua autonomia, un suo senso proprio. Oggi ancora più necessario.

Ma soprattutto c’è un gesto, sicuramente filosofico, che è forse ancora più importante della tesi portata avanti dalle autrici. Cavarero e Guaraldo si rivolgono alle lettrici e identificano quella lettrice con: tu ragazza dei nostri giorni. Non è un vezzo stilistico, un trucco o un artificio. Ma il gesto filosofico e politico del dialogo. Un capitolo ulteriore di quel percorso filosofico che passa per Tu che mi guardi, tu che mi racconti, di una teoria empatica. Quell’idea forte di reciprocità secondo la quale il sé sarà narrato dall’altro, quell’altra necessaria. In cui l’io (che è quasi più individualista e onnipotente che nell’etica androcentrica, sganciato dalla natura, che tutto può fare e rifare) si aprirà finalmente al tu.

“Tu ragazza” è un gesto potente di responsabilità, che smette di fingere che le cose siano risolte (tanto per dirne una, la storia di Gisèle Pelicot è dei nostri giorni). “Tu ragazza” si rivolge alle nostre figlie. Per tutte le volte in cui tua figlia, i tuoi figli sono trascinati nel “gioco” dei ruoli, per tutte le volte in cui hanno visto la loro madre mal sopportare un retaggio di autorità e paternalismo. Per tutte le volte in cui l’hanno vista perdere il terreno sotto i piedi. Per tutte le volte in cui quella ragazza si identificherà con sua madre. Per tutte le volte in cui sarà esposta a messaggi contraddittori e spesso superficiali sul suo corpo.

Tu ragazza non omologarti, sii politicamente scorretta. Tu l’unica capace di un rovesciamento radicale di prospettiva, oltre la cultura e la controcultura, oltre il bianco e il nero. Tu, smarginati!

1«Essere una femmina ed essere una donna sono due cose diverse.»

2«Tutti i generi sono innaturali per definizione.»

3«Una all’inizio è il proprio corpo, solo dopo diventa il proprio genere.»

4La ricerca maschile i disincarnazione viene necessariamente delusa perché il corpo non può mai essere veramente negato.»

5«In quei momenti di “dislocazione” in cui realizziamo che difficilmente ci serve essere il genere che siamo diventati, ci confrontiamo con il peso della scelta intrinseco al vivere come uomo o come donna o come qualsiasi altra identità di genere; una libertà resa gravosa dai vincoli sociali.»

Rielaborazione dell’introduzione all’incontro con Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo, in Libreria sabato 30 novembre 2024.


Il libro Donna si nasce, di Adreana Cavarero e Olivia Guaraldo, recentemente pubblicato da Mondadori è un contributo importante al dibattito contemporaneo nel pensiero femminista. Offre molteplici livelli di lettura e, lasciandomi attraversare dai diversi temi posti, l’ho intrecciato con la mia esperienza di madre e femminista.

Parto dalla mia esperienza di madre di una figlia adolescente che, come tutte le giovani donne della sua età, si confronta con la complessità del proprio essere donna e con la ricerca del suo desiderio. La ricerca di sé, tipica dell’adolescenza, si colloca oggi in un contesto nuovo, segnato dall’avvento della libertà femminile, che ha scompaginato un ordine simbolico apparentemente immutabile, rimasto invariato per millenni. Le femministe hanno messo al mondo libertà, come ben evidenziano Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo in Donna si nasce, complicando ulteriormente le cose, ma soprattutto aprendo nuovi orizzonti.
Quando ero bambina sono stata cresciuta da una madre che, pur avendo l’età per essere femminista, non ha preso parte al movimento delle donne; ho sentito il retaggio di un’educazione che ancora attribuiva ruoli e regole rigidamente differenziati tra bambine e bambini. Per me bambina, queste norme diventavano più stringenti man mano che crescevo. Il desiderio di sfuggire a quel destino si configurava confusamente come desiderio di essere un maschio.
Crescendo ho incontrato il femminismo (ho cercato e trovato ciò di cui avevo bisogno) e ho scoperto la libertà femminile, che Luisa Muraro, in La sapienza di partire da sé, definisce come “la libertà di essere e agire in quanto donne, non secondo modelli maschili o neutri”. Questa libertà ha prodotto una trasformazione profonda nella relazione madre-figlia. Parlo a partire da me, riconoscendo tuttavia tratti comuni nelle relazioni madre figlia che vedo: il femminismo ha permesso alle figlie di vedere la madre come mediatrice di libertà, ovvero la madre è una figura dello scambio che non limita, ma media il rapporto della figlia con il mondo, come emerge nell’Ordine simbolico della madre di Luisa Muraro. È quindi una figura che offre senso e significato all’esperienza, permettendo alla figlia di radicarsi nella propria identità femminile.
Questa trasformazione è qualcosa che vedo incarnata nella relazione con mia figlia: il passaggio da un rapporto gerarchico a uno di riconoscimento reciproco, in cui la madre è un punto di riferimento e una guida verso la libertà. Fin da piccola mia figlia ha vissuto la consapevolezza del suo essere nata di sesso femminile e ne vedeva il valore attraverso i miei occhi. Si è anche scontrata con un contesto sociale che, ancora oggi, nega e omette il femminile. Ricordo, ad esempio, le sue decise proteste quando frequentavamo quella che allora si chiamava “Libreria dei ragazzi”: il maschile sovraesteso le faceva patire un’esclusione che non riusciva a comprendere. Mi piace pensare che la voce di dissenso di tante bambine come lei abbia contribuito a trasformare quel nome in “La libreria delle ragazze e dei ragazzi”, come è ora. È una piccola storia che riflette un cambiamento più grande, quello di una libertà femminile che si radica nella genealogia femminile e si misura con il mondo.
Racconto un altro aneddoto. Durante gli anni delle medie, mia figlia e un gruppo di sue coetanee appassionate di lettura hanno creato un blog in cui narravano le loro esperienze di lettrici. Ricordo una discussione che ebbero in una riunione su Zoom, in pieno periodo pandemico. Una di loro propose di presentarsi sul blog con la frase: “Siamo ragazz* che amano i libri e scriviamo per ragazz* che amano i libri”. Mia figlia fece notare l’incongruenza della formula. La proposta era motivata dalla volontà di non escludere nessuno.
Col passare degli anni, queste ragazzine sono diventate giovani donne attente e impegnate, soprattutto nei movimenti contro la violenza sessista e per i diritti delle persone LGBTQI+. Gli asterischi, che inizialmente erano stati oggetto di discussione, sono riapparsi nel loro linguaggio. Ritengo che non si tratti di un semplice esercizio del politicamente corretto, ma dell’espressione di questioni profonde: da un lato, la ricerca personale e spesso mobile del desiderio sessuale, che in questa fase della vita può essere indefinito o fluttuante; dall’altro, un profondo e personale senso di giustizia che i movimenti per i diritti civili hanno intercettato, essendo capillarmente presenti sui social tanto frequentati dalle giovani generazioni.

Tuttavia, come sottolinea Adriana Cavarero in una recente intervista con Jennifer Guerra, le teorie queer sono spesso state assimilate in modo quasi ideologico attraverso slogan, senza un adeguato approfondimento. Quindi il senso di giustizia arriva all’esito paradossale del ritorno al neutro, alla neutralizzazione della differenza sessuale. Quel senso di giustizia rischia di tradursi in un’ingiustizia verso loro stesse, negando la differenza femminile. È una dinamica che il libro di Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo affrontano i modo approfondito, essendo il ritorno al neutro non solo un dato linguistico, ma una questione simbolica e politica centrale.

Il libro Donne si nasce offre strumenti preziosi per posizionarsi nel disorientamento contemporaneo, rafforzando una posizione di apertura e ascolto senza rinunciare a ciò che considero fondamentale: il femminismo della differenza. Ed ecco la seconda prospettiva di lettura cui accennavo. Oggi, il femminismo della differenza è sotto un duplice attacco che ne mina la portata politica e simbolica.
Da un lato, i tradizionalisti neocattolici e la destra neofascista si appropriano del linguaggio della differenza per restaurare un ordine morale rigido e gerarchico. In questo utilizzo strumentale e reazionario, la differenza sessuale viene piegata a giustificare ruoli tradizionali per la donna ed eteronormatività, negando così la libertà femminile. Dall’altro lato, una gran parte dei movimenti LGBTQI+ critica il femminismo della differenza accusandolo di complicità con quel tradizionalismo, poiché considera l’esistenza dei due sessi una condizione fondamentale dell’umano, ed è interpretata da loro come una divisione binaria rigida.
Questa duplice pressione è frustrante. Il femminismo della differenza non è né una nostalgia di ruoli tradizionali né un’ideologia escludente: è una risorsa simbolica e incarnata che sta alla base della libertà di donne, uomini e altre soggettività. Non si limita a riconoscere la differenza sessuale, la assume come chiave interpretativa per ripensare le relazioni tra i sessi e costruire un ordine simbolico che offra alle donne senso, radicamento e libertà, una libertà sessuata, non neutrale, pienamente incarnata.
Il libro Donne si nasce ci offre un’importante riflessione su come riconoscere il valore della differenza senza cadere nelle semplificazioni del dibattito contemporaneo. Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo mostrano infatti con grande chiarezza come questa polarizzazione rappresenti una trappola ideologica. Il femminismo della differenza non ha mai difeso la “famiglia tradizionale”; al contrario, ha da sempre lavorato per sovvertire l’ordine patriarcale e costruire un nuovo ordine simbolico che riconosce la differenza sessuale come condizione di relazione e libertà, non di subordinazione.

Il libro si rivolge idealmente alle ragazze, accompagnandole con generosità attraverso la storia e i concetti del femminismo della differenza. Con un linguaggio chiaro e mai semplificatorio, offre strumenti per comprendere e interrogare il presente. Leggendolo, ragazze e ragazzi possono esplorare le molteplici fonti e approfondire i testi citati nei vari capitoli, proseguendo autonomamente il percorso di lettura e riflessione.
Ma Donne si nasce non si limita a parlare alle ragazze: è un testo prezioso anche per madri e padri che vogliono comprendere meglio il presente e trovare strumenti per dialogare con le figlie, imparando ad ascoltare e a pensare insieme a loro. È una lettura fondamentale per insegnanti e per chi è a contatto con i giovani, poiché aiuta a riflettere sulle sfide poste dal presente. È un libro destinato a tutte e tutti, per pensare al significato della differenza sessuale come dato storico, culturale e materiale, sfidando sia il determinismo biologico sia la dissoluzione nelle categorie identitarie. È uno strumento vivo, capace di orientare il pensiero e l’azione nel mondo complesso in cui ci troviamo a vivere.

Da Internazionale – Gruppi di tifosi arrivano mercoledì in una città straniera per seguire la loro squadra. Aggrediscono e minacciano le persone del posto, gridano slogan razzisti, strappano e bruciano bandiere, lanciano sassi. La polizia non interviene.

Giovedì sera, alla fine della partita, escono dallo stadio e raccolgono mazze e pietre. Gruppi di cittadini reagiscono con violenza, li inseguono, ne picchiano alcuni. Cinque tifosi finiscono in ospedale, con leggere ferite. Altri sono scortati nei loro alberghi dalla polizia, che il giorno dopo li riaccompagna in aeroporto.

Potrebbe finire qui, un caso di cronaca i cui protagonisti sono ultrà violenti e razzisti. E invece no. Perché i tifosi sono sostenitori di una squadra israeliana, sono di estrema destra e hanno inneggiato al massacro dei palestinesi in una città dove solo nell’ultimo anno ci sono state 2.700 manifestazioni per la Palestina.

Per alcune ore la dinamica degli incidenti rimane confusa, e mentre sta finendo di radere al suolo quello che resta di Gaza, il premier israeliano Benjamin Netanyahu riesce a capovolgere il racconto approfittando delle poche informazioni disponibili. Parla di Kristallnacht, l’infame notte dei cristalli del 1938, quando i nazisti scatenarono in Germania una serie di pogrom contro gli ebrei.

Tutti si accodano, politici occidentali e mezzi d’informazione, accomunati da un riflesso condizionato così forte da appannare la vista e da non permettere più di distinguere tra i fatti e la loro manipolazione.

Anni fa il linguista George Lakoff spiegava bene questo meccanismo: “I frame sono cornici mentali che determinano la nostra visione del mondo e di conseguenza i nostri obiettivi, i nostri progetti, le nostre azioni e i loro esiti più o meno positivi. In politica i frame influiscono sulle scelte e le istituzioni che le attuano. Cambiare i frame significa cambiare le une e le altre. Il reframing equivale di fatto a un cambiamento sociale”.

Ad Amsterdam, la scorsa settimana, abbiamo assistito a un caso da manuale di reframing.

