Da il manifesto – Lo scorso mese, su un grattacielo alla periferia di Kharkiv, in Ucraina orientale, è improvvisamente comparso uno strano slogan: «I fucili – diceva – puntateli contro coloro che ve li hanno messi in mano». La frase, dal gradevole retrogusto eversivo, sarebbe certamente piaciuta agli ex soldati russi Vyacheslav Trutnev e Dmitry Ostrovsky, che dopo aver disertato dall’esercito di Putin, a inizio ottobre, hanno scritto e diffuso via social la seguente canzone rap: «Me ne frego se mi chiamano traditore/ non ho perso la mia dignità/ Aiutiamo le nostre madri/ mettiamolo in culo ai nostri comandanti».

E poi, c’è chi è già passato dalle parole ai fatti, come il disertore pietroburghese Alexander Igumenov, che la sera del 30 ottobre scorso ha accolto il capo della pattuglia venuta ad arrestarlo puntandogli direttamente una pistola in mezzo agli occhi: «O ti levi di torno – gli avrebbe detto -, oppure al ministero della Difesa avranno bisogno di un ufficiale in più». Una scena non molto dissimile si è verificata la settimana successiva sull’altro versante del confine, nel villaggio ucraino di Lykhivka, dove un anonimo camionista si è smarcato da un gruppo di reclutatori dell’esercito minacciandoli con un fucile e una bottiglia Molotov. Non sappiamo se l’uomo avesse ascoltato le rime di Trutnev e Ostrovsky, ma è certo è che il clima di mobilitazione patriottica, tra la Moscova e il Dnipro, ultimamente sembra essersi parecchio guastato.

Per sincerarsene, basta consultare i recenti report pubblicati dal collettivo anarchico “Assembly” di Kharkiv (assembly.org.ua), che dal febbraio del 2022 si sforza di censire ogni singolo episodio di ribellione antimilitarista su entrambi i lati del fronte. «La fuga del personale delle Forze Armate – scrivono gli attivisti nel loro ultimo rapporto, datato novembre 2024 – ha ormai assunto il carattere di una valanga». E in effetti i numeri parlano piuttosto chiaro. Dall’inizio dell’invasione a oggi, secondo i dati della Procura generale, circa 95mila soldati ucraini sarebbero stati incriminati per aver abbandonato i propri reparti senza autorizzazione. Di questi, circa 60mila uomini avrebbero gettato la divisa nel corso del 2024, e ben 9.500 nel solo mese di ottobre.

Ma è probabile che il fenomeno sia ancora più vasto: «Di sicuro il numero dei nostri disertori ha già superato i 150mila e si avvicina a 200mila – ha scritto il giornalista di Kiev Volodymyr Boiko, che attualmente presta servizio nella 101ª Brigata delle Forze armate ucraine – Se le cose vanno avanti così, arriveremo a 200mila entro fine dicembre».

Anche sul fronte russo la gente sembra ormai stanca di combattere: è degli scorsi giorni la notizia che circa mille uomini avrebbero disertato in massa dalla 20a Divisione fucilieri motorizzata, trascinando con sé persino 26 ufficiali, un maggiore e un colonnello. «I militari che si danno alla macchia sono sempre più numerosi – si legge in un messaggio che gli attivisti di “Assembly” hanno recentemente ricevuto da Horlivka, nella repubblica filorussa di Donetsk – Qualcuno va ripetendo in giro che i nostri soldati dovrebbero smetterla di sparare agli ucraini, e che piuttosto bisognerebbe aprire il fuoco contro chi ci governa. Ma la gente ha ancora paura di questi discorsi, e in molti si fanno prendere dal panico: “Volete tornare al 1917?”, chiedono, “Volete la guerra civile?”».

Un altro messaggio proviene da un giovane coscritto dell’esercito di Putin dislocato sul fronte di Kursk: «Molti dei nostri ufficiali sono dei veri nazisti – dice. Ho parlato con il capo delle comunicazioni della Divisione mortai, il quale senza troppi giri di parole mi ha esortato a leggere “i pensatori tedeschi degli anni Trenta”. D’altro canto, gli uomini della truppa appartengono quasi tutti alla classe operaia, e in generale non hanno nessuna voglia di combattere. Perciò quando spiego ai miei compagni che questa è una guerra ingiusta, di padroni contro altri padroni, in tanti si dicono d’accordo con me».

È uno scenario che stride non poco con quello insistentemente magnificato dagli uffici di propaganda, che a Mosca come a Kiev continuano a battere sulla grancassa dell’“armatevi e partite”. La musica al fronte è un po’ diversa.

Il 3 ottobre a Voznesensk, nella regione di Mykolaiv, circa cento soldati della 123ª Brigata di difesa territoriale ucraina hanno dato vita a una improvvisa manifestazione di dissenso e si sono rifiutati di andare in trincea, protestando per la mancanza di armi ed equipaggiamento adeguato. La stessa cosa era accaduta appena il giorno prima a Vuhledar, sul fronte di Donetsk, dove un altro battaglione della 123ª Brigata, il numero 86, aveva voltato le spalle al nemico e si era dato alla fuga, permettendo peraltro alle truppe russe di conquistare la città. L’unica vittima dell’ammutinamento era stato il comandante in capo del reparto, il trentatreenne Igor Hryb, che secondo alcune fonti sarebbe stato giustiziato dai suoi stessi uomini dopo che, invano, aveva cercato di fermarli.

Gli ufficiali, del resto, hanno vita difficile anche sull’altro versante del fronte, dove le possibilità che vengano abbattuti dal fuoco amico sono forse ancora più numerose. Solo negli ultimi mesi, infatti – sempre secondo “Assembly” – i casi di comandanti moscoviti fatti fuori dai propri soldati sarebbero stati almeno tre. L’ultimo episodio risale al maggio scorso, quando i militari dell’unità 52892 dell’esercito di Putin, «portati alla follia» dagli sfiancanti turni di guardia, hanno deciso di aprire il fuoco contro il proprio capo-brigata, ammazzandolo sul colpo. Perché i fucili – come sostengono i writer di Kharkiv – bisogna saperli puntare nella direzione giusta.

Da Fanpage – La giustizia, scriveva la teorica femminista statunitense bell hooks, non è né violenza né retribuzione, ma integrità: è «avere un universo morale, non è sapere soltanto cos’è giusto o sbagliato, ma mettere le cose in prospettiva, soppesarle». Questo universo morale, nel luogo in cui la giustizia si manifesta nella sua forma più istituzionale, viene ridotto a due possibilità: una assoluzione o una condanna. Ma spesso nessuna di queste due possibilità riesce a farci sentire che “giustizia è stata fatta”.

Filippo Turetta è stato condannato in primo grado all’ergastolo per omicidio volontario per aver ucciso la sua ex fidanzata Giulia Cecchettin l’11 novembre del 2023. Anche se gli è stato dato il massimo della pena, i giudici hanno riconosciuto l’aggravante della premeditazione ma non quelle della crudeltà e degli atti persecutori. Questo nonostante la perizia abbia stabilito che Cecchettin è stata uccisa con 75 coltellate e nonostante in aula siano stati letti i messaggi che Turetta le inviava in continuazione, in cui pretendeva di essere aggiornato su ogni momento della sua vita.

Ma non è tanto il mancato riconoscimento delle aggravanti, che è stato definito dall’avvocato di parte civile per Elena Cecchettin “un passo indietro”, a non riuscire a dare alla conclusione del processo un vero senso di giustizia, bensì il concetto che ha espresso Gino Cecchettin dopo la lettura della sentenza: «Abbiamo perso tutti come società. Nessuno mi ridarà indietro Giulia, non sono né più sollevato né più triste rispetto a ieri. È chiaro che è stata fatta giustizia, ma dovremmo fare di più come esseri umani, la violenza di genere va combattuta con la prevenzione, non con le pene. Come essere umano mi sento sconfitto, come papà non è cambiato niente rispetto a ieri o a un anno fa». Parole che ricordano quelle pronunciate solo pochi giorni fa da Chiara, la sorella di Giulia Tramontano, uccisa dal compagno Alessandro Impagnatiello, anche lui condannato all’ergastolo il 25 novembre scorso: «Nessuna donna ha vinto in quest’aula: oggi è arrivato l’ergastolo, ma dopo la morte».

Come ha ricordato in tante occasioni lo stesso Gino, la violenza di genere non riguarda solo due individui, chi ha ucciso e chi è stata uccisa. Tante altre cose sarebbero potute succedere senza che un tribunale dovesse arrivare a pronunciare una sentenza per omicidio: una richiesta di aiuto, un percorso terapeutico, una denuncia, magari un corso di educazione affettiva. Queste mancanze sono responsabilità di tutta la società, dalla famiglia alla scuola, passando per la cultura in cui tutti e tutte siamo immersi e il fallimento non può che essere collettivo. Il padre di Giulia lo ha riconosciuto subito, tanto da dedicarvi l’orazione al funerale della figlia: anziché chiedere una pena esemplare, anziché attribuire colpe, ha chiesto cosa possiamo fare come società per essere migliori.

E proprio perché la violenza di genere e il femminicidio in particolare sono così radicati in un tessuto culturale che normalizza, se non addirittura celebra, la cultura del dominio e della violenza, è logico che non può essere la cultura del dominio e della violenza a porvi rimedio. La punizione severa, allontanando “il mostro” dalla collettività, ci può dare l’illusione che il problema sia risolto, anche se evidentemente non è così: dal 2009 a oggi le pene previste per i reati di genere, dai maltrattamenti in famiglia all’introduzione dell’aggravante del femminicidio (inteso come omicidio di una persona con cui si ha o si è avuta una relazione affettiva, indipendentemente dal genere), sono state aumentate più volte. Da quando è stato introdotto il reato di stalking si è passati dalle 169 condanne del 2009 alle 2.402 del 2018, sebbene ci siano stati ben quattro interventi del legislatore per incrementare le pene previste per questo reato. Secondo l’Istat sono 2 milioni 229mila le donne ad aver subito atti persecutori almeno una volta nella vita da un uomo, di cui 2 milioni 151mila da parte di un ex partner.

Il processo ha dimostrato che Turetta aveva ben chiaro cosa stava facendo, così come aveva ben chiaro che sarebbe stato punito severamente se scoperto, tanto da aver architettato in modo dettagliato un piano di fuga. La prospettiva di passare il resto della sua vita in carcere non lo ha fatto desistere dall’uccidere Giulia Cecchettin; lo ha soltanto spronato a scappare in Germania.

Non sarà questa sentenza, di cui non conosciamo ancora le motivazioni e che non sappiamo ancora se verrà impugnata, a fare giustizia. Sarà fatta giustizia solo quando sarà ricucito quell’universo morale di cui parlava bell hooks: quando sapremo non solo che il femminicidio è sbagliato (lo sappiamo già), ma quando non dovremo più arrivare a pronunciare una sentenza simile. E per farlo, come ha detto Gino, abbiamo bisogno di prevenzione, non di pene.

Da GenovaToday – «Non dico di essere sollevata, ma non mi importa neanche tanto, il punto non è punire il singolo, se avessi voluto punire il singolo mi sarei mossa in altre direzioni». Così Francesca Ghio commenta l’eventuale e probabile archiviazione dell’inchiesta da parte della procura di Genova. La consigliera comunale che ha denunciato in aula consiliare di avere subito uno stupro a dodici anni, ieri è stata ospite del programma condotto da Massimo Gramellini “In altre parole”, su La7, dove ha raccontato la sua storia, ma soprattutto l’importanza del gesto politico che l’ha portata a parlarne in pubblico.

«Quel testo – ha detto riferendosi al testo letto in aula – l’ho scritto la mattina sapendo che in consiglio comunale ci sarebbe stato un documento che avrebbe parlato di violenza di genere. Mi sono accorta che tutti i discorsi che vengono fatti nelle aule, e nel mio caso nell’aula consiliare del Comune di Genova, sono discorsi vuoti e pieni di apatia. Portare un pezzo di me, metterlo al centro della sala, è stato per me un atto politico. Riportare quel dolore come responsabilità delle istituzioni. L’ho fatto per le figlie e i figli di tutti, è stato difficile. Avevo bisogno di togliermi dalla mia esperienza per non emozionarmi, non è stato semplicissimo frantumarmi davanti a tutti. Un mio amico che ha esperienza nel teatro mi ha detto: “Vai decisa fino in fondo, leggi bene e fatti capire”».

Com’è noto, dopo l’intervento di Ghio non c’è stata una reazione immediata da parte del consiglio comunale, ma lei racconta di non esserne stupita: «Forse lo eravate voi, ma per me era la normalità. È il silenzio che fa sì che le istituzioni non abbiano nessun peso risolutivo sulla realtà». Poi: «Mi rendo conto della forza comunicativa, da giorni ricevo centinaia di messaggi, ma la mia è una delle tante storie».

Tra i messaggi e le telefonate c’è anche quella di Giorgia Meloni: «Prendevo una tisana con mia mamma, ho ricevuto una chiamata da un numero sconosciuto, poi un messaggio, ho richiamato e mi è stato passato il telefono: “Pronto, sono Giorgia Meloni”. Ero molto stanca, alienata, ma ho scelto di non sottomettermi alla strumentalizzazione, ringrazio per la vicinanza che però non posso accettare da chi ha la responsabilità istituzionale di risolvere i problemi. Non ho mollato il punto sul ribadire l’importanza di non scaricare la responsabilità sul singolo, ma capire che se abbiamo problemi il primo passo è guardarli negli occhi, deresponsabilizzare non risolve i problemi».

«Lei – continua – rispondeva in romanaccio, come poteva. Diceva che sta facendo tanto per quello che ha la possibilità di fare, ma se siamo a questo punto la responsabilità è di tutti, non accetto la strumentalizzazione del dolore della mia storia».

Ghio ha dribblato la domanda di Gramellini su cosa provi per il suo stupratore: «I miei sentimenti personali non sono il punto della questione, la mia scelta è stata portare la mia storia nelle istituzioni perché la soluzione deve arrivare da lì, non possiamo chiedere soluzione ai centri antiviolenza o alle famiglie».

Centri antiviolenza che, come ha ricordato Fiorella Mannoia, presidente onoraria del centro Una Nessuna Centomila e anche lei ospite di Gramellini, soffrono per il precariato: «Le operatrici sono precarie. Non sanno se riusciranno a prendere lo stipendio il mese dopo. Sono eccellenze nei loro campi, avvocate, psicologhe, in parte volontarie e in parte abbandonano perché non hanno uno stipendio. Lo vogliamo mettere in finanziaria questo come problema?».

«Avrei accettato una consapevolezza del problema. – ha aggiunto Ghio – L’educazione sessuo-affettiva e sul consenso nelle scuole non solo è la prima cosa da cui dobbiamo partire, è un investimento per tutti, ci dobbiamo trovare tutti d’accordo, mettere strumenti in mano ai bambini vuol dire evitare carnefice e vittima. Siamo immersi nella violenza e non se ne esce. Il primo passo politico è applicare in Italia modelli che già esistono, per portare ai nostri bambini la speranza che nel futuro questo modello di violenza non si debba replicare. Alla presidente del consiglio ho chiesto di ricordarsi che siamo tutti fratelli e sorelle in questo pianeta. Continuare a dividerci è tragico al punto della storia in cui siamo, noi che ci candidiamo ad amministrare abbiamo il dovere morale nei confronti della collettività di fare meglio. Sapere che siamo rappresentati da persone che non riescono ad assumersi la responsabilità e si dichiarano intimamente contenti se qualcuno soffre ci dimostra che siamo a un punto agghiacciante».

«Ho un’enorme speranza per la mia generazione, voglio lavorare, continuare a impegnarmi non per mia figlia, ma per tutti i figli di tutti», ha concluso la consigliera.

Da Il Fatto Quotidiano – «Mi è sembrato evidentemente inopportuno invitare a una fiera dedicata a Giulia Cecchettin un uomo (confesso che non sapevo manco chi fosse…) accusato di violenza ai danni della sua compagna. Mi è sembrato sbagliato invocare il garantismo (che pure è un tema che mi sta molto a cuore in questo tempo di barbarie) per troncare una discussione sulla violenza di genere, senza problematizzare il calvario che tante donne incontrano nel denunciare gli abusi, la difficoltà di essere credute, di vedere riconosciuta la propria verità. Una discussione complessa che afferisce più alla cultura che alle procedure penali». Con una lunga riflessione, pubblicata attraverso una serie di storie Instagram, il disegnatore Michele Rech, in arte Zerocalcare, annuncia di aver annullato l’incontro previsto il 6 dicembre a Più libri più liberi, la fiera della piccola e media editoria di Roma, a cui avrebbe dovuto partecipare insieme alla scrittrice Chiara Valerio, curatrice della manifestazione. Il motivo sta nella scelta di Valerio di invitare alla fiera, dedicata quest’anno alla memoria di Giulia Cecchettin (la ventiduenne veneta uccisa dall’ex fidanzato a novembre 2023) lo scrittore e opinionista Leonardo Caffo, imputato a Milano per maltrattamenti e lesioni ai danni dell’ex compagna (a ottobre il pm ha chiesto quattro anni e mezzo di reclusione).

Dopo una valanga di polemiche Caffo ha ritirato la partecipazione. Valerio, però, ha difeso in un primo momento la scelta di invitarlo, appellandosi alla presunzione d’innocenza e annunciando di voler presentare lei stessa il suo libro sull’anarchia. Solo in seguito l’organizzazione della kermesse ha diffuso un messaggio di scuse, comunicando che la sala destinata alla presentazione sarebbe stata messa a disposizione della «discussione contro la violenza di genere».

«Credo che tutto, compresi i video, le comparsate televisive, letteralmente tutto almeno fino all’ultimo messaggio di scuse sia stato sbagliato; per come conosco Chiara Valerio, ci credo che sia mossa da fedeltà a un principio e non da altro; ma quando quello che facciamo si presta a così tante strumentalizzazioni, quando diventiamo utili agli articoli della Verità, quando i nostri nemici ci prendono a simbolo, è il momento di fermarci a riflettere pure se siamo in buona fede», scrive Zerocalcare. E definisce l’incontro «oggettivamente impossibile da tenere» perché, scrive, «mi pare impossibile glissare su questo tema e parlare d’editoria come se niente fosse; e al tempo stesso mi pare grottesco pensare che un maschio tenga un incontro in cui spiega a una donna come avrebbe dovuto comportarsi in termini di femminismo». Anche se non parteciperà all’incontro, Zerocalcare sarà presente in fiera presso lo stand della sua casa editrice, Bao Publishing, per i firmacopie.

Dal Corriere della Sera – «La violenza sulle donne è in aumento, anche il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, ha detto che siamo ai livelli di una pandemia». Reem Alsalem, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze, parla con il Corriere della Sera alla vigilia dell’incontro “Violenza contro le donne e prostituzione: quale relazione?”, organizzato il 23 novembre a Milano dalla Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate e Resistenza Femminista, in collaborazione con Anteo e lo storico quotidiano milanese. Lo fa tenendo il punto su argomenti scottanti come la pornografia che considera «una forma di prostituzione cinematografica» e gli sport femminili che, afferma con convinzione, «devono essere riservati solo alle donne». Alsalem individua nel patriarcato «una delle maggiori cause della violenza contro le donne, degli abusi e del desiderio di dominare». Un sistema, dice, «che danneggia anche gli uomini, perché si aspetta che aderiscano ai modelli di mascolinità aggressivi, dominanti e violenti che vengono loro proposti». E spera di portare l’attuale governo dell’Afghanistan davanti alla Corte Internazionale di Giustizia: «Incriminare i talebani per aver violato i propri obblighi nei confronti delle proprie donne ai sensi del diritto internazionale avrebbe un forte potere simbolico».