L’animo di vedere chi ti sta davanti, un attimo, come dice Luisa Muraro (A proposito di gentilezza), uno sguardo di intesa: ti vedo! L’apertura a vedere che l’altra c’è è l’apertura al riconoscimento della sua esistenza, personalità, azione e pensiero. Sì, dice molto, moltissimo: invece che sole con se stesse ci si mette in apertura all’altra. Perché? Perché ci relazioniamo invece di restare sole. Relazionarci è il grande guadagno di sentire che l’altra c’è. Non ci vuole tanto tempo o ce ne vuole tantissimo, ma quell’attimo di vista è un ascolto, più ti disponi a vedere e sentire, ad interagire più ti piace conoscere un’altra persona. Qualcuna va avanti un’intera vita.

Il 13 novembre è il giorno della gentilezza (ndr)

Metro, 12 novembre 2010

L’eroismo dei gentili

di Luisa Muraro

Per chi vuole coltivare in sé e intorno a sé la gentilezza, questi sono tempi eroici. A formare una persona gentile contribuiscono il suo temperamento, l’educazione ricevuta e la cultura circostante: nella nostra società non mancano persone spontaneamente inclini alla gentilezza così come non manca l’educazione di base nelle famiglie e nelle scuole, ma è franata la cultura sociale. Le nemiche della gentilezza, villania e volgarità, trionfano sulla scena sociale. Non è colpa di nessuno, le cose sono andate così. Tutti invocano un po’ di gentilezza, pochi la offrono. D’altra parte, non si può comprarla (quella che si compra è finta). Si riceve in regalo e si ricambia. Si può anche cercare di produrla in proprio e offrirla a chi non la conosce. È contagiosa, ma meno delle sue nemiche. Come posso insegnare la gentilezza ai miei alunni, mi ha chiesto una prof. Come si insegna un’arte marziale, le ho risposto: le mosse giuste, il senso della misura, la nobiltà d’animo; alle alunne, insegna a non imitare i villani e a coltivare la differenza femminile insieme alla forza: nessuno si permetta di crederle deboli perché gentili, tutto al contrario.

Confesso che, personalmente, non sono sempre gentile con le persone che conosco: con queste esprimo a volte la violenza congenita che ho dentro, fidando nel nostro rapporto. In compenso, sono gentile con le persone sconosciute in cui ci si imbatte nel caotico mondo di oggi. Dicono che per essere gentili ci vorrebbe del tempo e noi non ne abbiamo, io mi sono specializzata in una gentilezza mordi e fuggi: un sorriso e uno sguardo d’intesa, a chi? A un essere umano. Quello che propongo non è certo un buon esempio, ma un’idea: concediamo alle nostre vite e alle nostre città il lusso di essere ogni tanto gentili per la pura gioia di esserlo.

(Metro, 12 novembre 2010)

Le leggi hanno scarsa efficacia quando tentano di forzare dei cambiamenti nella società, e peraltro di solito registrano invece quelli già avvenuti. In questo caso hanno anche una valenza simbolica, perché la norma esprime la trasformazione di quello che è condiviso dalla comunità e quello che considera inaccettabile, diventando a sua volta orientante. Una parte del femminismo chiede una messa al bando mondiale della pratica che viene definita “gestazione per altri”, sia per sradicarla, sia per marcare a livello simbolico che in tutto il mondo è inaccettabile assoggettare corpi altrui alla realizzazione dei propri progetti, che è illegittimo imporre pratiche mediche potenzialmente nocive a donne sane, “prenotare” e pagare neonate e neonati come se fossero articoli di merce prodotti su misura. Per questo molte, all’estero e in Italia, hanno accolto con favore la recente legge italiana che stabilisce la perseguibilità in Italia della surrogazione di maternità, già reato da vent’anni, commessa da cittadini italiani anche se all’estero. Dall’estero, estranee al contesto in cui la legge è stata approvata e ignorandone i termini precisi, molte la vedono come un primo passo verso l’internazionalizzazione del divieto, come un’importante occasione da cogliere. Qui in Italia però dobbiamo trattare la questione in modo più approfondito.

La norma dovrebbe avere un taglio che sancisca il riconoscimento dell’inviolabilità del corpo femminile per avere l’impatto simbolico che desideriamo come femministe, ma non è affatto così. Il reato di cui si estende la punibilità è stato istituito dalla legge 40/2004. Va ricordato che questa legge non è ispirata all’autodeterminazione delle donne: mira a “tutelare” l’embrione a prescindere dalla madre, facendone un potenziale portatore di un conflitto di interessi con lei, come se potesse esistere e svilupparsi scisso dalla madre e quindi dalla sua volontà. La logica non è quella dell’inviolabilità del corpo femminile. Il punto oggetto dell’intervento legislativo è il comma 6 dell’articolo 12, che recita: «Chiunque, in qualsiasi forma,realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni ola surrogazione di maternità è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro». «Chiunque», «in qualsiasi forma», «realizza» è una formula che mette la gestante e la fornitrice di ovuli sullo stesso piano dei soggetti che dispongono dei loro corpi per i propri fini, vantaggi o profitti: agenzie di intermediazione, cliniche, committenti. Il torto non è ridurre a mezzi di produzione le donne coinvolte, ma l’uso dei gameti e degli embrioni. Questo taglio può essere davvero d’aiuto a una battaglia contro la gpa centrata sull’inalienabilità della libertà delle donne e sulla relazione tra madre e figlia o figlio come fondamento della nostra umanità?

La pratica della maternità surrogata va sradicata internazionalmente, certo, perché dove è legalizzata consiste nel legittimare contratti privati inaccettabili, che violano un sacco le convenzioni internazionali sui diritti umani ratificando il controllo totale di ogni aspetto della vita e del corpo della gestante, la sua perdita di libertà d’azione e d’espressione, la costrizione a subire trattamenti medici che ne mettono a repentaglio la salute, e si concludono di fatto con la compravendita di una neonata o un neonato, separato traumaticamente dalla madre. Non si può sradicarla però se non si considera uno dei due soggetti coinvolti, la madre, o forse nessuno dei due, dato che il comma 6 dell’art. 12 si preoccupa di gameti ed embrioni, ma della neonata o del neonato non fa menzione.

Quello di cui c’è bisogno è un nuovo patto di civiltà che rompa il “contratto sessuale” ereditato dal patriarcato e rifondi a partire dalle donne i principi di indisponibilità del corpo al mercato e l’inalienabilità della libertà umana, che attualmente in Italia e nel mondo sembrano essere compresi solo se attagliati sul corpo maschile, che ne è stato il modello fondante e il beneficiario intenzionale.

A rendere più opaco l’impatto di questo provvedimento contribuisce l’aura nefasta di due anni di leggi repressive con cui il governo in carica ha creato decine di nuovi reati e ha inasprito le pene di quelli esistenti, inquadrandolo in un disegno repressivo piuttosto che di riconoscimento di libertà femminile, aggravato dai commenti con cui la presidente del Consiglio ne ha accompagnato l’iter, per esempio che «non bisogna perdere la specificità del ruolo della madre e del padre», commenti che rimandano più a rigide divisioni di ruoli familiari e all’imposizione della presenza della figura paterna.

La prima volta in cui ho sentito parlare di gestazione per altri (GPA) è stato all’incirca dieci anni fa, in concomitanza con la legge Cirinnà sulle unioni civili. Già allora bazzicavo ambienti più o meno politici, più o meno reali – direi più virtuali che altro. Già allora facevo dell’ora di religione in classe occasione di dar voce alle mie remore relative al sistema che allora chiamavo “eteropatriarcale” in cui mi vedevo calata. Così un giorno finimmo a parlare di questa famosa GPA. Ovviamente mi sembrava scontato definirmi pro alla pratica, anche in senso di bastian contrario con quanto comunicato dai miei compagni maschi e/o cattolici e/o omofobi.

Mi sono portata dietro questa posizione a lungo, un po’ sollevata dallo slogan l’utero è mio e lo gestisco io: mi sembrava una posizione di libertà, non sapevo fosse una posizione liberista. Il badge di “pro-GPA” si aggiungeva alla mia fascetta da brava femminista, attiva su ogni fronte, pronta a ripetere ogni serie di slogan appresi nei vari circoli cassa-di-risonanza.

Ho iniziato a pormi più domande in merito alla pratica solo avvicinandomi al pensiero della differenza, quando ho iniziato a leggere i testi delle cosiddette “femministe storiche”, quando ho iniziato a studiare, a leggere, tutto per i fatti miei, lontana dalla bolla del femminismo del terzo millennio. Ho iniziato a pormi più domande in merito quando ho trovato il modo di relazionarmi con altre donne alla ricerca di un nuovo pensiero critico, lontano dagli slogan, lontano dai settarismi, dai vari pro e contro. Ho incontrato voci di donne del passato e del presente che mi hanno tolto la spilla sulla fascia e mi hanno fatto riflettere sulle contraddizioni tra libertà e liberismo: come potevo io – che avevo passato l’estate a leggere Il Capitale – accettare passivamente queste nuove logiche del tardo capitalismo che mercifica ogni aspetto della vita? Così ho letto di molte donne e femministe che da anni studiano e scrivono per una presa di coscienza allargata.

Allo stesso tempo ho letto contro queste donne commenti abietti, carichi di prese di posizione e strumentalizzazione, figli della logica binaria che ora pervade e appiattisce il discorso politico, soprattutto sulla GPA. Così se sei “pro”, ecco la tua spilletta, sei con noi, fai parte di qualcosa di bello, sei progressista, sei aperto, sei giovane, sei bello. Se sei anche solo dubbioso, sei “contro” e se sei “contro” non sei solo contro la GPA, sei “contro” tutto, sei contro di noi, sei cattolico, sei bigotto, sei fascista, sei chiuso e devi stare zitto.

Ho avuto paura di esprimere la mia posizione insieme ai miei conoscenti. Ho avuto paura delle dita puntate, della strumentalizzazione delle mie opinioni, di sentirmi dare della fascista catto-bigotta solo perché ritengo che una transazione economica non sia il non-plus-ultra della libertà femminile. Mi sarebbe piaciuto dirlo ad alta voce, a una cena. Mi sarebbe piaciuto dire «Ritengo che questa legge sia l’ennesima strumentalizzazione del corpo delle donne, che vuole strizzare l’occhio al conservatorismo imperante nell’ambito di una serie infinita di provvedimenti repressivi e che non sarà mai la soluzione al problema; però dobbiamo ricordarci che la GPA è l’ennesima mercificazione del corpo delle donne al servizio del sistema capitalista, non è libertà, è l’ennesima prigione», ma non l’ho fatto. Sono stata zitta e ho continuato a mangiare. Ho pensato a quello che avrebbero potuto dire su di me, come avrebbero travisato la mia posizione, come sarebbe andata a finire e sono stata zitta.

Così il liberismo si appropria del corpo delle donne e del discorso politico che lo circonda. Annacqua le pratiche, scioglie le relazioni e strumentalizza la lotta. Con questo binarismo si annulla il dialogo, che viene sostituito con shitstorm e porte in faccia. Allora forse, quando sono contro, mi tengo tutto per me: così non perdo il mio badge.

La legge che estende la sanzione per la surrogazione di maternità prevista vent’anni fa (dalla l. 40/2004, art. 12 c. 6) «anche se il fatto è commesso all’estero», approvata dal Senato il 16 ottobre scorso, è opera della maggioranza parlamentare di destra ma l’impulso è venuto da gruppi femministi italiani e di altri paesi che da tempo si battono contro l’utero in affitto o gestazione per altri. Però non tutte le donne impegnate in questa lotta sono d’accordo con l’istituzione del cd “reato universale”, c’è discussione anche in questo sito. C’entra il fatto che la legge è stata proposta e approvata dalle destre e la sua strumentalizzazione fa problema, ma l’obiezione di fondo è che «la via non sia la criminalizzazione per legge» (Laura Colombo, Conquiste del femminismo?, 17 ottobre 2024). Sì, la via è agire per «una presa di coscienza allargata». Tuttavia proprio per questo considero questa legge un aiuto, perché il diritto ha una funzione simbolica prima che repressiva. Si tratta di un simbolico maschile di eredità patriarcale, certo, ma sulle grandi questioni di civiltà può sostenere la possibilità di un altro ordine di rapporti.

Penso alla prostituzione: come aveva capito e lottato Lina Merlin negli anni ’50 in Italia, per abolirla serve penalizzarne lo sfruttamento. Non è bastato e non basta, è evidente, a sradicare questa forma tenace della sessualità maschile, ma è un punto fermo che va nella direzione della presa di coscienza, continuata dalle donne fino a nominare la prostituzione “stupro a pagamento” (Rachel Moran) invece di chiamarla lavoro come fa chi vuole perpetuarla in tempi di libertà femminile. E penso alla schiavitù, che a volte esiste ancora in modi più o meno nascosti anche nel lavoro salariato, ma certamente è diventata impensabile: a chi mai verrebbe in mente oggi di proporre un dibattito pro o contro la schiavitù? La lotta degli abolizionisti è riuscita a sradicare una istituzione plurimillenaria, considerata normale in molte culture.

Ho ricordato prostituzione e schiavitù perché in tante vediamo nella gestazione per altri una somma delle due forme di disumanizzazione. Come la prostituzione, l’utero in affitto sfrutta il corpo femminile, come la schiavitù fa dell’essere umano un oggetto di scambio. Per fortuna non si è ancora radicato nella cultura, esiste da poche decine di anni ed è forse possibile che non occorrano millenni per abolirlo nel mondo. Tuttavia ha dalla sua la potenza della tecnologia e del capitalismo, ed essendo una realtà nuova non è facile capirne il senso (ricordo che vent’anni fa la credevo una forma di solidarietà fra donne). Anche per questo considerare la surrogazione di maternità “reato universale” può servire a prendere coscienza che è in pericolo qualcosa di irrinunciabile dell’umano. Se non riuscirà a impedire nei fatti la sua pratica, specie nelle forme surrettizie silenziosamente portate avanti da alcuni (la madre rinuncia alla creatura, il “padre” la riconosce e poi sua moglie l’adotta), il divieto assoluto è un segno inequivocabile della sua inaccettabilità.

Soprattutto per le creature, che sono al centro dei miei pensieri più delle loro madri. Creature progettate apposta per essere private della madre per soddisfare bisogni altrui, vendute o regalate non cambia, e per vivere con chi le ha commissionate. Una crudeltà di cui non possiamo sapere le conseguenze, anche nell’inconscio dei committenti e nella loro relazione di “genitori”. Ma so per esperienza personale che quello che succede nella relazione materna prima e dopo la nascita ha effetti per tutta la vita, anche se non si vede e nessuno se ne accorge. Le poche interviste pubblicate di creature diventate adulte dicono che stanno bene e sono felici, spero di cuore che a tutte vada così. Ma hanno comunque subito una violenza grave.

Il diritto di un paese civile non può tollerare questa barbarità, ovunque essa si compia.

La discussione aperta dall’intervento di Laura Colombo e da quello di Paola Mammani e Tiziana Nasali mi riguarda e credo riguardi tutte noi.

Sono contraria alla maternità surrogata; non sottovaluto e provo rispetto per il desiderio di maternità e di paternità – di tante donne e tanti uomini – che per ragioni diverse non si può realizzare; nonostante questo non riesco a sopprimere in me il sentimento di rifiuto per la contrattualizzazione commerciale del corpo delle donne e della maternità, non riesco a non provare indignazione per la separazione programmata di una neonata o di un neonato dalla madre. Sono femminista ma sono sicura che non sia determinante essere femminista per condividere queste mie convinzioni profonde.

Io non riesco a esultare per la recente approvazione al Senato del provvedimento legislativo che interviene sulla legge 40/2004, “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, che estende l’illiceità della procedura, già vietata in Italia, anche all’estero e mi ha colpito la denominazione di “reato universale” per perseguire accordi commerciali stipulati in altri luoghi del mondo – da alcune donne e alcuni uomini – per soddisfare il loro desiderio di maternità e di paternità.

In ogni famiglia c’è esperienza di creature cresciute da zie o zii o altre persone di famiglia senza figli; nei rapporti sociali è stata e, secondo me, resta la “risposta universale” al desiderio di maternità o paternità a chi non riesce, non riusciva, a realizzare il proprio desiderio e non può o non vuole ricorrere ad accordi commerciali per realizzarlo.

La legge del 2004 rispondeva al sentire di chi voleva opporsi all’introduzione in Italia della gestazione per altri (GPA), a quella commerciale e a quella cosiddetta solidale.

Quello che invece è avvenuto con il provvedimento legislativo del 16 ottobre ha, secondo me, un segno e una direzione diversa determinata dalla spinta dei movimenti pro-vita e dai partiti politici che vogliono riportare i rapporti sociali tra uomini e donne all’ordine simbolico e sociale del patriarcato. E a me poco importa che sia una donna a condurre o a intestarsi il gioco.

Ragioniamo dei rapporti di forza in campo, nel parlamento e nel paese; sostenere che in questa decisione il femminismo abbia orientato la politica è secondo me velleitario e un pericolo per l’autonomia della pratica e del pensiero politico del movimento delle donne.

Il femminismo ha modificato radicalmente i rapporti sociali, e dal pensiero politico della differenza sessuale sono nate le pratiche che hanno reso possibile questo cambiamento.

Tuttavia, persiste il rischio che parole e pratiche femministe vengano travisate dalla politica dei partiti. Dovremmo oggi interrogare il travisamento, il femminismo delle origini lo ha fatto a partire da Carla Lonzi.

Sicuramente «la presenza attiva di donne consapevoli e appassionate» ha impedito che si soffocasse il sentimento di rifiuto verso la gestazione per altri nonostante la “propaganda” di un pensiero che giustifica questa pratica con il desiderio di maternità e paternità e nega la differenza sessuale.

Ora serve esprimere la stessa autonomia – di pratica e di pensiero politico – nei confronti della “propaganda” di un pensiero che mette al centro la donna “madre” e la famiglia patriarcale e che in questo orizzonte interviene legislativamente anche sulla procreazione per altri.

In assenza di questa autonomia «ci sono tutte le premesse di una sconfitta» per il pensiero della differenza e non si troveranno parole nuove per le nostre pratiche politiche; la differenza sessuale sarà declinata nel ruolo assegnato da altri e inevitabilmente useremo le loro parole.

Quando ci trovammo tra donne in un movimento di riflessioni sulla nostra condizione, negli anni sessanta, ci dissero altre donne che eravamo borghesi, come oggi ci dicono che siamo di destra, perché avevamo l’agio del benessere di pensare a noi stesse.

Eravamo di destra per la pratica maschile che esponeva la sofferenza degli altri tacendo la propria.

La destra perseguiva i propri interessi e faceva tacere quelli di ogni altra persona, anche quelli propri che perseguiva nella cecità, nel silenzio, sempre indicandone altri.

Indicare la luna, fare ideologia invece di parlare di sé stesse/i in modo da poter elaborare la verità della condizione umana fu per le donne in movimento la discriminante del fare politica con sincerità. Mettendosi in discussione personalmente. Mostrandosi agli altri e a sé stesse in modo da poter elaborare la verità della condizione umana: nelle sue differenze e uguaglianze, nelle sue similarità e personalità.

Essere di destra, ce lo siamo tenute. Perché la sincerità del tenere a sé stesse ci serviva a districare le nostre vite dal sacrificio per gli altri e a trovare noi stesse, con il coraggio di mostrare la nostra misura parziale di verità. Così dobbiamo continuare a comunicare tra noi e con tutti, facendo parlare le persone che, spinte dai loro dolori, si comportano egoisticamente senza il criterio della luminosità della loro esperienza.

Illuminate dal ragionamento ogni esperienza ci insegna; la pratica del dire sé stesse, ascoltate e discusse, interloquite, è lunga, difficile, noiosa se senza una guida che scavi nelle esistenze per toccare quel trauma, quel desiderio, quella rivalsa, quel non detto che ci spinge ciecamente.

La psicoanalisi, subito, fu una indicazione di approfondimento del nostro lavoro. Ma la paura di affidarsi alla cultura maschile, così falsificante e astuta nel comando di sottomettersi a chi ha più potere e si nasconde meglio è ancora qui a farci esitare tra coraggio di rischiare e volontà di vincere affermando il proprio desiderio su quello degli altri. O meglio per la paura di perdere il proprio desiderio.

Si può solo avere coraggio, si può solo rischiare per vedere la verità, continuamente.

Per questo la cultura femminile è proseguita abbandonando il ciclostile che le donne di sinistra ruotavano per gli uomini e agendo il proprio egoismo quanto più sinceramente era possibile, lottando contro il desiderio di mentire per vincere sugli altri.

Non dobbiamo vincere gli altri ma soltanto dire noi stessi. Questa l’indicazione delle donne, contro la pratica politica di sinistra di indicare negli altri le proprie sofferenze.

Diciamo la nostra, ciascuna a e ciascuno, e ci intenderemo più facilmente che se ci nascondiamo dietro agli altri. Fingere generosità è l’inganno delle guerre. La pace è comunicazione sincera per rinunciare alla propria vittoria in virtù del concordare una misura di soddisfazione degli egoismi diversi e vedere allora che non siamo soli al mondo ma aiutati dagli altri a raggiungere beni comuni.

Beni comuni è l’unico obiettivo, realizzare beni comuni è l’unica via di soddisfare quello che desideriamo.

Davanti alla tecnica che sostituisce la fatica umana noi perseguiamo la strada opposta a quella di limitare i nostri guadagni per concordare la misura con altre esigenze umane, come la salute, la pace verso gli altri, altri che sono gli altri soggetti di cui tenere conto per salvare l’equilibrio tra molti. Molti equilibri diversi ci sono in natura e li abbiamo studiati e compresi.

La pace con la natura è proprio il contrario della vittoria sulla natura. La pace con gli altri è il contrario della vittoria di una fazione contro un’altra. La capacità politica è essere sinceri nonostante il desiderio di vincere l’altro, la capacità politica è non parteggiare per fazioni ma tendere alla verità.

Dunque la legge che indica come reato universale l’appropriarsi della capacità femminile di creare nel proprio organismo un altro essere vivente a cui si darà la luce e l’assistenza è una buona indicazione. Non ci si può approfittare delle donne! Non si può commerciare il figlio o la figlia di una donna, e neppure negare a quel figlio il padre. Responsabilizzarci rispetto alla nascita di un nuovo essere vivente è la grande qualità che le donne indicano deve essere raggiunta. Una pratica educativa fatta di tanti aspetti da mettere in luce. Per questo indicare il reato universale da non commettere è una grande operazione piena di promesse politiche per tutti.

Non dobbiamo avere paura delle conseguenze politiche connesse a questo coraggio di verità, siamo qui a collaborare ancora alla scoperta delle verità per tutti che il movimento delle donne, senza schieramenti inutili e dannosi, suggerisce.

Siamo contrarie alla gestazione per altri (GPA), sia a quella commerciale sia a quella cosiddetta solidale, per i tanti motivi che studiose e attiviste hanno analizzato approfonditamente (Danna, Gramolini, Izzo, Muraro, Niccolai, Pazé, Terragni, e la lista potrebbe continuare a lungo). Per questo accogliamo con favore il recente provvedimento legislativo che interviene sulla legge 40/2004 “Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”, che estende l’illiceità della procedura, già vietata in Italia, anche a quella praticata all’estero.

Qualcuna obietta che il governo attualmente in carica avrebbe dovuto promuovere un ampio confronto nelle sedi internazionali e non estendere il divieto anche alle italiane e agli italiani che praticano la gravidanza per altri all’estero. Non capiamo perché le due cose debbano essere poste in alternativa. Nel 2023 la costituzionalista Silvia Niccolai osservava, «[…] il divieto universale in Italia rafforzerebbe enormemente la capacità del nostro Paese di operare in modo influente nelle sedi internazionali» (1). Fosse anche solo per questo, la legge che rende la cosiddetta gestazione per altri “reato universale” non ci sembra mera propaganda.

È vero che esponenti dell’attuale maggioranza politica hanno enfatizzato l’ovvio, e cioè che in presenza di un certificato di nascita rilasciato all’estero, che indica due uomini come genitori, è evidente il falso, non solo giuridico, della dichiarazione. Costoro sembrano dimenticare che la stragrande maggioranza di chi ricorre alla pratica della cosiddetta surrogazione di maternità, è fatta di coppie eterosessuali È probabile che vogliano assecondare sentimenti omofobi esistenti in una parte del loro elettorato. Se questo è, troviamo esecrabile l’intento, ma resta impregiudicata la verità del rilievo.

Il provvedimento è stato anche utilizzato da esponenti dell’attuale governo di destra per enfatizzare l’importanza della famiglia cosiddetta tradizionale, punto di vista opinabile e probabilmente gradito ad una parte dell’elettorato conservatore, ma fondato sul fatto incontrovertibile che una creatura, ancora oggi, nasce necessariamente da una donna, con il contributo di un uomo.

Pensiamo si debba resistere alla tentazione di valutare il singolo, concreto provvedimento e più in generale l’attività politica istituzionale, utilizzando forme del pensiero e del linguaggio che ci lasciano impigliate nel tradizionale scontro delle forze politiche di destra e di sinistra. Un esempio di questo pericolo sta proprio nell’assumere come nostra, una delle più frequenti e reciproche accuse che gli schieramenti politici rivolgono l’un l’altro, che è quella di fare propaganda.