La violenza contro le donne è in costante aumento in tutto il mondo, secondo lei cosa possiamo fare per fermarla?

«I dati che abbiamo dipingono un quadro molto allarmante. Oltre alle forme tradizionali di violenza, ne esistono di nuove che si generano grazie alla tecnologia digitale, penso ai deepfake [montaggi di immagini realizzati con l’intelligenza artificiale, Ndr] e alla crescente commercializzazione e mercificazione delle donne, delle loro capacità riproduttive e sessuali, come è il caso della prostituzione e della maternità surrogata. Per combattere la violenza sappiamo quello che dobbiamo fare, gli Stati hanno leggi chiare in proposito così come il diritto internazionale. Quello che serve è l’impegno politico. Le autorità devono dare priorità a questo problema e dire: “Faremo in modo che metà della nostra società sia al sicuro, sia trattata con pari dignità”».

E perché non c’è quest’impegno?

«Per attuare le leggi servono risorse e il mio timore è che in un periodo di austerità, anche in Europa, dove i servizi e l’attenzione per i più vulnerabili e per coloro che sono più a rischio vengono tagliati o declassati, temo che non vengano stanziati fondi e risorse sufficienti allo scopo. È davvero importante continuare a finanziare e sostenere le organizzazioni di difensori dei diritti umani e coinvolgerli in modo davvero significativo. Un’altra cosa che mi preoccupa è che parliamo molto della necessità di far partecipare le donne a tutti i processi che le riguardano, ma quando le donne dicono qualcosa che non piace ai governi o che non corrisponde alle loro priorità, le loro voci vengono messe da parte e questo accade ovunque nel mondo. Anche in Occidente le organizzazioni femminili vengono messe da parte, le voci delle donne vengono eclissate, le donne vengono vilipese e questo ovviamente va contro i principi dei diritti umani. Poi ci sono le guerre. Sappiamo che la violenza sessuale contro donne e ragazze nei conflitti è stata usata come strumento di guerra, ed è un problema preoccupante e allarmante, ma direi che, con l’accresciuta eradicazione della credibilità dell’ordine basato sul diritto internazionale e del rispetto del diritto internazionale e del diritto umanitario e delle leggi sui conflitti armati, stiamo assistendo anche a un’erosione della protezione di donne e ragazze contro tale violenza nei conflitti».

In un rapporto lei ha definito la prostituzione un sistema di violenza contro le donne e le ragazze. Qual è il modello migliore per porvi fine?

«È molto importante pensare all’immenso danno che viene inflitto alle donne nella prostituzione, inclusa la sofferenza psicologica, un trauma che può anche causare la dissociazione delle vittime e persino lo sviluppo di una relazione di dipendenza e attaccamento agli aggressori. Il modo miglior per affrontare questo sistema di violenza è il modello nordico o abolizionista, che si propone di sradicare la prostituzione ponendo alcuni punti fermi. Prima di tutto le donne nella prostituzione vanno considerate vittime e sopravvissute alla violenza. Quindi se le forze dell’ordine si imbattono in una donna nella prostituzione, lei non dovrebbe essere punita, criminalizzata, giudicata, vilipesa. In secondo luogo va affrontata la questione della domanda, che è al centro di questo sistema di sfruttamento. L’unico attore che ha davvero la possibilità di scegliere è l’acquirente: ogni volta che esce per acquistare un atto sessuale prende una decisione consapevole e ha la libertà di dire di no. E quindi dobbiamo iniziare a rendere più difficile e più inaccettabile, sia socialmente che legalmente, per uomini e ragazzi comprare corpi di donne. La domanda va criminalizzata, comminando multe considerevoli o condanne penali. E questo è cruciale perché finché non diventerà più difficile e punibile per gli uomini acquistare atti sessuali, non saremo mai in grado di affrontare davvero questo problema. La terza cosa è offrire strategie di uscita. Le donne nella prostituzione devono avere accesso a un supporto immediato alle cure per affrontare le conseguenze della prostituzione sui loro corpi e sulle loro menti, a un alloggio, a percorsi di formazione per ricominciare la loro vita in una situazione di sicurezza, dignità e protezione».

Lei ha chiesto che un test obbligatorio sul sesso venga introdotto negli eventi sportivi. Alle ultime Olimpiadi, però, ci si basava solo sul sesso presente sul passaporto. Come pensa di raggiungere questo obiettivo? Qual è la sua posizione sul caso di Imane Khelif?

«Sono stata chiara su questo. Il responsabile di ciò che è successo alle Olimpiadi di Parigi è il Comitato Olimpico. Il Cio deve proteggere gli sport femminili limitandone l’accesso alle donne. Non ci si può basare sul passaporto perché si sa che un certo numero di Paesi metteranno l’identità di genere della persona che può non corrispondere con il sesso biologico. Spero che il Cio abbia imparato la lezione da quello che è successo a Parigi e dal fatto che le giocatrici sono state messe in pericolo ed esposte ad attacchi. I test sul sesso erano stati scoraggiati negli anni ’80 perché erano invasivi e usati solo su certi gruppi di persone ma oggi sono economici ed efficienti oltre ad essere assolutamente necessari per determinare il sesso biologico di un partecipante. È quello che chiedono le atlete e noi dobbiamo ascoltarle».

In uno dei suoi ultimi rapporti al Consiglio per i diritti umani ha sottolineato il tremendo danno che la pornografia crea alle società e i chiari legami che ha con l’aumento e il mantenimento della violenza contro le donne. Come è possibile che la Commissione Europea abbia inviato un relatore al Pornfilmfestival di Berlino? E cosa si può fare per combattere l’industria del porno?

«Nel mio rapporto sulla prostituzione e la violenza contro le donne e le ragazze parlo della pornografia come prostituzione cinematografica. È un fenomeno che produce danni duraturi sulla parità di genere e anche sulla salute mentale e fisica di tutti, compresi adolescenti, ragazzi e ragazze, bambini e bambine. La mia raccomandazione finale è che la pornografia sia messa fuori legge. Nel frattempo dovremmo limitarne la visione ai maggiorenni e rafforzare i metodi di verifica dell’età. Ci vogliono norme serve per chi possiede, promuove o dà spazio a materiale che promuove la violenza. Quanto alla Commissione Europea, penso che sia giunto il momento che gli Stati smettano di trattare i produttori di pornografia e coloro che ospitano pornografia sui loro siti web come imprese senza responsabilità. Devono esserci delle conseguenze. Devono essere chiusi i siti se non rispettano le norme e i regolamenti. Mi preoccupa che la Commissione Europea abbia inviato un relatore al festival del porno perché dà l’impressione che tolleri gli aspetti dannosi e negativi di quell’industria».

In Iraq, Iran e Afghanistan, per citare alcuni Paesi, le donne sono sempre più messe in un angolo, i loro diritti cancellati. Sembra che la reazione delle Nazioni Unite non sia così netta soprattutto nel caso dei talebani a Kabul. Perché?

«Il problema della violenza contro le donne e le ragazze o la regressione nei diritti delle donne non è limitato a certi paesi o a una certa regione perché questa è una pandemia a livello globale. Certo ci sono Paesi che hanno fatto enormi progressi ma tutti devono affrontare questo problema. Se guardiamo all’Iran e all’Iraq, le donne e le ragazze godono ancora di diritti in una serie di aree importanti. Allo stesso tempo in Iraq c’è una bozza di legge per legalizzare il matrimonio delle bambine ma sta incontrando una feroce opposizione da parte di molte parti della società, di donne e di organizzazioni della società civili. Faccio notare che il matrimonio infantile esiste in una serie di Paesi tra cui 37 Stati americani. Quindi è qualcosa su cui dobbiamo lavorare. In una sorta di categoria a sé stante è l’Afghanistan, dove abbiamo assistito alla cancellazione più grave dei diritti delle donne nella vita pubblica e privata. Ma ancora una volta questa regressione non riflette le opinioni o le posizioni della società afghana ma di un gruppo armato che è salito al potere e ne sta abusando».

Non pensa che qualsiasi negoziato con i talebani, a qualunque tavolo, debba essere escluso finché loro non ammettono le donne nelle loro delegazioni? Come si può avere un dialogo o riconoscere l’autorità di queste persone?

«Ovvio che debbano esserci delle conseguenze per il modo in cui i talebani trattano le donne e le ragazze. Dobbiamo esplorare tutte le strade per ritenerli responsabili di ciò. E per questo sostengo l’iniziativa di quei Paesi che vogliono portare i talebani davanti alla Corte internazionale di giustizia. Perché l’Afghanistan è firmatario, ad esempio, della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Incriminare i talebani per aver violato i propri obblighi nei confronti delle proprie donne ai sensi del diritto internazionale avrebbe un forte potere simbolico. Ho anche, tra l’altro, sostenuto il fatto che dobbiamo rendere più difficile per l’Afghanistan normalizzare questo tipo di esclusione, repressione e discriminazione in campo culturale. Per esempio non far partecipare alle competizioni internazionali le squadre sportive maschili dell’Afghanistan, in qualsiasi disciplina, finché alle donne non sarà permesso di partecipare agli sport. Il discorso è diverso in campo umanitario perché la popolazione ha bisogno di assistenza. Ed è sottinteso che per promuovere i diritti umani e l’accesso all’assistenza umanitaria bisogna interfacciarsi con i poteri che hanno il controllo. E questo non significa dar loro un riconoscimento. Questo è quello che ha fatto l’Onu e che ho fatto anch’io, che sono andata in Afghanistan sei mesi dopo la presa del potere dei talebani. Ho anche chiesto all’OIC, l’Organizzazione della Conferenza Islamica, di essere più severa e più esplicita nel comunicare ai talebani che non possono nascondersi dietro l’Islam o la loro interpretazione dell’Islam. L’Islam non tollera, non supporta questo trattamento esclusivo, discriminatorio e invisibilizzante delle donne. Non dobbiamo far sì che il trattamento delle afgane venga normalizzato altrove, come stanno per esempio provando a fare gli Houthi in Yemen».