Nel caso in questione si rischia di non vedere quanto il provvedimento sia stato assunto nella certezza di assecondare un sentimento profondo e forse anche “universale”, di repulsa per l’idea stessa di indurre una gravidanza con l’intento programmato di separare la creatura dalla madre.

Dell’esistenza diffusa di questo sentire siamo certe ma pensiamo anche che senza la presenza attiva di donne consapevoli e appassionate questo sentire avrebbe potuto, potrebbe, inabissarsi. Come abbiamo già detto, molte hanno analizzato le questioni sollevate dalla cosiddetta maternità surrogata, in tante si sono espresse pubblicamente, hanno prodotto libri, articoli di stampa, hanno riferito nelle commissioni di Camera e Senato, hanno dato cioè un grande contributo per sostenere con la forza del sapere e della consapevolezza, il “sentimento universale” di rifiuto di questa pratica. Definire questa legge un fatto di propaganda, significa anche non vedere che questo femminismo, impegnato a difendere dall’avidità del mercato la relazione che è all’origine della vita, è riuscito ad orientare la politica (2), (3).

Infine, sul piano del diritto, non si può parlare di criminalizzazione, come pure si sente dire, poiché la legge non introduce alcun nuovo reato per azioni e comportamenti ritenuti leciti fino a ieri. Anzi, pur nella parzialità e limitatezza della mossa, quest’atto di legge amplia la possibilità di «[…] spostarsi altrove rispetto al diritto praticato come strumento di lotta all’interno di relazioni di potere» (4). Infatti può aiutare le donne, tutte le donne del mondo, a riflettere ulteriormente e a lottare per non finire schiacciate nell’ennesimo, ben oliato meccanismo, anche giuridico, pensato per garantire il potere di fare commercio della maternità e dei suoi frutti.

Quanto al dibattito internazionale, il giorno dopo l’approvazione della legge il New York Times riportava la notizia in prima pagina, con disappunto. Non sarà un’organizzazione internazionale il NYT, ma quasi. Non l’ha presa bene e non è un cattivo segnale.

  1. https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallarete/utero-in-affitto-reato-universale-intervista-a-silvia-niccolai/
  2. https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/dallastampa/gpa-non-confondiamo-liberta-con-subalternita/
  3. https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/un-femminismo-capace-di-guidare-le-forze-politiche/
  4. Stefania Ferrando nell’introduzione alla ripubblicazione de La politica del desiderio e altri scritti di Lia Cigarini, Orthotes 2022.

Mercoledì 16 ottobre il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge per rendere la maternità surrogata “reato universale”. Sono femminista e sono contraria alla pratica della maternità surrogata (o utero in affitto) che rappresenta una mercificazione del corpo femminile, riducendo il corpo della donna a un mezzo di produzione, oggetto disponibile per il mercato. Vogliamo arrenderci alle logiche del biocapitalismo globale che mercifica ogni aspetto della vita, compresa la capacità di generare figli? Io no, e con me molte donne e femministe che da anni studiano, scrivono e lavorano perché ci sia una presa di coscienza allargata (penso per esempio al libro L’anima del corpo di Luisa Muraro, a Maternità surrogata. Le donne, il desiderio, il mercato di Silvia Guerini e al recente Libertà in vendita di Valentina Pazé, solo per fare qualche titolo).

Sono femminista e desidero un pensiero libero, non piegato a partiti politici né incatenato a schieramenti ideologici. Mi ribello a un mondo dominato da una logica binaria e asfissiante, dove ogni riflessione sulla GPA viene strumentalizzata, trascinata da una parte o dall’altra: o nelle fila del cosiddetto progressismo, o in quelle del conservatorismo più becero, oggi anche neofascista. Rifiuto questa trappola ideologica che soffoca ogni pensiero autentico.

Per questo credo, con la senatrice Luana Zanella, che la via non sia la criminalizzazione per legge, «perché criminalizzare chi ricorre a questa pratica all’estero non significa bloccare o scalfire il commercio globale della maternità surrogata sempre più florido e ricco: occorre invece quel che la destra non ha voluto fare cioè una grande iniziativa politica a livello internazionale per impedire lo sfruttamento dei corpi delle donne e il commercio delle creature che la GPA cosiddetta solidale non impedisce».

Non sarà la legge, strumento del potere istituzionale, a creare una vera barriera a questa pratica. Di più, la criminalizzazione è un’operazione di mera propaganda.

La Chiave di Sophia è un progetto che ha lo scopo di diffondere cultura utilizzando la filosofia come strumento privilegiato per leggere ogni ambito della vita e per sviluppare un pensiero critico. Infatti, per coloro che contribuiscono a questa realtà, la filosofia può e deve essere di tutti e non riservata ad una élite accademica. Perciò promuovono molteplici iniziative: circoli di filosofia, laboratori, incontri con autori e autrici, spettacoli teatrali e musicali, passeggiate letterarie, una rivista digitale e una cartacea.

Scrivo riguardo il 24° numero della rivista di filosofia pratica (giugno-settembre 2024), intitolato “LIBERTÀ e LIBERAZIONI”, dedicato alla riflessione intorno al tema della libertà sia essa intesa come esercizio effettivo sia come disposizione interiore di un soggetto libero. Questa indagine si snoda attraverso il pensiero di illustri intellettuali e tocca svariati ambiti quali le conquiste femminili, l’educazione, il carcere, la medicina, le migrazioni, la salute, l’antispecismo, l’intelligenza artificiale, la crisi climatica e molto altro. Gli autori e le autrici riescono a fornire spunti di riflessione da diverse angolazioni e differenti campi del sapere. Tale approccio permette ai lettori di porsi domande, di indagare sé stessi, di mettersi in discussione e ripensare, con maggior consapevolezza, il mondo che abitiamo.

Le prime diciotto pagine presentano quattro articoli “a tema libero”, il secondo dei quali, dal titolo “Il dominio della pornografia – Dall’invasione del porno alla sessualità come dono e mezzo di espressione tra esseri umani” di Alessandro Tonon, spiega come i contenuti pornografici, sempre più facilmente reperibili su internet, siano nocivi per gli adolescenti, i preadolescenti e i bambini. L’industria della pornografia si erge esclusivamente su logiche economiche e non prende in considerazione le conseguenze dal punto di vista psicologico e relazionale che queste rappresentazioni potrebbero avere. All’interno dei contenuti pornografici vengono normalizzate la violenza, il dominio e la sottomissione dei corpi nei rapporti sessuali. L’autore attraverso la critica alla pornografia non vuole quindi farsi portavoce di una morale sessuofobica, ma intende ribadire l’importanza di considerare l’altro con cui ci relazioniamo come un soggetto e non come un mezzo per soddisfare la nostra pulsione sessuale. Alessandro Tonon sottolinea la centralità dell’erotismo e dell’amore, elementi che permettono al desiderio di svilupparsi e radicarsi. L’industria del porno invece incentiva la gratificazione immediata che innesca la coazione a ripetere e distrugge il desiderio, desiderio che è il luogo dell’incontro autentico con l’altro.

Da pagina 19 inizia una rassegna di articoli riguardanti il tema della libertà. Personalmente trovo che siano tutti ugualmente interessanti perché favoriscono una riflessione su tematiche contemporanee di massima rilevanza politica.

In particolare, cito il testo scritto da Pamela Boldrin dal titolo “L’insostenibile leggerezza del libero consumo – È possibile liberarsi dai vincoli di un sistema opprimente?”, in cui l’autrice, prendendo spunto dalle idee dell’antropologo Jason Hickel e dal filosofo Hans Jonas, sottolinea le responsabilità che ogni essere umano ha nei confronti della natura. Scrive così Pamela Boldrin: «[…] la massima libertà che siamo disposti a concedere al capitale, finisce per comportare la restrizione della libertà degli esseri umani di sopravvivere dignitosamente su un pianeta in salute». Il pensiero filosofico occidentale ha allontanato l’uomo dalla natura. Ad esempio, Francis Bacon (1561-1626) identifica il progresso scientifico con il dominio dell’uomo sulla natura. Eppure non poteva sapere che la sua visione sarebbe stata strumentalizzata dalla società dei consumi. L’autrice invita i lettori a fare della politica una dimensione reale di ognuno e a ripensare un nuovo tipo di società, libera dal capitalismo e dallo sfruttamento delle risorse del pianeta.

Altro articolo su cui desidero soffermarmi è quello scritto da Hamdan Al-Zeqri, ministro di culto islamico nel carcere di Sollicciano, e Gherardo Gambelli, cappellano cattolico nel medesimo carcere, intitolato “Carcere e libertà – Come si vive la libertà nella realtà del carcere?”. I due autori spiegano come la possibilità di agire liberamente sia correlata indissolubilmente alla questione della dignità umana. Una persona ha dignità se è libera. Il compito che questi uomini religiosi hanno all’interno del carcere è quello di suscitare nei condannati il senso di libertà interiore, dal momento in cui il carcere toglie la libertà fattuale. Se privare un soggetto di libertà significa conseguentemente distruggerne la dignità, come è possibile che attraverso il carcere si venga rieducati? Infatti, non basta chiudere chi è colpevole dentro una prigione per farlo desistere dal male, ma è necessario credere nella sua possibilità di riscatto e aiutarlo a intraprendere un percorso rieducativo.

Ultimo contributo di cui parlerò è quello di Lia Cigarini intitolato “Ci siamo prese molte libertà! – Appunti di differenza femminile, di emancipazione e di relazionalità”. Lia Cigarini non vede nell’emancipazione femminile la massima espressione della libertà delle donne. La libertà infatti non è un’esperienza riducibile a diritti civili o costituzionali, ma si inscrive nella scelta di vivere liberamente la propria condizione di donna. Ed è da queste premesse che l’autrice arriva a parlare delle pratiche di relazione tra donne come modalità di affermazione della libertà, spiegando come la libertà femminile non può essere storicizzata. Le pratiche delle donne sembrano coincidere in luoghi diversi e lontani tra loro. Questo è possibile perché, ancor prima di attuare delle pratiche, le singole e i singoli sono mossi dal desiderio di mettersi in relazione e cambiare la realtà circostante.

Il 27 settembre 2024 a Catania presso il salone Russo della Camera del Lavoro si è tenuta la presentazione del libro Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi. Nel corso della discussione si è molto parlato del contenuto di una locandina in difesa dell’aborto che è girata sui social. Ludovica Augugliaro, studentessa, ci ripropone sotto forma di contributo scritto l’intervento che ha fatto in quell’occasione.

«Il diritto all’aborto delle persone con utero è sotto attacco», così leggiamo su un manifesto il cui scopo era portare l’attenzione su una questione tanto importante quanto delicata come l’aborto. Benché molti vedano dietro questa grottesca scelta di termini un mero tentativo di inclusività, io vi leggo ben altra cosa. L’essere inclusivi dovrebbe essere pari all’aggiungere una sedia e non sgomitare per prenderne una già assegnata a qualcun altro giunto prima. Questo è il modus operandi dell’inclusività odierna, o di ciò che si spaccia per essa, e cancellare la parola DONNA anche all’interno di un discorso che la riguarda in prima persona, in favore di termini scioccamente considerati “neutri”, ne è la triste prova.

Se veramente lo scopo fosse stato quello della neutralità sarebbe bastato scrivere semplicemente “Il diritto all’aborto è a rischio”. Dunque perché optare per una costruzione degradante, riduttiva e, come scritto prima, grottesca come “persone con utero”?

Persone con utero serve a ricordare che, oltre alle donne, l’aborto va tutelato anche per gli uomini trans, che sono biologicamente esseri umani di sesso femminile, e le persone non-binary che, benché non si identifichino né nel genere femminile né in quello maschile, come qualsiasi altro essere umano vengono al mondo come maschi o femmine.

Quindi, la censura della parola DONNA nel manifesto sopracitato, ridurla a “persona con utero”, significa di fatto anteporre per rilevanza il genere al sesso, anche trattandosi di aborto, e voler mettere in primo piano persone che hanno un intero mese dell’anno dedicato alle loro battaglie e alle loro comunità e che, anche parlando di un tema che riguarda principalmente le donne, devono sgomitare per prenderne il posto in prima fila a partire da un manifesto.

L’essere efficacemente inclusivi prevede questo: chi include deve aggiungere uno spazio, un posto a sedere, senza però perdere il proprio, chi viene generosamente incluso in un dialogo deve invece comprendere quando è tempo di parlare e quando di ascoltare. Sgomitare per prender parola a tutti i costi, ricercare perpetuamente i riflettori, voler incessantemente essere i protagonisti di qualsiasi dialogo degenerandolo in un ridondante monologo, non solo è segno di mancata educazione ma è anche terribilmente inefficace in quanto gli interlocutori, annoiati e sfiniti, perderanno l’attenzione e il piacere di includere tali persone in futuri dibattiti.