Contro le madri viene spesso usata nei tribunali la sindrome di alienazione parentale, che non ha basi scientifiche. Quali armi abbiamo contro questo fenomeno?

«Nel mio rapporto sulla custodia dei figli e la violenza contro le donne e le ragazze, che ho presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite lo scorso anno, ho formulato una raccomandazione molto forte: dobbiamo mettere al bando l’uso di questo concetto, l’alienazione parentale. Innanzitutto non è un concetto scientifico, è uno pseudo-concetto. In secondo luogo viene utilizzata nei procedimenti giudiziari come un’arma contro le donne dagli autori di violenza che, odio dirlo, sono soprattutto uomini, per distrarre l’attenzione dai loro misfatti. La usano come forma di punizione. Dobbiamo togliere dalla scena questo concetto e prestare attenzione alle storie di violenza precedenti nella famiglia».

In Italia è stata appena introdotta una legge contro la maternità surrogata che punisce le coppie che vanno all’estero per accedere alla pratica. Qual è il suo punto di vista?

«Penso in generale che la pratica rappresenti la mercificazione della donna da un punto di vista riproduttivo e sessuale. Non posso però dare una posizione precisa sulle leggi in proposito perché non rientra nel mio mandato. Tuttavia ho inviato una lettera al governo della Grecia sulla mancanza di garanzie per prevenire lo sfruttamento delle donne, ma anche perché garantisca il miglior interesse del bambino nella sua legge sulla maternità surrogata. Ho intenzione, in futuro, di concentrarmi su questo. Nel frattempo accolgo con favore gli sforzi degli Stati che si battono contro lo sfruttamento».

Le faccio una domanda provocatoria: visto che sono gli uomini i maggiori responsabili dei comportamenti antisociali e violenti, oltreché delle guerre, non sarebbe ora che facessero un passo indietro e cedessero il passo alle donne? Come sarebbe un mondo in cui il potere è in mano alle donne?

«Penso che la causa della violenza contro le donne, degli abusi e del desiderio di dominare sia il patriarcato. E penso anche che il patriarcato danneggi anche gli uomini, perché si aspetta che aderiscano ai modelli di mascolinità aggressivi, dominanti e violenti che vengono loro proposti. Quindi, in realtà, credo che anche gli uomini e i ragazzi siano vittime ma in un modo diverso, perché se non aderiscano a questi modelli soffrono anche loro. E penso, ad esempio, che la pornografia danneggi anche chi la usa. Provoca disfunzioni sessuali, distrugge le famiglie. Ma, naturalmente, sono le donne e le ragazze a soffrire di più perché sono oggetto di questa dominazione. Ed è sicuramente vero che se coinvolgiamo le donne e le ragazze nella costruzione della pace, nella risoluzione dei conflitti, le possibilità di successo saranno maggiori. I dati dimostrano anche che si ridurrebbe la probabilità di una guerra».

Da Marea

Nel 2017 la rivista Marea ha inaugurato, su proposta di Rossana Piredda, una nuova e originale serie di numeri speciali, “Grazie a lei”. Un esperimento ben riuscito che ha contribuito a preservare la memoria del femminismo, offrendo uno spazio alle autrici per celebrare le donne che le hanno ispirate. Attraverso i loro racconti personali, abbiamo potuto conoscere donne che hanno lasciato un’impronta indelebile nella loro vita e nella società, infondendo forza e autorevolezza. Otto numeri speciali, 76 storie nate dalla gioia della riconoscenza, che rendono omaggio a donne che ci hanno precedute o ancora in vita. Un invito a ringraziarle per il loro contributo, mantenendo viva la loro eredità.

Quante donne dovrei ringraziare per essere quella che sono? Una donna che ama la vita e accetta di attraversarla nella sua complessità.

Primo fra tutti un grazie va a mia madre, Giuseppina Operti, che mi ha messo al mondo a venticinque anni. Desiderava tanto una femmina e sono arrivata io. Negli ultimi anni della sua vita, lasciandosi alle spalle i tratti un po’ severi e riservati della sua piemontesità, mi ha rivelato: «Quando la levatrice ti ha messo tra le mie braccia mi sembrava di sognare!». In quel momento ho percepito quale fosse l’origine del mio amore per me stessa, della mia preferenza per l’amicizia femminile, della fiducia e ammirazione che nutrivo per le maestre. Quando ogni cellula del tuo corpo sprigiona il desiderio e la gioia di tua madre per averti generato, le fate madrine depongono quel brillio nello scrigno del tuo essere, la stanza segreta che è dentro ognuna di noi. E così porto in me una sorgente di desiderio e di amore che illumina i miei passi, orientandomi principalmente verso il mondo delle donne con gratitudine.

Nel femminismo ho ritrovato questo sentimento di valore, ammirazione e fiducia, molto diverso dal fascino provato in gioventù per gli uomini che mi seducevano mettendomi in scacco, come una replicante di mondi estranei oppure silente e alienata in un limbo d’inconsistenza.

Se penso alle donne della mia vita si fa avanti un corteo in cui sfilano, al seguito di mia madre, le nonne e le zie che mi hanno coccolato da bambina, le mie maestre di scuola. E poi Anna Garelli, Pinuccia Corrias, Elena Fogarolo, Aida Ribero, Adriana Sbrogiò che mi hanno introdotto alle pratiche del femminismo fin dagli anni Ottanta; Luisa Muraro che mi ha insegnato l’autorità femminile nell’agire politico; le tante donne dei Gruppi donne delle Comunità cristiane di base e le molte altre con cui ho condiviso il percorso di ricerca di un divino leggero, liberato dalle gabbie patriarcali; le mie migliori amiche Grazia Villa e Carla Galetto, sorelle d’anima; Maura e Simona le mie sorelle di sangue e la bella matrioska creata con le mie figlie Valeria e Francesca da cui è nata Virginia, l’ultima arrivata. Ma in questa occasione desidero dedicare il mio “grazie a lei” alla donna che in ordine di tempo e solo momentaneamente chiude il corteo: Luciana Tavernini.

L’ho incontrata la prima volta l’8 giugno 2014 durante la redazione allargata di Via Dogana, storica rivista della Libreria delle donne di Milano. Carla Galetto e io eravamo state invitate dalla filosofa Luisa Muraro a raccontare la nostra storia nei Gruppi donne delle Comunità cristiane di base, in quelli che non sapevamo ancora sarebbero stati gli ultimi due numeri della rivista nella sua forma cartacea. La redazione si teneva di domenica mattina mentre il sabato sera era dedicato agli incontri in libreria. In quell’occasione tra le donne presenti, per noi ancora in gran parte sconosciute, si fece avanti Luciana, determinata, sguardo attento e concentrato, molto diretta che, con gentilezza, andò subito al sodo: «Ho una casa molto spaziosa e ora che mia madre non c’è più e i figli hanno preso la loro strada, se le prossime volte volete venire il sabato, potete dormire da me». Aveva pronunciato quelle parole con la naturalezza di chi mantiene salda la dimensione umana dell’ospitalità. Ma c’era qualcosa di più. Questa prima mossa di Luciana mi ha toccata a un livello profondo. Esprimeva un grande amore per la pratica politica delle relazioni tra donne, il desiderio di generare insieme qualcosa di bello e di grande e la consapevolezza che il pensiero trae energia dal fare insieme. Perché questo accadesse, sapeva creare agio attraverso la concreta cura dei corpi, degli spazi e dei tempi necessari per l’incontro, mostrando sapienza nell’arte di tessere relazioni.

Non la conoscevo ancora, anche se avevo letto alcuni suoi interventi nelle pubblicazioni dell’associazione Melusine, di cui aveva fatto parte negli anni ’90, e in quelle della Pedagogia della differenza a cui aveva partecipato fin dall’inizio, della Comunità di pratica e riflessione pedagogica e ricerca storica, confluita nella Comunità di storia vivente. Scriveva su alcune riviste come Via Dogana, Duoda, Legendaria e con Marina Santini aveva pubblicato Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova 2015), una narrazione storica e dialogica del femminismo intrecciata a 58 testimonianze delle protagoniste dei fatti narrati e a un centinaio di fotografie.

Ho capito, leggendo il suo primo racconto di storia vivente, Gli oscuri grumi del disordine simbolico (La pratica della storia vivente DWF n. 3, 2012, pp. 35-45), da dove venisse la sua munificenza. Come lei scrive è «la capacità di capire cosa far circolare in un’abbondanza sotterranea che lega le vite e le rende degne di essere vissute». È un’eredità ricevuta dalla sua genealogia materna. Sua nonna e sua madre che, nonostante le ristrettezze economiche, «avevano sempre qualcosa da offrire a chiunque passasse da casa» e sapevano anche vedere le situazioni difficili inventando modi per «tendere la mano senza farsi travolgere e riuscendo a riportare a galla chi stava per essere sommerso». Anche Luciana sa donare ciò che è necessario e offrirlo generosamente, non per aver qualcosa in cambio ma per nutrire e far crescere «in una circolarità di attenzione, di gratuità e di parola».

L’occasione per iniziare a fare amicizia si presentò più avanti quando Carla Galetto e io le rivolgemmo una richiesta specifica. Nel Collegamento dei gruppi donne delle Comunità cristiane di base italiane e delle molte altre era nata l’esigenza di raccontare il nostro percorso trentennale fatto di ricerca teologica, politica, riappropriazione di espressioni liturgiche, coinvolgimento dei corpi, avendo come punto fermo la coscienza dell’essere sessuate e il partire da sé. Volevamo raccontare l’intreccio tra la storia personale di ciascuna nel proprio contesto e l’eccezionale esperienza comune nata da quelle singole storie.