Una definizione tanto elementare come donna: essere umano adulto di sesso femminile oggi, per qualcuno, è inaccettabile in quanto “poco inclusiva” o addirittura transfobica. Eppure proprio in queste definizioni elementari risiede l’identità delle persone transgender e ciò che le rende tali. Una donna trans è di fatto un uomo (essere umano adulto di sesso maschile) che, data la sua disforia di genere, necessita di essere percepita socialmente come una persona di sesso femminile, e quindi una donna.

Vorrei ricordare che il principio su cui si basa l’intera argomentazione gender è proprio la distinzione tra questo e sesso. Il primo, teoricamente, è determinato dall’esperienza dell’individuo nella società, il secondo è concreto, inequivocabile, a partire dal concepimento. La radice stessa di tale discorso oggi è pressoché dimenticata, in quanto, benché esistano numerose identità di genere, il sesso biologico resta duale: maschile e femminile. Ciononostante, in discorsi dove quest’ultimo dovrebbe avere la precedenza in quanto a rilevanza, come l’aborto, lo sport, la divisione degli ambienti negli spogliatoi e nei bagni pubblici e il criterio più opportuno sul quale andrebbero scelti, vince sempre il gender. La concretezza del sesso d’appartenenza è inesorabilmente in secondo piano rispetto a qualcosa di astratto anche nella sua definizione tutt’altro che univoca.

Mettere l’elementarità delle cose in discussione lede, in primis, le fondamenta della comunità LGBTQIA+. Se alla semplice domanda «Cos’è una donna?» non è più possibile rispondere in maniera semplice, logica e condivisa, allora lo stesso catalogo di etichette, ognuna con la sua bandierina, su cui si basa la comunità queer non ha ragione di esistere.

Il paradosso del panorama odierno è che, se da una parte è quasi impossibile fornire definizioni altrettanto elementari e sensate come quelle che si desidera surclassare, contestualmente la tendenza è quella di etichettare qualsiasi cosa, anche la più scontata. Ho scoperto infatti che, nel catalogo arcobaleno, sono in vendita anche un paio di etichette che mi riguardano. Sarei infatti demisessuale e sapiosessuale. Cosa descrivono queste due identità dotate del proprio merchandising di bandierine e spillette? La prima è una sfumatura dell’asessualità e identifica coloro che per fare l’amore con qualcuno necessitano di una connessione mentale e sentimentale che preceda l’atto. La seconda, invece, denota chi trova attraenti sessualmente persone intelligenti.

E quindi, per la mia riluttanza ad avere un rapporto sessuale con persone a caso ma con pene e l’aver scelto come compagno una persona capace di sollecitare anche il mio intelletto e di reggere conversazioni di lunga durata, ben lontane dai sottintesi volgari scambiati via chat tramite emoji del fuoco e della pesca, sono anch’io queer e appartengo a questa tribù. Adesso che ne sono a conoscenza, cosa della mia vita e della mia identità è cambiato? Assolutamente nulla.

Tuttavia, per alcune persone, i giovanissimi soprattutto, questo senso di appartenenza è vitale. Viviamo in una società di ragazzi iperconnessi e inesorabilmente soli e per sfuggire a tale solitudine necessitano di appartenere a un gruppo, e una comunità come l’LGBTQIA+ risulta piuttosto accattivante. Vuoi per i colori sgargianti della bandiera arcobaleno, in contrapposizione al grigio degli eterosessuali “basic”, per la crescita immediata del numero dei followers aggiungendo pronomi e bandierina nella descrizione del profilo, finanche per content creators che basano le loro intere piattaforme unicamente sulla loro identità di genere e/o il loro orientamento sessuale e che, in questo modo, raggiungono numerosa visibilità, notorietà: fama.

Per loro sfortuna si ritrovano da una parte educatori, dai genitori agli insegnanti, impreparati su queste tematiche che travisano o, peggio, ignorano, dall’altra abili oratori che vendono i loro stili di vita come uniche alternative e magiche soluzioni a profondi disagi interiori che meriterebbero altri tipi di supporto.

A questi ragazzi, ai miei coetanei, vorrei dire questo: un’etichetta, con tanto di bandierina, non decreta chi voi siate. Siamo molto più del nostro orientamento sessuale, dei nostri pronomi, delle spillette attaccate allo zaino. L’ identità si costruisce, pezzo dopo pezzo, tramite le relazioni sociali (reali, non virtuali) che si instaurano, attraverso lo stile personale e, soprattutto, grazie a ciò che si legge. Solo con la lettura è possibile sviluppare un pensiero critico, l’unico scudo contro un costante e subdolo indottrinamento che non accetta alcun confronto, che, a partire dal linguaggio, silenzia e censura chiunque la pensi diversamente.

Un video in cui si narra la storia di un libro eretico medievale e della sua Autrice, una donna morta sul rogo per aver rifiutato di rinnegarlo.

Conobbi l’esistenza di questo libro molti anni fa quando incontrai casualmente la filosofa Luisa Muraroche mi chiese di tradurre in forma teatrale un manoscritto mistico di una donna del trecento intitolato Lo specchio delle anime semplici, scritto in medio-francese e in forma dialogata. Fu come un colpo al cuore fin dalle prime righe e, da allora, ho cercato di divulgarlo in teatro e ora con il video Margherita Porete, il libro e la vita in cui racconto le parti più laicamente accessibili del libro e anche la storia della sua Autrice. Una storia che venne alla luce a sei secoli di distanza, nel 1946, quando la studiosaRomana Guarnieriscoprì, in un verbale dell’Inquisizione di Parigi, che quel sublime libretto non era stato scritto da un ignoto monaco, come credette anche Simone Weil, ma da una donna, certa Margherita, detta Poirette da Valenciennes.Il predetto verbale riportava che lei non si era pentita ed era rimasta in prigione per due anni in totale silenzio, fino alla sua morte come eretica relapsa, cioè non pentita. E dunque il video persegue l’intento di far conoscere in estrema sintesi tutta questa stupefacente storia, a mio avviso più significativa di quella ben più celebre di Giovanna d’Arco.

La realizzazione è stata possibile grazie alla sensibilità e collaborazione di attori e attrici del calibro di Domitilla Colombo, Daniela La Pira, Sergio Scorzillo e di Paolo Tedesco che ha anche realizzato il filmato con alta professionalità e perfetta aderenza al mio intento.

Lo specchio delle anime semplici è oggi universalmente considerato dagli studiosi uno dei massimi capolavori della letteratura spirituale di tutti i tempi e paragonato alle opere di Platone, Hegel, Spinoza e, come livello di scrittura, alle opere di Dante e Shakespeare.

Bibliografia essenziale di riferimento

Romana Guarnieri, “Quando si dice il caso”, rivista Bailamme, 1990

Luisa Muraro, Lingua materna scienza divina, M. D’Auria editore,1995

ead., Le amiche di Dio, a cura di Clara Jourdan, M. D’Auria editore, 2001; 2a ed. Orthotes 2014

ead., Il Dio delle donne, Mondadori, 2003; Marietti, 2020

Margherita Porete, Lo specchio delle anime semplici, ed. San Paolo, 1996

Immagine di Donatella Franchi, per gentile concessione dell’artista.

Da Viottoli – Dialogo in occasione di un incontro del ciclo “Eretiche”, organizzato dall’Osservatorio interreligioso sulla violenza contro le donne (OIVD) a Pinerolo il 5 maggio 2024.

Doranna – Il femminismo è stato un modo in cui io e altre donne ci siamo date reciprocamente voce fuori dall’ideologia patriarcale. Nel vostro libro intitolato Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, oltre alle numerose immagini e illustrazioni inedite, avete raccolto più di sessanta testimonianze di donne protagoniste di questa storia. Molte di queste nella Libreria delle donne di Milano inventarono pratiche che contribuirono all’elaborazione di pensieri. A partire dagli anni ’70, la Libreria è infatti uno dei luoghi più vivi del femminismo italiano, un laboratorio sulle pratiche politiche del presente, basato sulla condivisione di esperienze e verità soggettive che illuminano la vita di tutte e di tutti, anche la mia. Vorrei sentire da voi, femministe e anche storiche, quali sono state le pratiche e le scoperte che hanno contribuito a far nascere la Libreria.

Luciana e Marina – L’idea di aprire una libreria, simile alla Librairie des femmes di Parigi, dove vendere libri scritti da donne e documenti prodotti dal movimento, è nata dal desiderio di alcune che da una decina d’anni avevano fatto autocoscienza: una pratica in cui sole donne, riunite in piccoli gruppi periodicamente, parlavano a partire da sé della propria esperienza di disagio fino a quel momento sentito come personale, senza ordini del giorno, con un ascolto non giudicante. Il personale diventava politico. Vi erano incontri più allargati in collettivi e in confronti internazionali dove le parole scambiate diventavano scritti che mostravano la parzialità e i danni del dis-ordine patriarcale e le modalità valorizzanti di stare tra donne. Su come realizzare la Libreria, dodici donne per un anno discussero tra loro, proponendo un progetto aperto alla collaborazione di altre per reperire scritti, opere artistiche e per contribuirvi economicamente. Dal 15 ottobre 1975 divenne un luogo aperto sulla strada dove si discuteva di tutto, illuminando la scrittura dei testi politici con la lettura delle scrittrici, alla ricerca di parole che dicessero l’esperienza femminile.Ad esempio, dadiversi incontri su autrici significative nacque il Catalogo giallo. Le madri di tutte noi e la scoperta dell’importanza di avere una genealogia femminile per non essere schiacciate in un presente in cui il senso della propria vita dipenda dall’annullarsi nell’altro.

Da allora la gestione è rimasta non gerarchica, le scelte avvengono attraverso il consenso non a maggioranza e le proposte nascono dal desiderio di una che prende vita dalla relazione con un’altra e cresce di due in due, fino ad arrivare, tra l’altro, alla pubblicazione nel 1987 di Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertàfemminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, un libro tradotto in spagnolo, tedesco, inglese, francese, che ne racconta scoperte e storia.

D. – Ho conosciuto la Libreria delle donne di Milano negli anni ’90 grazie a Pinuccia Corrias. Con lei ho imparato che il femminismo della differenza non è il presupposto per una rivoluzione sociale bensì per una rivoluzione simbolica, iniziando a misurarmi con la complessità della pratica del partire da sé. Con lei ho condiviso percorsi importanti di pratica delle relazioni tra donne, primo fra tutti il lungo percorso del gruppo pinerolese di ricerca teologica al femminile e il gruppo intergenerazionale sulla differenza sessuale, costituitosi in occasione del festival della filosofia di Pinerolo Pensieri in Piazza. In questi ambiti siamo entrate in relazione con alcune della Libreria delle donne di Milano, soprattutto con Luisa Muraro, di cui ho frequentato in Libreria nel 2015 il corso di scrittura pensante, che ha profondamente segnato il mio approccio alla scrittura. Per me è diventato un luogo politico fondamentale. Come lo è diventato per voi?

L. e M. – Entrambe abbiamo fatto autocoscienza con donne con cui ancor oggi ci incontriamo. Compravamo testi in Libreria per discuterli in altre associazioni, mentre abbiamo cominciato a considerarla il luogo principale di confronto politico dalla metà degli anni Ottanta, dopo che il Sottosopra verde (1983) propose di superare il separatismo per investire i luoghi di lavoro con il sapere e le pratiche femministe. Essendo insegnanti, contribuimmo alla Pedagogia della differenza, conosciuta attraverso Marirì Martinengo: utilizzavamo sempre il linguaggio sessuato; ricercavamo il contributo delle donne alla costruzione di civiltà e lo facevamo conoscere, anche modificando i libri di testo; sperimentavamo alcuni momenti in cui nelle classi separate per sesso permettevamo alle ragazze di trovare parole per dire la loro esperienza rispecchiandosi tra loro e in opere di donne, e ai ragazzi di cogliere la loro parzialità; valorizzavamo pratiche di relazione tra le ragazze e tra noi donne insegnanti.

Per noi è stata ed è fondamentale la riflessione sul rapporto con la madre che fonda, come dice il titolo del libro di Luisa Muraro, L’ordine simbolico della madre, che rompe con l’idea patriarcale dell’individualismo prometeico illuminista e mostra invece l’origine duale della vita, la dipendenza e la necessità del riconoscimento delle relazioni.

D. – Recentemente, all’interno di una mostra pittorica di un liceo artistico, campeggiava al centro della sala un quadro intitolato Tessitrici di relazioni: un girotondo di donne danzanti. Mi ha colpito veder raffigurato da una artista il segno tangibile di un cambiamento in atto, ciò che per me è stato il filo conduttore del mio agire politico nel femminismo:la pratica politica delle relazioni tra donne. Nel patriarcato le relazioni tra donne, fuori dalla sfera privata, non avevano esistenza sociale, tant’è che le donne spesso venivano rappresentate come nemiche, rivali, futili, invidiose l’una dell’altra. A me sembra invece, per esperienza diretta nel mio percorso, che alcune pratiche politiche femministe abbiano portato buoni frutti. Sempre più donne, in relazione tra loro, si danno autorità, sanno vedere nel presente e nella realtà ciò che ancora non è evidente, dicono ciò che è buono e ciò che non lo è e agiscono perché il positivo possa realizzarsi. Questo genera forza femminile.

Marina, nel suo saggio sulla storia vivente in La spirale del tempo, sostiene che una pratica si comprende facendola, parlarne può solo permettere di intuirla, di far nascere la voglia di provare. Condivido questa osservazione e vi chiedo di raccontarci quali pratiche sono importanti per voi oggi.

L. e M. – Il racconto di pratiche create per un particolare contesto può solo “autorizzare” all’invenzione, non si tratta di “ricette” o tecniche da imparare e applicare. È necessario continuare a riflettere sul presente, su come agiamo e sulle conseguenze di ciò che facciamo, cioè su quali pratiche mettiamo in atto, come fa il libro Femminismo mon amour che raccoglie articoli significativi nati dalle redazioni aperte dello scorso anno della rivista on line Via Dogana 3.

Come dici tu, è importante riconoscere autorità femminile. Si ha paura di questa parola per il fantasma patriarcale del potere che crea gerarchie per mantenersi, mentre autorità deriva da augere, far crescere. La si riconosce a una in un momento preciso, quando ti aiuta nella comprensione e realizzazione di un tuo desiderio, quando ti fa capire qualcosa del mondo. Abbiamo bisogno, come dice Vita Cosentino, del massimo di autorità con il minimo di potere.

Rimane importante partire da sé e dare credito alla parola dell’altra, come fa il movimento MeToo; riconoscere anche nei gruppi la forza creativa del rapporto duale di disparità, non esclusivo, dove si gioca il di più dell’altra; mantenere momenti di separazione dagli uomini, avere dunque, quella che Ina Praetorius chiama una “stanza della tessitura”, come fanno anche oggi Le Compromesse, alcune giovani attive in Libreria, per trovare parole con cui dire la propria esperienza e modi per renderle pubbliche.

Fin dall’inizio per il femminismo la scrittura è stata importante per sviluppare e far circolare il pensiero, dai Sottosopra, sorta di manifesti che escono senza periodicità, alla rivista Via Doganaprima cartacea e ora on line, daiQuaderni di VDal sito la cui redazione carnale si riunisce ogni giovedì, fino al coinvolgimento di case editrici su singoli progetti. Inoltre la libreria è un luogo di incontro pubblico in cui vengono proposti testi politici, letterari, artistici, soprattutto di donne, a partire dal desiderio di una e dopo una riunione di programmazione per individuare con quale taglio discuterne, lasciando molto tempo al dibattito e alla convivialità.

Fra le pratiche di scrittura quella relazionale generativa, che noi pratichiamo, nasce dal bisogno di non lasciarsi imbrigliare nelle letture già date per dire il nuovo che la singolarità di ciascuna può apportare: si tratta di chiedere il giudizio di un’interlocutrice a cui si riconosce autorità, non sentirsi sminuite per questo, non aver paura di essere defraudate dell’autorialità ma trovare modi per segnalare la pratica relazionale da cui il testo nasce.

D. – Entrambe fate parte di Comunità di Storia Vivente dal 2006. Condivido con voi e con la Comunità di Storia Vivente in faccia al Monviso questa pratica di ricerca e di scrittura femminile della storia che ci permette una lettura differente della realtà. Per me è stato importante, insieme alle donne della mia comunità, risignificare la mia storia personale alla luce di questa pratica. Voi che insieme Marirì Martinengo e Laura Minguzzi siete le fondatrici della Comunità di Milano potete ricordare qual è stata l’intuizione originaria e come si è sviluppato e continua questo percorso.

L. e M. – Ci piace cominciare con la citazione dal libro di Marirì Martinengo La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”, in cui nel 2005 per la prima volta emerge l’intuizione originaria della storia vivente: «C’è una storia vivente annidata in ciascuna e ciascuno di noi, costituita di memorie, di affetti, di segni nell’inconscio; […] una storia vivente che non respinge l’immaginazione, un’immaginazione che affonda le sue radici nell’esperienza personale, storia più vera perché non cancella le ragioni dell’amore, non respinge le relazioni, dal suo processo cognitivo» (p. 21). Da qui siamo partite per una pratica di comunità diversa da quella di ricerca storica che ci aveva portato a scoprire tracce di libertà femminile nella vita di donne del passato. Fu un lavoro di quasi vent’anni con incontri, ricerche, convegni, pubblicazioni, come il libro Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo. Con la pratica della storia vivente, invece, ciascuna ricerca in sé nodi irrisolti che sono tali perché non c’è ancora un simbolico che li rappresenti in modo aderente alla verità soggettiva. La scommessa è trovare parole per dirli e così scioglierli, individuando concetti che diano una chiave di lettura per rileggere il passato. Si liberano così energie bloccate dalla menzognera lettura patriarcale, sia di uomini sia di donne, e si apre la possibilità di una trasformazione del presente.

La pratica consiste in incontri periodici di poche donne in relazione di fiducia tra loro, in cui ciascuna fa emergere un proprio nodo mentre le altre ascoltano con attenzione ed empatia, rilanciando ciò che risuona in sé, e la scrittura e riscrittura chiariscono e rendono pubblico ciò che può cambiare il simbolico. Il lavoro è molto lungo perché sui nodi si sono creati degli equilibri, anche se a volte difficili. Attualmente noi due stiamo continuando la ricerca con Giovanna Palmeto e Laura Modini nella Comunità Sami e siamo nella fase della scrittura finale di nuovi racconti.

Sono già state pubblicate su riviste e libri diverse scoperte che è riduttivo riassumere per evitare di banalizzare e creare fraintendimenti, proprio perché hanno una dirompenza trasformativa rispetto alle interpretazioni correnti. Accenniamo che queste letture della realtà riguardano tra l’altro l’economia, la guerra, la violenza maschile, le forme di resistenza e la parola pubblica delle donne, la trasmissione genealogica femminile, la devianza dai modelli. Oggi possiamo riferire che trovano molti riscontri anche in giovani donne provenienti da varie parti del mondo, in quanto dal 2019 teniamo il corso di Historia viviente nel Master on line La política de las mujeres dell’Università di Barcellona. Le allieve, che seguono con noi un percorso di lettura di ciò che finora è stato prodotto e di scrittura in dialogo con i testi e la propria esperienza, sottolineano gli spostamenti nel loro modo di rapportarsi a momenti imbriglianti della loro esistenza e della realtà che le circonda. Scoprono la violenza e parzialità della storia finora appresa e riconoscono come pratiche politiche positive i comportamenti propri e di altre donne, anche della loro genealogia, spesso invisibili o svalorizzati, accrescendo la loro forza.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Santini Marina, Tavernini Luciana, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua,Il Poligrafo, Padova 2015.

Libreria delle donne di Milano, Le madri di tutte noi (Catalogo giallo), Milano 1982.

Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertàfemminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne, Rosenberg & Sellier, Torino 1987.

Sottosopra, i numeri della rivista sono in vendita o consultabili in https://www.libreriadelledonne.it/categorie_pubblicazioni/sottosopra/

Muraro Luisa, L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti, Roma (1991) 2022.

Comunità di storia vivente di Milano (a cura di), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti & Vitali, Bergamo 2018.

Redazione di Via Dogana 3, Femminismo mon amour, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle donne di Milano, 2024.

Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti, ECIG, Genova 2005.

Marirì Martinengo, Claudia Poggi, Marina Santini, Luciana Tavernini, Laura Minguzzi, Libere di esistere. Costruzione femminile di civiltà nel Medioevo europeo, SEI, Torino 1996; ipertesto nel sito curato da Donatella Massara “Donne e conoscenza storica” http://www.donneconoscenzastorica.it/vecchio/testi/libere/apertura.htm

(Viottoli, n. 1/2024)

Alcune studentesse e studenti dell’Università di Verona come di altre università hanno chiesto ai docenti di dedicare le lezioni del 5 maggio 1999 alla riflessione sulla guerra nei Balcani; quello che segue è il testo del mio contributo.

Care studentesse, cari studenti, non ho cose risolutive da dirvi su quello che ci sta capitando. Che è una guerra, né più né meno. La stiamo facendo contro un paese che si chiama, ufficialmente, Repubblica federale di Jugoslavia, capitale Belgrado. Non è una guerra che loro fanno a noi, potrebbero anche provarci, ma tutti lo escludono, infatti l’Occidente ha inventato guerre unilaterali, che sono molto comode dal suo punto di vista, perché l’altro non è in condizione di rispondere. E noi facciamo parte dell’Occidente, sia pure un po’in bordo. Siamo dalla parte giusta, direbbe l’anziano filosofo torinese Norberto Bobbio.

Quello che ho da dire, ho deciso di dirlo in una lezione pubblica (ringrazio gli studenti che mi hanno dato questa idea) e ho chiesto al quotidiano il manifesto di pubblicarla. C’è bisogno di parole. I giornali, televisione compresa, sono pieni di discussioni sulla guerra, per fortuna, e io li leggo volentieri, ma le parole che mancano sono di un altro tipo. I giornali ragionano sulla guerra come se fosse una cosa sensata, più o meno giusta (o, secondo altri, più o meno sbagliata). Mancano le parole per quelli che sono rimasti di sasso, come me e come molti di voi. I soldi che prendo ogni mese li prendo da voi o da chi vi mantiene, li prendo dalle mie ex compagne di scuola elementare che, a undici anni, mentre io andavo alle medie, sono andate a fare marmellate da Boschetti, li prendo dagli operai che hanno costruito questo edificio dentro il quale voi studiate e io insegno. In cambio di che cosa? Di parole. Non parole che ci sono già. Le altre, per non restare sassi.

Nella mia vita è la seconda volta che l’Italia entra in guerra. La prima volta ero vecchia di due giorni, la guerra durò quasi cinque anni e i miei ricordi d’infanzia somigliano a quelli di un reduce. Credevo che la vita fosse fatta di bombardamenti, fosse anticarro, caccia che scendono in picchiata a mitragliare, dormire in cantina e sognare grandi mangiate di latte e pane.

Poi venne la pace e mi sono adattata. Poi, verso i dieci anni, mi portarono sull’Altipiano d’Asiago, dove ho fatto la conoscenza della Prima guerra mondiale. A distanza di quanti anni, trenta, l’Altipiano era ancora coperto di cicatrici e di reliquie. Diventarono i nostri giocattoli. Non ho ricordi orribili, perché sono stata protetta dall’infanzia e da mia madre. Però conosco la guerra: l’ho vissuta, l’ho guardata, l’ho toccata, me l’hanno raccontata.

Conosco un po’ anche la storia dell’Italia e sono arrivata alla conclusione che noi non possiamo più andare in giro a fare guerre. Invece sui giornali è scritto che sì, ne stiamo facendo una, lo dicono con parole contorte, che però equivalgono. Ma non riesco a convincermi. Agli inizi, ogni mattina leggevo i giornali sperando d’aver capito male. Adesso, sperando di leggervi la parola fine. Quando, nel 1992, cominciarono ad arrivare notizie terribili dalla Bosnia, io, aiutandomi con la mia ignoranza della geografia, cominciai a spingere la Bosnia distante dall’Italia, verso oriente, credo d’averla mandata in Asia, quasi in Mongolia. Questa volta il gioco non mi riesce, la geografia dei Balcani l’ho imparata, ma non mi abituerò all’idea.

Mai avrei creduto, e fino a due mesi fa in Italia nessuno, ne sono certa, ha pensato che la Nato ci avrebbe portato a fare la guerra nei Balcani. Proprio lì da dove è partita la Prima guerra mondiale, che si è tirata dietro sciagure immani, il nazismo, lo sterminio degli ebrei e degli zingari, la Seconda guerra mondiale. Chissà se negli Usa conoscono la storia dei Balcani… I professori d’università sì, gli altri mi chiedo, perché negli Usa fuori dalle università la cultura libresca circola molto poco, meno che da noi.