Alcune di noi avevano sentito vicina alla propria ricerca la pratica sperimentata dalla Comunità di storia vivente di Milano, nata da un’invenzione di Marirì Martinengo. Una pratica di donne in relazione che si erano autorizzate a narrare la storia, partendo dal loro sentire profondo per indagare nella loro vita i nodi che non avevano ancora trovato parole corrispondenti alla propria verità soggettiva e rendere così visibile nel mondo l’esperienza femminile. Luciana era una delle iniziatrici di questa esperienza. Accettò subito la nostra richiesta e iniziò con noi un proficuo confronto, sfociato in un incontro alla Libreria delle donne di Milano tra una parte del Collegamento donne CDB e le molte altre e la Comunità di storia vivente di Milano, e successivamente nella nascita della nostra Comunità di storia vivente in faccia al Monviso. Ci ha accompagnate mentre muovevamo i primi passi, assicurandoci con Marina Santini una presenza costante.

Ho ancora in mente i mantra delle sue esortazioni, delle sue domande incalzanti per approfondire i nostri racconti. «Non stare in un recinto! Tieni sempre tutto aperto finché arrivi a un nucleo. Domandati se ciò che fai è un atto di libertà o ti incatena. Quanto gioca il voler essere perfetta e rassicurante? Dove va la libertà femminile? Dove è il tuo godimento? Ciò che fai non diventa in qualche modo un rafforzamento del patriarcato? Stai ai limiti che ti vengono imposti o li forzi?»

Per Luciana districare i nodi del nostro vissuto significa liberare soggettività femminile e mostrare altre possibilità di leggere il mondo. In questo impegno di creare simbolico femminile inventava pratiche in cui far circolare in abbondanza la valorizzazione di ciascuna e far nascere scoperte impreviste, rendendo vive le pratiche politiche del femminismo.

Uno dei doni racchiusi nel mio scrigno segreto è lo stupore che provo di fronte alla bellezza e alla grazia che mi vengono incontro nel presente, nel qui e ora. La “meraviglia” che genera gratitudine e fiducia, dando origine a potenti alchimie relazionali.

Così è nato il mio desiderio di affidarmi a lei per un pezzo di strada.

Con Luciana ho sperimentato la “pratica di scrittura relazionale generativa”, come lei la nomina, una pratica in cui una donna elabora il suo scritto in una relazione duale con un’altra a cui riconosce autorità che l’aiuta a chiarire il suo pensiero e dargli forma. «Una relazione simile a quella della partoriente e della levatrice, che permette di dare alla luce qualcosa di nuovo per entrambe». Una pratica che non crea dipendenza ma crescita e libertà.

Tra noi due ci sono stati incontri, anche virtuali, mail, lunghe telefonate, in un confronto serrato sui miei testi da lei discussi e rivisti più e più volte e da me riscritti più e più volte, e un coinvolgimento in azioni pubbliche su temi politici condivisi, per esempio l’abolizione della prostituzione, raccontata dalle sopravvissute al mercato del sesso, come stupro a pagamento.

Le sue parole, i suoi pensieri mi hanno aperto spazi inediti, mi hanno dato fiducia. Con lei ho imparato che è importante andare oltre il linguaggio ideologico, che può essere anche femminista, cercando parole più chiare per dire ciò che illumina la mia esperienza; ho approfondito il valore simbolico del linguaggio e l’effetto liberante che possono avere le parole quando riesco a esprimere pubblicamente la mia verità.

Per tutto questo desidero ringraziarla.

Cara Luciana, mi hai aiutato a ritrovare le parole in lingua materna, che volano alto restando ancorate all’esperienza concreta. Sono ammirata dalla tua generosità, dall’efficacia del tuo fare che realizza idee e progetti, trovando però sempre il tempo e il modo per far crescere le relazioni. Più passa il tempo e più la nostra amicizia mi appare come un dono prezioso.

Da la Repubblica

Ha molte forme, può essere fisica, sessuale, psicologica, economica.

È trasversale ai territori, alle classi sociali, alle nazionalità e alle età. È la violenza con cui l’uomo esercita la volontà di possesso e di prevaricazione sulla donna. E non dipende solo dagli uomini che la praticano, ma anche dal contesto economico e sociale che la perpetua motu proprio da lungo tempo, durante il quale il dominio maschile si è articolato e stratificato e la discriminazione femminile non è stata sradicata. Il contesto socio-economico è rappresentato, innanzitutto, dal lavoro. La situazione di metà delle donne del nostro Paese che è senza lavoro (la peggiore in Europa) è grave. Perché significa che metà delle donne non è autonoma, non è indipendente economicamente.

E ciò rappresenta un vulnus, non solo perché è messo in discussione il diritto a un lavoro dignitoso, ma perché le donne, così, sono oggettivamente limitate nelle loro libertà. Provate a mettervi nei panni di queste donne che non lavorano. In molti casi sono obbligate a chiedere denaro al proprio partner, anche per il minimo indispensabile, non possono scegliere autonomamente come spenderlo, sono tenute sotto controllo o comunque devono giustificare, in una perenne condizione di subordinazione e dipendenza. Ciò crea un humus culturale in cui il controllo maschile sulle donne è di fatto legittimato e risulta assolutamente facilitato. E, se protratto nel tempo, cristallizza ruoli asimmetrici che favoriscono lo sviluppo di violenza nella coppia, o perlomeno l’enorme difficoltà delle donne a sottrarvisi.

La vulnerabilità socio-economica non solo espone maggiormente le donne al rischio di violenza domestica, ma ne limita anche la possibilità di allontanarsi e di rompere una storia tossica. È già difficile per una donna che dispone di reddito fare il passo di denunciare il partner violento, oppure di rivolgersi a un centro antiviolenza o a chiunque altro per chiedere aiuto. Solo il 15% delle vittime di femminicidio ha denunciato. La dipendenza economica può trasformarsi in un ostacolo insormontabile alla rottura di una relazione con un partner violento. Come ci si mantiene dopo averlo lasciato? Certo esiste un contributo economico da parte dello Stato ma l’importo è talmente basso che difficilmente può rappresentare una copertura adeguata.

La violenza contro le donne non si combatte solo con provvedimenti specifici sulla violenza. Una volta per tutte in questo Paese bisogna adottare una strategia globale che metta al centro le donne. Lo sviluppo della loro indipendenza economica, l’eliminazione dei gap e delle discriminazioni. Possibile che non si promuovano politiche per abbattere gli ostacoli alla valorizzazione delle risorse femminili, come recita l’articolo 3 della Costituzione? Possibile che si vada alla ricerca di diversivi sugli immigrati, come responsabili di violenze, e non si vedano le gravi emergenze sociali ed economiche che riguardano le donne e che determinano ruoli asimmetrici nel Paese? Abbiamo bisogno di una strategia globale per un lavoro dignitoso e di qualità per le donne, per una formazione non stereotipata, per lo sviluppo di servizi di cura e congedi parentali e di paternità adeguati, per l’abbattimento della cultura del possesso del corpo e dell’anima delle donne.

I piccoli passi e le mezze misure sono pannicelli caldi che mantengono immutata la condizione di diseguaglianza delle cittadine del nostro Paese e creano le condizioni dell’esercizio della violenza. Mai come oggi appare evidente come tale condizione sia non solo anacronistica, ma il principale ostacolo al pieno dispiegamento delle risorse umane e creative che blocca lo sviluppo

economico del Paese. Giochiamo una partita economica globale con le mani legate dietro la schiena, non potendo avvalerci appieno del fondamentale apporto femminile. C’è bisogno di un contrattacco da parte delle donne. Solo la forza e l’unità delle donne, la sorellanza, possono innescare il cambiamento epocale di cui c’è bisogno.

Da il manifesto – Alias

La singolare concezione dell’attività letteraria di Annie Ernaux è esplicitata fin dal titolo del breve e intenso La scrittura come un coltello (L’orma, pp. 168, € 18,00), raccolta di una serie di interviste realizzate via mail, e concesse da Ernaux a Frédéric-Yves Jeannet – scrittore messicano di origine francese – tra il 2002 e il 2003, nelle quali l’autrice si sofferma con analisi dettagliate e appassionanti sulle motivazioni che stanno dietro la sua opera: i due interlocutori si riconoscono molto distanti l’uno dall’altra, con punti di vista lontani, quasi opposti, che paradossalmente – riconosce Ernaux – hanno permesso una grande libertà di espressione in obbedienza a un «duplice mandato di sincerità e precisione».

L’approdo a se stessa

Con grande lucidità e chiarezza, l’autrice ripercorre le tappe della sua vita e della sua scrittura, legate tra loro indissolubilmente. La conquista della propria voce, dichiara la scrittrice francese, si compie nel 1983 con Il posto: «In quel libro ho inaugurato una postura di scrittura, che mantengo tuttora: un’esplorazione della realtà esterna o interna, dell’intimo e del sociale in un unico movimento che si colloca al di fuori della finzione».

La sua presa di coscienza politica, a partire dalla posizione di “transfuga” che approda a una classe sociale più agiata di quella d’origine, fa maturare via via in lei il desiderio di voler realizzare con la letteratura «non più qualcosa di bello, ma innanzitutto qualcosa di reale». Da qui, la sua «scrittura piatta» che in una rastremata economia verbale intende restituire una realtà personale e collettiva, «perché in fondo di universale non esiste nulla». È in questo senso che la sua scrittura si fa «coltello», vera e propria arma e «atto politico», in grado di operare uno «svelamento e un cambiamento del mondo». Scrivere è nella concezione di Ernaux l’intrapresa di un’esplorazione rischiosa, che deve muoversi sempre “tra”: tra la letteratura, e la sociologia, tra la sociologia e la storia, allo scopo di giungere a quella che la scrittrice chiama «transustanziazione», ossia una «trasformazione di ciò che avviene al vissuto, a “me”, in qualcosa che esiste completamente al di fuori della mia persona». Questo passaggio si può compiere proprio grazie a quella lama affilata, la scrittura, che, abbandonata la funzione di specchio dell’Io, si fa ricerca di una verità al di fuori di sé.

Tutt’altro che narcisistica, la prosa di Annie Ernaux si investe della missione di salvare dall’oblio persone e cose. Eppure questo salvataggio della memoria non è mai scindibile dalla funzione della letteratura come scoperta: «Se dovessi dare una definizione di ciò che è la scrittura, sarebbe questa: scoprire scrivendo quel che è impossibile scoprire in altro modo, attraverso le conversazioni, i viaggi, gli spettacoli eccetera. O anche solo attraverso la riflessione pura e semplice. Scoprire qualcosa che non esiste prima della scrittura. E questa è la gioia – e la paura – della scrittura: non sapere cosa farà ergere, cosa farà accadere».

La lunga intervista è seguita da un «Aggiornamento» scritto da Ernaux dieci anni dopo, in un contesto generale profondamente mutato, e vale come dimostrazione di quanto siano rimasti fedeli a se stessi i principi estetici della scrittrice normanna nel corso del tempo, pur nella varietà dei territori narrativi esplorati.

Impietosa precisione

In chiusura, una nota del traduttore e editore, Lorenzo Flabbi, ripercorre la storia dell’incontro con l’opera di Annie Ernaux e l’approdo all’Orma fin dall’anno della sua fondazione. Le sue note alla traduzione del primo testo pubblicato, Il posto, sono preziose proprio perché illustrano le difficoltà nel rendere la precisione della “scrittura piatta” di Annie Ernaux e ne fanno comprendere la particolarissima fisionomia: «L’esattezza… La sua impietosa precisione priva di fronzoli, uno stile inconfondibile e anche, proprio in virtù della sua ricercatissima semplicità, massimamente fraintendibile».

Da la Repubblica

Osservatele bene, queste donne. Sorridono quasi sempre, anche quando invocano la rabbia. Sfidano l’obiettivo guardando dritte in camera, a volte sembra che lo vogliano sbeffeggiare, caricate a mille da secoli di sottomissione. Sono diverse le une dalle altre, alte e slanciate, piccole e tarchiate, ricce e lisce, giovani e vecchie, borghesi e proletarie, non c’è una estetica comune se non l’esibita noncuranza con cui indossano gonnellone, ponchos e maglioni peruviani. Possono alzare la voce e picchiare sui tamburelli ma generalmente danno l’impressione di essere serene, anche orgogliose di sé stesse, capaci di suggerire ricette su qualsiasi cosa, «dalla poesia al pollo arrosto», come scrisse Lidia Menapace, «le mani affondate nell’impasto del mondo per farlo diverso e migliore». Guardatele bene queste ragazze degli anni Settanta perché tra un girotondo, un concerto, una manifestazione e centinaia di slogan hanno cambiato l’Italia, uniche rivoluzionarie in un Paese che non conosce rivoluzioni.

Bisogna sfogliare il bellissimo album “Covando un mondo nuovo. Viaggio tra le donne degli anni Settanta” per capire perché le ragazze di quella stagione non invecchiano mai. Oggi potranno pure essere vegliarde e piene di acciacchi, ma lo sguardo resta irriverente, la postura mai arresa, e integra negli occhi la luce di chi sa captare a distanza la coda violenta di un patriarcato che non muore.

A raccontarcele attraverso le immagini è una di loro, Paola Agosti, fotografa del movimento femminista negli anni più tumultuosi, figlia del partigiano Giorgio e pioniera in un terreno ancora monopolizzato dai maschi. E ad accompagnare questi scatti d’autrice con esemplari didascalie narrative è una ragazza che potrebbe essere loro figlia, Benedetta Tobagi, nata nello stesso anno in cui Paola fermava in una celebre foto-manifesto un gruppo di donne molto divertite nel lanciare in alto le loro mani in forma di rombo davanti ai poliziotti in assetto di guerra (era il 1977). «Quale migliore risposta alla P38?», commenta laconica Tobagi, che ripropone in queste pagine una felice formula già sperimentata con successo nel libro sulle partigiane.

Al tema dell’uso legittimo della violenza cedette anche una parte delle femministe, ma la cifra che accomuna queste immagini è l’allegria di chi fa la cosa giusta, abbattendo muri di silenzio e di subalternità. Le donne prendono la parola e insieme scoprono l’autocoscienza, partendo da sé stesse, dalle storie personali, da storie di ingiustizia e anche umiliazione.

Una liberazione collettiva che è una corsa ad ostacoli, ovunque sono le resistenze maschili, a casa con il compagno di vita, in fabbrica tra operai e sindacati diffidenti verso un’imprevista e contagiosa “isteria”, anche tra i movimenti dell’estrema sinistra perché va bene fare la rivoluzione, ma questa storia del separatismo femminista si fa fatica a digerirla, che vi siete messe in testa, non vi basta fare gli angeli del ciclostile? E se poi non ci stai, allora sei frigida o repressa.

E non fu certo un caso che Lotta Continua – dove le donne venivano chiamate con il genitivo dell’appartenenza maschile, Maria di Gigino o Lorenza di Gigetto – fu sciolta grazie alla protesta delle compagne contro l’autoritarismo dell’organizzazione. E i ragazzi di Potere Operaio arrivarono a interrompere nel 1972 una seduta di femministe a Roma lanciando preservativi pieni d’acqua. Il Manifesto s’affrettò a stigmatizzare, ovviamente, ma con un’interessante postilla: «Non c’è niente di serio nel trattenersi in assemblee unisessuali».

Ci si accapiglia tra maschi e femmine, ma anche tra le donne è una discussione senza fine, di qua le emancipazioniste del Pci e dell’Udi – eguali diritti per tutti – di là le teoriche della differenza e del separatismo, che mettono più radicalmente in discussione il patriarcato, accusando le prime di connivenza con il nemico e venendo a loro volta accusate di mettere i bastoni tra le ruote della rivolta sociale.

Ma poi alla fine si trovò una intesa, anche tra le madri partigiane e le irrequiete figlie del Sessantotto, perché il femminismo di quella stagione fu proprio la scoperta di tutte le altre: soltanto unite, tenendosi per mano, in una solidarietà che andava oltre sé stesse, si potevano conquistare nuove frontiere, la legge sul divorzio, i consultori, poi la legalizzazione dell’aborto, i processi collettivi per stupro, per la prima volta a porte aperte. E non importa se difetti e incompiutezze segnavano i comuni traguardi perché comunque andava cambiando il corso della storia.

Una rivoluzione affettuosa, che passa attraverso gesti di sorellanza, sorrisi e sguardi incrociati, carezze tra chi per la prima volta condivideva «un’esperienza fondativa e totalizzante», anche la scoperta del corpo e della sessualità. Mossa da empatia, la macchina fotografica di Agosti riesce a cogliere la fisicità complice delle ragazze che indicava un nuovo modo di stare al mondo. Una complicità estesa anche ai bambini, portati nelle piazze con allegria, quasi a rivendicare l’orgoglio di una maternità felice contro l’immagine luttuosa proiettata sulle donne che si battevano per legalizzare l’aborto, assassine allora e infanticide ancora oggi nella propaganda dei cosiddetti comitati che si dichiarano “pro-vita”, come se tutte le altre fossero pro-morte e non per una gravidanza voluta e consapevole.

La domanda che attraversa questo straordinario viaggio per immagini è se realmente sia stata una rivoluzione, anche perché mezzo secolo dopo il panorama è tra i più sconfortanti, con il patriarcato che appare più agguerrito che mai – nonostante il ministro dell’Istruzione Valditara lo ritenga una bizzarra invenzione ideologica –, con le istanze antiabortiste che trovano sponda nei nuovi padroni politici e con le donne di nuovo in tribunale non in veste di vittima ma in quella di imputata se fanno i figli con una compagna. Ma la parola rivoluzione riferita al femminismo serve a rimarcare il valore assoluto dei diritti conquistati, come a dire che indietro non si deve tornare.

E ancora oggi le spavalde protagoniste degli anni Settanta ci dicono che non bisogna abbassare la guardia, che la solidarietà femminile deve andare oltre «uno sguardo maschile che continua a dividere tra belle e brutte, giovani e vecchie, accondiscendenti e riottose» (copyright Silvia Vegetti Finzi), che non esiste una liberazione personale se non ci si impegna in un cambiamento della società per renderla più giusta e aperta. Tra tutte – conclude Tobagi – è forse questa l’eredità più importante per le donne del XXI secolo. Anche la più impegnativa, in un mondo sempre meno umano.

Covando un mondo nuovo, di Paola Agosti e Benedetta Tobagi (Einaudi, pagg. 152, euro 35). 

Da il manifesto – Anni fa – era il 2006 – con alcuni amici di «Maschile plurale», scrivemmo un testo che, in sintesi, affermava una cosa che dovrebbe essere evidente: la violenza maschile contro le donne la agiamo noi uomini. Tocca a noi farcene carico per estirparla. Scoprimmo che non eravamo i soli a pensarlo.

Oggi, dopo le parole della sorella Elena e del padre Gino di Giulia Cecchettin, è diventata più evidente una presa di coscienza maschile su questo dramma del nostro vivere comune. Non certo grazie a quel vecchio testo. Ma avevamo intravisto una tendenza.

Martedì scorso c’è stata a Roma la presentazione della Fondazione intitolata a Giulia Cecchettin, con gli spropositi del ministro dell’istruzione Valditara sulla violenza degli «stranieri» e sul «patriarcato» come ubbia ideologica. E le risposte adeguate di Gino Cecchettin.