La peggiore ipotesi che potevo fare sull’Italia era l’introduzione della pena di morte. L’ho sempre escluso, sia chiaro, e continuo, però mi è capitato una volta di pensare: se dovesse succedere, emigrerò, non potrei vivere in un paese che ha la pena di morte. Adesso di colpo mi trovo a vivere in un paese che fa la guerra, è incredibile. Stiamo uccidendo i nostri vicini che non ci hanno fatto niente, stiamo distruggendo le loro case, le loro fabbriche, gli stiamo portando via il sonno, il lavoro, il combustibile, la salute, la vita. Le ragioni che ci hanno dato di questa guerra non stanno in piedi. Non si può aiutare degli innocenti ammazzando altri innocenti, così non si fa che moltiplicare il male. Forse ci aumenteranno le tasse per finanziare la guerra. Ho letto su un giornale: ci rifaremo con la ricostruzione. Ma non ci rifaremo della nostra disumanità.

Molti, per non disperarsi, si aggrappano all’intervento umanitario: dovevamo pure fare qualcosa per gli abitanti del Kosovo. Certo che dovevamo, per esempio non dovevamo fare i furbi quando la ex Jugoslavia è entrata in crisi; per esempio dovevamo proporre, come Europa, un piano di aiuti economici razionali e disinteressati; per esempio, non dovevamo dare soldi e pubblicità a giovanotti in cerca di avventure, e dare invece tutto il sostegno possibile agli oppositori politici più responsabili…

La notte, quando mi sveglio, preparo un discorso per spiegare agli alleati della Nato che l’Italia non può starci. Ma ci siamo già… Lo so, ma di notte posso ancora credere che no, senza contare che il discorso potrebbe tornar buono, chissà, per il nostro prossimo otto settembre.

Eccolo, anzi eccoli, perché ne ho preparati più d’uno: «Cari alleati, noi non ce la sentiamo di intervenire contro la Serbia perché noi che siamo suoi vicini, anzi un po’ congiunti, sappiamo che la penisola balcanica è un mosaico unico al mondo di popoli e di culture, che ogni tanto esplode e quando esplode bisogna assisterli con pazienza e sapienza perché le tessere si rimettano insieme. Bisogna ascoltare tutti e non mettersi con nessuno contro nessuno, e non pensare di avere noi la soluzione del conflitto perché soltanto loro sono in grado di ritrovare il delicato disegno della loro convivenza, lo hanno già fatto in passato, si sono insaccati in quella penisola da secoli e secoli e in tanti secoli di non facile convivenza hanno imparato il suo segreto anche se ogni tanto se lo dimenticano. È come eseguire una musica difficile. Se proprio vogliamo contribuire, diamo soldi, non è la soluzione, ma è sempre meglio delle bombe».

Secondo discorso: «A parte il fatto che la nostra Costituzione ci vieta espressamente di fare guerre che non siano di difesa, a parte il fatto che con voi abbiamo firmato un’alleanza a scopi difensivi soltanto e non risulta che la Jugoslavia abbia aggredito nessuno di noi, tenete conto che la nostra capitale, Roma, è anche la capitale del mondo cattolico e il Papa non è d’accordo con le guerre in genere e soprattutto con questa. È vero che non siamo tutti veramente cattolici e molte prendono la pillola anticoncezionale, molti usano il preservativo, divorziano, bestemmiano, sono gay ecc., tutte cose che al Papa non piacciono. Ma la guerra è un’altra faccenda e al Papa diamo ragione, ce l’ha! Voi, inoltre, vi state dimenticando che l’anno prossimo abbiamo il giubileo. Non dite che l’anno prossimo sarà finita, perché delle guerre si sa quando cominciano ma non quando finiscono. E poi, finisse pure tra una settimana, che sarebbe già troppo in là, noi dobbiamo prepararci fin d’ora, anzi siamo in ritardo. Come possiamo pensare alla guerra dovendo prepararci spiritualmente? E fare fronte all’invasione dei pellegrini? Rischiamo un caos spaventoso, nei lavori pubblici come nelle nostre anime».

Avrei concepito un altro discorso ancora, è il più forte, ma ho idea che a D’Alema non piacerebbe pronunciarlo. Ve lo dico: «Cari alleati, lasciateci fuori dalle guerre, non siamo adatti perché le nostre mamme ci hanno educati a dare bacini all’avversario. Appena si cominciava una baruffa, subito intervenivano le mamme a dividerci e poi “bacino, bacino”. Lo chiamano mammismo, ma è una civiltà anche questa. Giudicatela come vi pare ma siete avvisati che noi, dopo un po’, vogliamo dare bacini all’avversario».

Tu hai voglia di scherzare, mi dite. Sì, moltissima, respingo la retorica dell’“atroce guerra” che risuona in bocca di quelli che la guerra l’hanno decisa. Ma forse non è retorica, forse i nostri governanti non hanno deciso niente. Infatti, ripetono che era una scelta obbligata. A rigore, dunque, una non scelta. Se fosse così, dobbiamo tirare le conseguenze: altri hanno deciso per noi, ci hanno obbligati, forse siamo dalla parte della punta della spada (la parte sbagliata, direbbe Bobbio) e non dalla parte dell’impugnatura. Io questo non lo so, non sono in condizione di saperlo, né voi, del resto. Mi viene in mente un verso dei Sepolcri di Foscolo a proposito del potere politico: «…di che lagrime grondi e di che sangue».

O: di che sperma. Non è una parolaccia. Me l’ha suggerita quel film che s’intitola Sesso e potere dove si racconta di un presidente degli Usa il cui staff s’inventa una guerra (Sapete dove? In Albania, cioè un posto sconosciuto agli americani) per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da uno scandalo sessuale del presidente. Storia inventata prima che venisse fuori quella di Clinton con l’ormai famosa staggera Monica Lewinski. Nel cinema gli americani sono geniali. Va detto, però, che tra la pellicola e la realtà c’è una differenza tutt’altro che secondaria. Nella realtà, tutti i tentativi per coprire lo scandalo sono falliti e il presidente Clinton è stato messo alla gogna, in una maniera indecente, alla lettera, con tutti quei particolari, e per noi in Europa inaccettabile, ma non altrettanto negli Usa, la cui classe al potere ha una cultura, nel suo fondo, dura e bigotta. Basta leggere il bellissimo romanzo La lettera scarlatta di Hawthorne (1850). Solo che una volta la condanna del sesso libero ricadeva sulla donna mentre ora, in seguito al femminismo, può ricadere anche sull’uomo. Falliti i tentativi di coprire lo scandalo, il presidente Clinton ha salvato il potere riconoscendosi colpevole. E ora si sta rifacendo dell’umiliazione patita facendo una guerra giusta (che è peggio di una guerra finta, perché l’inganno non è esteriore ma interiore).

Per rendervi conto di quello che dico, guardate le foto del presidente Clinton in mezzo agli altri capi politici della Nato che festeggia i cinquant’anni a Washington, il 24 aprile scorso. Alto, pimpante, con il braccio destro alzato, sorridente. Si vede che si sta rifacendo della sua virilità messa alla gogna. Gli altri, tolto Solana, troppo onorato di essere in quella compagnia, hanno tutti l’aria di esibire una contentezza che non sentono.

Fra le distruzioni di questa guerra, quando dovremo fare i conti, prevedo che si dovrà mettere anche l’eredità del Sessantotto. La decisione di bombardare la Jugoslavia, infatti, è stata presa o sostenuta da uomini in gran parte di sinistra e provenienti dalle rivolte studentesche del famoso Sessantotto, da Clinton a D’Alema, passando per il segretario generale della Nato, Solana, e il ministro degli esteri tedesco, Fischer. La cosa che più mi urta, in questa faccenda, è che anche da noi gli intellettuali si siano messi a fingere, sui giornali e in televisione, una discussione sul bene e sul male, sulla guerra giusta e la guerra ingiusta, traendo in inganno le persone oneste e semplici, le quali persone possono credere che veramente l’intenzione di questa guerra fosse umanitaria e, soprattutto, che si possa giustificare una guerra con simili intenzioni.

In una celebre lettera del 1932, Perché la guerra?, quando ancora la Prima guerra mondiale era l’unica e non la prima di un elenco, lo scienziato Albert Einstein chiese a Freud se fosse possibile «dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino più capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione». Aggiunse subito che non stava tanto pensando alle «masse incolte». «La mia esperienza dimostra anzi che è proprio la cosiddetta “intellighenzia” a cedere per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata» (Freud, Opere 1930-1938, pag. 291).

Il contatto diretto con la realtà che dice Einstein, ce lo dà il nostro essere corpo. La realtà è corpo, sono corpi, non interamente certo, ci sono anche i minerali, stavo dicendo il sole, le stelle, la luna, ma sono corpi celesti e anche la società è corpo. E i corpi, quando si avvicina la guerra, tremano e sono in pena. Sanno che la guerra è fatta per distruggere, in un crescendo che non si saprà come fermare, tutto quello che piace ai corpi, come la casa, la tavola apparecchiata, il caffè, i vestiti, le fidanzate, i fidanzati, la luce, il tepore, l’amore. Perciò, io credo, il 24 marzo siamo rimasti di sasso, per passare nella realtà minerale, non essere più corpi, diventare tondi e insensibili. Le idee del bene e del male, mi dispiace per Platone, troppo spesso hanno ucciso e distrutto. Io vi consiglio di ascoltare piuttosto il vostro sentimento di corpi vivi, bisognosi, dipendenti, e ragionare di conseguenza.

Articolo uscito su “il manifesto”, 4 maggio 1999, e poi ripreso nel Quaderno di Via Dogana «Guerre che ho visto», di varie autrici, disponibile in Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, info@libreriadelledonne.it

Sin da quando ero alle elementari, vedendo i miei compagni di classe musulmani uscire da scuola durante il pranzo, mi sono sempre domandata cosa fosse effettivamente questo Ramadan di cui loro parlavano e in seguito, quando mi fu spiegato, ho sempre ritenuto fosse una prova ardua. Così quando la mia compagna di classe il mese scorso, a pochi giorni dall’inizio del Ramadan, mi ha proposto scherzando di fare un giorno di digiuno con lei, l’ho presa come una bella occasione per capire di più quella cultura che abita accanto a noi ma non è la mia.

Come mi aveva consigliato, mi sono svegliata alle quattro del mattino per fare colazione e poi sono tornata a letto, purtroppo per poco dovendo andare a scuola. Le prime ore di digiuno sono passate abbastanza in fretta, le lezioni mi tenevano impegnata, allo stesso modo i giri in corridoio. Non avevo fame né sete, mi mancava solo la mia pausa caffè, ma intorno alle quattordici la situazione si è fatta più critica, non tanto perché mangio intorno a quest’ora, ma soprattutto per il caldo e il lungo tragitto da scuola a casa della mia amica. Ho iniziato a sentire una gran fame e la mia pancia ha iniziato a contrarsi dolorosamente. Per di più la metro era bloccata e siamo state costrette a prendere un bus suppletivo pieno di persone che, strette strette, rendevano l’ambiente ancora più caldo e asfissiante ma finalmente siamo arrivate a casa dove abbiamo aiutato sua madre a finire di cucinare gli involtini per la cena. Per passare le ultime ore prima dell’iftar (fine del digiuno) abbiamo fatto un giro al parco vicino per poi tornare e scaldare la cena. Arrivati a casa la madre, il padre e il fratello della mia amica, abbiamo cenato; c’erano gli involtini, dei tacos, un po’ di insalata, ma soprattutto un delizioso tajine, piatto tipico marocchino di carne e spezie. Il tempo della cena è trascorso in fretta, a mia sorpresa non ero così affamata e sono rimasta incantata ad ascoltare i loro discorsi in marocchino, lingua che ritengo affascinante per la sua fluidità e anche con una strabiliante similarità, in certe cadenze e parole, con il dialetto lombardo.

Mi chiedo da dove venga questa mia grande curiosità verso religioni e tradizioni diverse che ormai da molto tempo convivono con il mondo occidentale. Io non ho ricevuto un’educazione cattolica, a differenza dei miei genitori, e i miei nonni sono religiosi. Ho chiesto loro informazioni su riti e tradizioni del cattolicesimo e so che ci sono tratti simili nelle grandi religioni monoteiste (per esempio durante la Quaresima). Ma credo che il mio desiderio di capire e conoscere sia spinto da un moto interiore di non limitarmi alla superficialità di leggere e studiare ciò che è diverso da me, al contrario, di viverlo in prima persona per renderlo davvero mio e vedere fatti e persone il più possibili rispondenti al vero e non attraverso le inevitabili lenti dei preconcetti. Quindi questo desiderio attiene più alla sfera esistenziale, che oltrepassa quella culturale, perché mi coinvolge in prima persona e chiama in causa le mie relazioni più strette. Riflettendo su questo punto, credo di essere arrivata al nocciolo della questione: sono convinta che la differenza sia innanzitutto ricchezza e non distanza. Voglio dire che vivere dall’interno un’esperienza che culturalmente non ci appartiene, mettersi nei panni di un’altra persona, è il primo passo verso una conoscenza autentica che può abbattere barriere che sembrano invalicabili e che può rendere le relazioni tra persone culturalmente diverse non solo limitate alla tolleranza una verso l’altra ma a una consapevolezza più profonda e completa l’una della cultura dell’altra. È così che un’esperienza che pare confinata nella sfera personale può assumere una valenza politica, nel senso più vero di questa parola: stare insieme, in una comunità solidale e variegata.