Ho poi partecipato a un incontro sul tema «Politica senza amore». Si discuteva sulla validità delle pratiche politiche inventate dal femminismo: dall’«autocoscienza» alla ricerca di un fare politica «partendo da sé». Frutti derivati dalla famosa affermazione: «il personale è politico». Circolavano dubbi. Giusto cercare di fecondare con amicizia, e amore – pronunciamola questa parola ingombrante – l’esperienza della politica che oggi vediamo in grandissima crisi. Ma quelle parole non saranno inattuali? È maturo il tempo di condividere esperienze simili tra donne, uomini, persone che non si identificano in nessuno dei due sessi?

Alla sera assemblea al centro Spin Time – spazio sociale che ospita famiglie straniere e gestisce ampi locali pubblici – con un centinaio di uomini e donne di diverse generazioni, venuti e venute all’invito di gruppi di maschi che sulla violenza interrogano se stessi, con il titolo «Disertare il patriarcato». Ascolto ragazze ripetere quel «il personale è politico» a proposito delle dinamiche di potere nelle relazioni amorose, e uomini giovani e meno giovani rispondere alla domanda di un’altra ragazza: che cosa vi muove a mettervi in discussione?

Nelle risposte tante esperienze: dalla ricerca dei propri comportamenti violenti (spesso quelli psicologici più dolorosi delle «botte»), al senso di imprigionamento negli stereotipi maschilisti, fatti di competizione, di censure e distorsioni del desiderio, di disagio per un vivere e viversi male. E poi la prova di un altro modo di parlare di se stessi e con altri nei «gruppi» maschili.

Si esita a dire «autocoscienza» – ricorda forse, dice uno, l’autoaffermazione solitaria dell’io: meglio mutuare dall’inglese il termine «autoconsapevolezza»?

Vedo il manifestarsi un desiderio nuovo di incontrarsi tra donne e uomini, e qualcuno che parla anche di altre identità sessuali: qualcosa di indispensabile, credo, all’invenzione di una politica capace di cambiamento. Di sé e del mondo.

E il discorso arriva a questo mondo in cui prevalgono tirannie, predicazioni violente e guerre, e crisi delle nostre «democrazie liberali» in corsa verso riarmo e politiche razziste, disuguaglianze abissali create da un capitalismo sfrenato che produce nuovi schiavi, mostri tecnologici, disastri ambientali e poteri personali smisurati, assurdi.

Penso al valore di quella parola nel titolo dell’incontro: disertare il patriarcato.

Disertare prima di tutto vuol dire rifiutarsi di fare la guerra. Di giocarsi la vita e di uccidere sconosciuti chiamati «nemici». In nome di cattivi sentimenti identitari, nazionalistici, e per me discutibili anche quando è in gioco la libertà. Credo legittima la domanda se la guerra non sia una caratteristica, la peggiore, proprio dell’ordine simbolico che chiamiamo «patriarcato».

Se non sia la violenza maschile che si manifesta nel ricorso sistematico agli stupri «di guerra», come ha scritto Edoardo Albinati (https://maschileplurale.it/lo-stupro-bellico/), il fondamento «quintessenziale» della guerra: la violenza dell’uomo sulla donna come violenza primaria.

Credo, con una parte del femminismo, che la capacità regolativa di questo «ordine simbolico» sia finita, o comunque in crisi in tutto il mondo. È il risultato della rivoluzione disarmata, ma dotata di un potente «altro genere di forza», delle donne. Una rivoluzione riconosciuta a parole ma non ancora compresa dalla politica figlia di culture – socialiste e comuniste, liberaldemocratiche, religiose – di matrice maschile. Quando guardiamo ai decisori delle guerre che ci sconvolgono vediamo maschi che professano idee e offrono immagini orribili, tragiche e ridicole: gli integralismi religiosi opposti della destra israeliana e delle fazioni islamiche armate. Le figure di questi vecchi e nuovi americani: Biden e il binomio Trump-Musk. E del russo Putin. E di Netanyahu.

La «follia» bellica di questi «stati maggiori» maschili per me assomiglia molto alla violenza personale dei «figli sani del patriarcato» contro le donne che vogliono vivere libere.

Disertiamo il patriarcato. E disertiamo la guerra riconoscendola finalmente come secolare forma collettiva della violenza maschile. Apriamo su questo una discussione pubblica.

Da Maremosso

Il 14 dicembre 2024 sarà presentata in Libreria delle donne di Milano la graphic novel di Francesca Bellino e Lidia Aceto Matilde Serao. La voce di Napoli, edizioni BeccoGiallo (Ndr).

«Donna Matilde ha il giornalismo nel sangue» scrive Anna Banti nella sua biografia. «Passa la Signora» bisbigliano i napoletani quando, nei pressi del Mattino, appare la sua carrozza trainata da un cavallo bianco. Qualcuno allunga anche il collo per spiarne la figura goffa eppure carismatica, sempre vestita di scuro e con lunghe collane di perle, con la segreta speranza di essere notato da lei.

Lei, la Signora col giornalismo nel sangue è Matilde Serao (ne abbiamo già scritto qui), pioniera del genere in Italia e scrittrice da Nobel (mancato nel 1926 solo perché antifascista).

Al tempo della carrozza e del cavallo bianco è già una personalità nota e influente: tutti sanno, a Napoli, che La Signora ha occhi per vedere sia lo splendore della città, sia la sofferenza della sua gente, e che in più ha quel “supplemento d’anima” indispensabile, secondo Henri Bergson, per comunicare quello che ha visto e che ha capito.

Greca per nascita ma napoletana per temperamento, Matilde Serao è una donna appassionata, scaltra e intelligente tanto da inventarsi un destino eccezionale per una donna di fine Ottocento. È arrivata a Napoli subito dopo l’Unità, quando il padre, giornalista antiborbonico in esilio, ha potuto farvi ritorno e, ancora molto giovane, è stata costretta a contribuire al bilancio di casa con un lavoro da ausiliaria presso le Poste e Telegrafi della città.

È andata a scuola tardi, ma a quindici anni ha già un diploma da maestra di cui peraltro non si servirà mai, e legge, legge di tutto e voracemente, a cominciare dall’opera completa di Shakespeare e di Balzac, dal quale erediterà anche la fragorosa risata con cui taglia corto i giudizi e le lungaggini che non le garbano.

Oltre a leggere, Matilde scrive instancabilmente, con identica passione. «Io appartengo alla gente da tavolino» afferma in un’intervista e in una lettera alla figlia (rinvenuta da poco) arriverà a dire: «Sono grafomane e la carta, la penna e il calamaio sono le sole cose che mi avvincono, fra tutti gli oggetti di questa terra». Forse esagera, anzi esagera di certo, se si può chiamare esagerazione quella che è una vera, esigente vocazione a cui Matilde si concede senza risparmio, per tutta la vita.

Anche per l’influenza del padre, Matilde si misura fin da subito con il giornalismo, mondo in prevalenza maschile, dove può mettere a frutto la particolare combinazione di intelligenza e sensibilità femminile verso i temi della vita quotidiana, dal cibo alla moda allo sport, inquadrati nel contesto storico dell’epoca.

Con prorompente creatività, inventa supplementi letterari e la Piccola Posta dei lettori; scrive per la neonata pubblicità e per il cinema; fonda quotidiani locali e infine imprime per sempre il suo nome nella storia del giornalismo italiano con la fondazione del Mattino di Napoli e del Giorno.

Come stregata dalla sua stessa abilità, e dal bisogno incessante di esprimersi, Matilde si dedica contemporaneamente alla narrativa con racconti spesso incentrati su figure femminili che, oppresse da miseria e pregiudizi, lei guarda e valuta con una empatia di stampo quasi materno.

«Il femminismo non esiste», scrive, ma non dimentica di aggiungere: «Esistono solo delle questioni economiche e morali che si scioglieranno quando saranno migliorate le condizioni generali della donna e si sarà assicurato alla donna il diritto di vivere».

Due i romanzi che, tra gli altri, segneranno la vicenda esistenziale e la fama di Matilde Serao: il primo è Fantasia che, pubblicato nel 1883, narra la storia avventurosa e patetica di due amiche ed è molto apprezzato dal pubblico, non così dalla critica. «Ha uno stile tutto suo, aspro, rotto», scrive infatti Edoardo Scarfoglio, il giornalista sulla cresta dell’onda, bello e ammirato dalle donne che quando poi incontra l’autrice ne è tanto colpito da innamorarsene e sposarla. «Mi piace troppo, troppo, troppo», scrive a un amico, anticipando in qualche modo l’ammirazione che di lì a poco Matilde riscuoterà ovunque, dai salotti aristocratici ai circoli culturali più esclusivi, a Napoli e a Roma, come a Londra o a Parigi.

A dispetto della sua figura tutt’altro che aggraziata, Matilde è magnetica, vulcanica, fuori da ogni canone (anche stilistico), capace di imporsi per intelligenza e libertà di pensiero all’ammirazione di personalità di indiscusso valore intellettuale, come Henry James o Edith Warton che, in un memoir del 1934, scrive: «La viva immaginazione della narratrice (due o tre dei suoi romanzi sono magistrali) era alimentata da vaste letture e da una varia esperienza di classi e di tipi che le veniva dalla sua carriera giornalistica; e la cultura e l’esperienza si fondevano nello splendore della sua poderosa intelligenza».

Non sappiamo a quali romanzi si riferisca Edith Wharton, ma di certo non può mancare il secondo dei romanzi di cui si diceva, ossia Il ventre di Napoli, analisi minuziosa, commossa, scandalizzata, delle reali condizioni di Napoli dopo che il colera del 1884 aveva causato 6000 morti e la fuga di molti tra gli abitanti più abbienti.

E mentre da Roma il ministro tuonava «Bisogna sventrare Napoli» Matilde ne visita di persona i bassifondi più bui e miseri dove la povera gente si accalca e muore in condizioni disumane, e dopo averla ancora una volta guardata, osservata, compatita, scrive: «Efficace la frase. Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve sapere tutto», dando inizio a un’opera tuttora insuperata per realismo e forza morale.