Rossella Bertolazzi non è più tra noi

di Laura Minguzzi

Rossella Bertolazzi della Libreria delle donne di Milano, tra le fondatrici del Circolo della rosa, vincitrice nel 2020 del Compasso d’oro, il primo e prestigioso premio mondiale di design, negli anni ’80 caporedattrice del mensile SE\Scienza Esperienza fondato da Giovanni Cesareo, non è più tra di noi.

Per come l’ho conosciuta io più di trenta anni fa, al Circolo della rosa, una donna di straordinaria vitalità, intelligenza, generosità e ironia. Una presenza unica e insostituibile. Una forza della natura si direbbe con parole comuni. Possedeva una versatilità molteplice che ha espresso in campi differenti, nella scrittura, nella comunicazione mediatica, nella capacità direttiva di un’importante istituzione europea ecc.. Sono indimenticabili per me le sue qualità di chef al Circolo della rosa, dove in occasioni speciali, con passione e inventiva metteva a punto originali menù con il gruppo relazionale Estia. Una figura che comunicava forza e desiderio di stare insieme, fare insieme. Sapeva coniugare il femminismo con la progettualità e l’amore per le relazioni, valorizzando quelle e quelli con cui lavorava alla Scuola di Arti Visive IED di Milano che ha diretto dal 2001. Non amava le luci della ribalta ma la sostanza delle cose e con il suo approccio diretto e sincero, scevro da formalismi, metteva a proprio agio e trasmetteva il piacere della compagnia. «Una donna burbera e dolcissima, con uno spirito da combattente, che le ha consentito di puntare sempre all’innovazione», così è scritto nelle motivazioni per cui le hanno conferito il premio oltre ai suoi titoli e meriti professionali. Cara Rossella, ci mancherai moltissimo, a me e a tutte le amiche e gli amici della Libreria e del Circolo della rosa.


Rossella e l’anello

di Silvia Baratella

Ho iniziato a frequentare la Libreria delle donne quindici anni fa e, dopo i primi tempi, a partecipare alle cene del sabato. In cucina c’erano le cuoche di Estia, tra cui Rossella Bertolazzi. La vedevo indaffarata insieme a Ida Faré, Stefania Giannotti e le altre quando passavo a prendere il vino, e man mano che mi sentivo più a casa, le stoviglie per apparecchiare i tavoli. Apprezzavo gli eccellenti risultati dei loro sforzi congiunti, i menù spiritosi delle cene speciali, scritti con rime, battute, giochi di parole, ma non avevamo molto tempo per conoscerci.

Una sera dopo una cena, quando quasi tutte erano andate via, Rossella e altre cuoche di Estia si sono sedute a chiacchierare. Mi sono seduta con loro e ho avuto la prima vera conversazione con lei. Rossella stava raccontando con brio la sua disavventura con un anello antico, un bellissimo gioiello di famiglia di una sua amica che lei aveva molto ammirato e che le aveva chiesto in prestito per far bella figura in un’occasione professionale importante. L’amica aveva acconsentito volentieri. Ma durante la giornata il dito si era gonfiato e l’anello non usciva più. Ricordo tutta una serie di peripezie: il sapone che non aveva funzionato, i tentativi inutili di farsi aiutare da gioiellieri, poi da medici. Aveva avvisato l’amica, che le aveva detto senza esitare di far tagliare l’anello perché il suo dito era più importante, ma lei non voleva sacrificare il cimelio di famiglia dell’amica. Alla fine, non mi ricordo più come, era riuscita a far sgonfiare il dito e a sfilare l’anello senza rovinarlo. Da quando qualche anno fa anche a me hanno iniziato a gonfiarsi le dita, controllo compulsivamente che gli anelli mi si sfilino, pensando sempre a Rossella: credo che mi abbia salvata da incidenti analoghi.

Gli anni sono passati. Ida non c’è più, la salute di Rossella è peggiorata gradualmente, colpendo anche la vista. Eppure per tanto tempo è venuta lo stesso a cucinare e mi stupisce ancora come fino a pochi anni fa ci sia riuscita lo stesso, al tatto, seduta a un angolo del tavolo di cucina con il necessario disposto intorno a sé. Poi c’è stato il Covid, il confinamento, tante cose sono cambiate, ma anche quando non cucinava più Rossella finché ha potuto è venuta in Libreria. E ora la sua compagnia ci mancherà terribilmente.


Rossella per me

di Fiorella Cagnoni

Oggi è morta a Milano Rossella Bertolazzi. Ha diretto per anni e anni la Scuola di Arti Visive dell’Istituto Europeo di Design, ha vinto il Compasso d’oro – il più antico e autorevole riconoscimento mondiale nel design. Ha anche ricevuto un Ambrogino d’oro.

Ma Rossella per me e per molte amiche milanesi, della Libreria e delle città, era la più grande cuoca del pianeta, la perfetta benché severa socia di scopone scientifico, la più sinuosa elegante e leggera ballerina malgrado la bella rotondità delle sue forme. La più attenta e affettuosa compagna di pensiero e di divertimenti, nella mai ridondante attenzione e amabilità lombarda.

Quante cene “pan e pachett” – quante nottate di poker con suo marito Giovanni Cesareo, il mio diletto Silvio, la Stefi, la Lipschitz… –

A sua figlia Magdalena Barile un abbraccio da qui a là.


Paola Mattioli, Rossella Bertolazzi 2018


Rossella Bertolazzi della Libreria delle donne di Milano, tra le fondatrici del Circolo della rosa, è scomparsa il 17 luglio 2024.


Ciao Rossella.

rossella bertolazzi

Chissà se era una provocazione quella dello scrittore Walter Siti quando ha dichiarato a Rivista Studio, in questi giorni, in riferimento al Premio Strega, che «[…] vincerà una donna, e sarà così per ancora due o tre anni, e poi finito un ciclo si tornerà a un regime normale». Certo è che ha sentito la necessità di aggiustare il tiro dopo che si è alzato il vento della polemica. «Viviamo in una società che accetta ancora la disparità di genere e mi è evidente la necessità di riportare l’attenzione sui libri scritti da scrittrici» ha aggiunto. «Il mio augurio è che nella società del futuro si possa tornare a concentrarci sull’opera letteraria indipendentemente dal genere, dall’orientamento sessuale o dall’etnia di chi l’ha scritta». L’idea che lo spazio (conquistato) delle donne sia una tendenza, una moda del momento, mi appare un’affermazione pericolosa che però riesce a farmi sorridere: una forma di esorcismo maschile verso la rivoluzione femminista, oramai inesorabile persino ai loro occhi, al punto che c’è bisogno di minimizzare, o fare dell’ironia. La seconda idea invece, che per superare la disparità di genere sia necessario il ritorno al neutro, mi fa sorridere e basta. Poi a smorzare il sorriso subentra una rabbia pacata. Una rabbia che immagino condivisa dalle donne che come me sanno bene che nel mondo contemporaneo e anche in quello del futuro l’opera letteraria delle donne, come ogni altra opera intellettuale o pratica, non è neutra affatto, come non è neutro il trattamento che ai lavori delle donne è stato riservato ed è ancora riservato in molti campi della cultura. E se gli effetti dell’atteggiamento discriminatorio nei confronti dell’opera creativa delle donne sono stati ampiamente denunciati, smontati, superati grazie all’impegno e all’ingegno del lavoro condiviso di donne di tutte le generazioni, e della cooperazione anche con gli uomini, rimane in buona parte ignorato nel dibattito odierno il peso del neutro (o per meglio dire del neutro-maschile) e dell’universale nelle generazione di opere creative, lo schiacciamento esercitato da questo costrutto moderno, figlio prediletto dell’Illuminismo, sulla soggettività femminile. Solo la creazione di un nuovo ordine simbolico, a partire da sé, ha permesso alle donne di pensare al di fuori dall’ordine patriarcale prestabilito, e di dare vita così a un linguaggio proprio, nuovo, vivo, vissuto, ardente, politico, sessuato. Prendendo in prestito un’espressione di Adriana Cavarero, «eliminando la parola donne si elimina il soggetto che ha davvero compiuto la rivoluzione»1. Anche parlare della vittoria delle donne come di un trend passeggero cancella la storia del femminismo, oltre che rinforzare la posizione neoliberista che il femminismo possa diventare l’ennesimo brand, operazione che sta sfociando in ideologia da più parti, consegnandoci sui media di ogni genere una versione semplificata, altamente digeribile oltre che politicizzata (per non dire strumentalizzata) del “femminismo” contemporaneo. Ma il punto non è solo la storia e la portata del femminismo, a cui dobbiamo riconoscere ed essere grate per il cambiamento sociale a cui assistiamo: è l’esistenza di una società femminile, a cui tutte le donne e tutti gli uomini partecipano attivamente. Nelle parole di Luisa Muraro, «prima della scelta femminista, c’è la risposta del fare società femminile, che resta sempre cosa buona, con o senza femminismo»2. Se a vincere lo Strega è una donna anche quest’anno (Donatella Di Pietrantonio con L’età fragile) lo dobbiamo anche, e soprattutto, all’esistenza di questa società, ed è questa la più grande rivoluzione. Se teniamo presente infatti che «la nostra civiltà si è sviluppata facendo mediazioni al neutro-maschile, come se le donne non esistessero per se stesse», come afferma sempre Muraro, è evidente che il futuro non sarà affatto riaffacciarci sul panorama uggioso del neutro, ma continuare a salpare verso rotte nuove e inesplorate, alla ricerca di parole che provengono da dentro di noi, che sono corpo e che in quanto corpo tracciano un cammino, lo segnano, lo animano. Sono parole che noi donne andiamo in giro scovando e che germogliano dall’interno quando incontriamo l’Altra e l’Altro, nella scintilla del dialogo, dello scontro, dello scambio, del corpo a corpo. Fare società femminile, e poi femminista, è anche questo, generare nella mediazione, saper confliggere, e imparare da questo processo. Inanellando parola dopo parola, corpo dopo corpo, ne sta giovando oggi anche il panorama letterario, che non sempre coincide però con quello intellettuale, e su questo dovremmo ancora lavorare facendo uno sforzo in più nel creare confronti e spazi di conversazione. Vedo nella possibilità di un confronto con autori come Siti, tuttavia, nella sopita città di Milano, un’opportunità di moltiplicazione del senso libero del partire da sé nell’incontro con l’alterità della soggettività altrui. Perché il contrasto, non inteso come ostacolo ma come componimento, è un qualcosa da tenere vivo, tantopiù in un mondo in cui espressioni come “disparità di genere”, grazie alla libertà femminile, si sono svuotate di senso. La logica della spartizione dei poteri edificata dalla cultura maschile deve essere finalmente superata con prospettive nuove, tra cui la possibilità proprio di rapporti diversificati e forti, «rapporti dove le diversità entrino in gioco come una ricchezza e non più una minaccia»3[3]. A questo proposito, come ha scritto la Libreria delle donne di Milano già negli anni Ottanta, la “disparità”, se vista dalla prospettiva relazionale tra donne, diventa un’attribuzione di valore e una vera e propria pratica femminista. Tolto il bisogno di sentirsi alla pari non solo con l’uomo ma con le altre donne, entra in gioco quel “di più” che ognuna di noi ha con sé, ed ecco che il nostro essere diverse ci appare come una risorsa e una leva nei nostri rapporti a fare di più, meglio e insieme. Ed è così che una parola logora assume un nuovo, scintillante significato.


  1. A. Cavarero, Mai dire donna, intervista di P. Tavella, in Il Foglio, 16 agosto 2023, https://www.ilfoglio.it/societa/2023/08/16/news/mai-dire-donna-la-filosofa-femminista-adriana-cavarero-contro-la-neolingua-che-parla-di-persone-con-utero–5590326/ ↩︎
  2. L. Muraro, Imparare a parlare bene delle donne, in Via Dogana 3, maggio 2018, https://puntodivista.libreriadelledonne.it/imparare-a-parlare-bene-delle-donne/ ↩︎
  3. Sottosopra. Più donne che uomini, Libreria delle donne, gennaio 1983. ↩︎