Gli stessi caratteri che poi ritroveremo in molti aspetti della vicenda esistenziale di Matilde Serao, come: l’accoglienza materna che riserva alla bambina che, in un giorno di agosto del 1894, l’amante respinta da Edoardo Scarfoglio aveva depositato sulla sua soglia prima di suicidarsi; o il viaggio in Palestina, sola e sempre con una pistola a portata di mano, sulle tracce di una spiritualità solo all’apparenza in contrasto con la disinvoltura con cui Matilde ha conquistato il mondo dei salotti più esclusivi dell’epoca, o il nuovo patto sentimentale e professionale che dopo la separazione da Scarfoglio la lega a Giuseppe Natale, giovane giornalista romano col quale fonda Il Giornoe, a quarantotto anni, dà alla luce Eleonora, la quinta figlia così chiamata in omaggio all’amicizia che la lega alla Duse.

Impareggiabile fino all’ultimo istante di vita, Matilde muore il 25 luglio del 1927 per un infarto mentre, al tavolino, è intenta a scrivere l’ennesima opera. «Amabile», pare sia l’ultima parola digitata sulla macchina da scrivere.

Dal Corriere della Sera – Quelle che vivono in una casa di 300 metri quadri ma non hanno nemmeno un piccolo spazio tutto per sé. Quelle che guadagnano di più e, per impedire che il marito si senta sminuito, versano l’intero stipendio sul suo conto. Quelle che tirano discretamente la carta di credito dal portafogli e la passano al compagno per permettergli di pagare al ristorante o in hotel. «Sono tante le storie di donne, benestanti, che arrivano da noi per fare un percorso di consapevolezza e trovare il coraggio di lasciare relazioni violente»: lo raccontano le fondatrici di Labodif, laboratorio e istituto di ricerca sulle differenze di genere attivo da più di venti anni, che testimonia quanto l’indipendenza economica sia solo un aspetto del problema. Uno studio ONU (United Nations Population Fund, UNFPA, 2020) ha dimostrato che le donne che possiedono una sicurezza finanziaria e una rete di supporto sono significativamente più capaci di lasciare relazioni violente. Questo studio ha sottolineato come la dipendenza economica sia uno dei fattori principali che costringe le donne a rimanere in relazioni pericolose. L’indipendenza economica può dunque essere uno dei fattori di protezione, ma deve essere accompagnata da un impegno strutturale più ampio che includa riforme educative, cambiamenti culturali e supporti psicologici e sociali.

Perché donne anche economicamente abbienti non riescono spesso a uscire da situazioni tossiche o abusanti? «Perché manca loro una sorta di autorizzazione interna – spiega Gianna Mazzini, documentarista, una delle fondatrici di Labodif – Noi donne siamo spesso sotto lo scacco dei valori maschili, la misura delle cose è il maschile, e quindi se manca lo sguardo maschile, non si riesce ad andare avanti. Persino la rottura del matrimonio, nonostante ci sia una stragrande maggioranza di donne separate, a volte è ancora un tabù: c’è ancora lo stigma, la vergogna di ammettere che un matrimonio è finito, perché la misura di sé è data dall’adesione a un modello di famiglia felice». Nonostante tutti i progressi compiuti a livello legislativo e sociale, resta «molto forte la tendenza a coprire il marito, l’imbarazzo di essere più del maschio», sottolinea Giovanna Galletti – economista, l’altra fondatrice – «La donna stessa ha un uomo interno, che dice che non è corretto se è di più, c’è qualcosa che le dice che non è esattamente così che dovrebbe essere, e che sminuire un uomo dal punto di vista della capacità economica non è accettata. Come racconta Linda Babcock nel suo “Le donne non chiedono. Perché le donne contrattano meno degli uomini negli affari, nella professione, nella vita privata”, a volte si tratta di atteggiamenti inconsci. La scrittrice riferisce che spesso era suo marito a pagare e un giorno la sua bambina le chiese: «Mamma, ma le ragazze possono avere i soldi?». Quando Babcock si rese conto del danno che le stava arrecando, iniziò a cambiare atteggiamento». Ovviamente una donna senza mezzi è in maggiore difficoltà se vuole staccarsi dalle relazioni tossiche, specie se non una rete di supporto, ma i mezzi e la rete non sono sufficienti, «perché conosciamo troppi casi di donne con grandi patrimoni che non si definiscono libere», incalza Mazzini.

Ma allora, che cos’è la libertà? «Finché la misura resta quella maschile, ho un’idea “importata” di cos’è il denaro, l’armonia, la famiglia, e quindi sono ricattabile da quest’idea», spiega ancora Mazzini. Non a caso quando la saggista Carla Lonzi disse negli anni ’70 che l’indipendenza simbolica era più importante di quella economica, venne fortemente criticata. Eppure è spesso proprio «attraverso l’indipendenza simbolica che puoi raggiungere una autentica indipendenza economica, ed è fondamentale, in questo contesto, avere figure di donne che ti autorizzino, che ti ispirino, quelle che noi chiamiamo “madri simboliche”». Per questo è così importante il valore della rappresentazione: ogni film, ogni storia, dove si racconta che una donna è riuscita a liberarsi da qualcosa che le faceva male è un’autorizzazione per altre a fare lo stesso. Ma allo stato attuale «manca ancora la consapevolezza che esiste un ordine simbolico femminile, che esiste una lingua nostra», spiega Giovanna Galletti. L’ordine simbolico sono le regole non dette che orientano ogni nostro pensiero, parola o azione, una sorta di schema che ci dice cosa è giusto e cosa è sbagliato, un codice binario di si/no. Ed è costruito su valori maschili. Adeguarsi costantemente a questo schema è per noi uno spreco di energie enormi. È come «se le donne giocassero sempre in trasferta, viviamo nel mondo degli uomini come fossimo ospiti, e l’ospite chiede permesso». Allora come si esce da una relazione pericolosa?

Allora come si esce da una relazione pericolosa? «Si dice sempre “al primo schiaffo vattene”, ma non ha mai funzionato, perché per quella donna lo schiaffo è anche suo, noi abbiamo un io poroso, dischiuso, è come se fossimo corresponsabili di quella cosa che ci riguarda», spiega Mazzini. «Se non sei radicata nel tuo ordine, è come se mendicassi la salvezza dall’altro. Gran parte del successo del film C’è ancora domani sta proprio nel fatto che nomina un “mancante”: lo spettatore fino all’ultimo pensa che lei scapperà dall’uomo cattivo all’uomo buono. Che è l’unica possibilità. E che sorpresa quando capiamo invece che Delia (la protagonista del film, ndr) compie un’operazione assai più potente. Una riappropriazione di sé attraverso il gesto simbolico del voto. Quando una donna comincia a prendere coscienza del suo potere, della possibilità di avere un punto di vista sulle cose e che quel punto di vista conta nel mondo, allora matura una capacità di accorgersi di ciò che le fa male, e di prenderne le distanze».

Qual è il primo passo? «Farsi sempre questa domanda: questa cosa mi corrisponde? Dove sono io rispetto a quello che sto vivendo? Il disagio è il primo grado del desiderio, una donna scopre cosa desidera, sapendo cosa non desidera. Sapere cosa non voglio è già desiderare. Può sembrare una risposta provvisoria, in attesa di qualcosa di più definito. Invece dire cosa non voglio è già la risposta. Non questo. Non così. Non oltre. Nei nostri laboratori lavoriamo tantissimo con il “non”. Il “non” è un metodo, indica una direzione. Quando arriva questo momento, il momento del “non più così”, è un segno importante, è un segno che quella persona ce la farà». Ma le donne come fanno a cambiare, a capirlo? «Noi spesso cambiamo per stanchezza, non per volontà – conclude Gianna Mazzini. Le donne di Carrara, il 7 luglio del ’44, si rivoltarono contro i nazisti che avevano occupato la città. Si radunarono, nella piazza del mercato, Piazza delle Erbe, e quando le camionette arrivarono, loro cominciarono a tirare patate e pomodori. A mani nude. Senza paura. E i tedeschi, inaspettatamente arretrarono. Quando chiesi, qualche anno fa a una delle sopravvissute: “Ma come avete fatto? Come avete avuto il coraggio?”, lei sorrise in un modo che non dimentico. A quel punto intervenne il marito, capo partigiano, che era lì con noi, che rispose semplicemente: “Erano stanche. Quando una donna è stanca può fare di tutto”».

Da il manifesto

Un percorso di letture e tre protagoniste nel cuore della Silicon Valley, a partire dall’ultimo libro di Sarah Rose Etter Qui non c’è niente per te, ricordi? (La Nuova Frontiera)

Affidare un senso compiuto alla parola umanità sta diventando un’impresa difficile. Bisognerebbe forse inoltrare la richiesta a un’intelligenza artificiale, lasciarsi sorprendere dalla fantasiosa sintesi di credenze che la nostra specie ha prodotto nel tempo. Oppure iniziare a discernere le allucinazioni come si faceva setacciando l’oro, separando chi crede nei sogni sbagliati da chi invece non sogna più niente.

Fa così Cassie, protagonista poco più che trentenne del romanzo Qui non c’è niente per te, ricordi? di Sarah Rose Etter (La Nuova Frontiera, traduzione di Lorenzo Medici, pp. 288, euro 18,50) arrivata a San Francisco dalla provincia con un pugno di speranze sul futuro. «La città è piena di credenti – racconta – Vengono dalle università più prestigiose e si gettano a peso morto sulla tecnologia. Hanno occhi che brillano come se fossero fatti di pixel e cuori che battono per il mercato azionario».

Poi ci sono tutti gli altri, partiti dagli anfratti del paese, spinti a Ovest dalle famiglie per andarsi a meritare una ricompensa. Cassie si colloca tra questi, ma si comporta come se appartenesse ai primi. «Per sopravvivere qui devo dividermi tra due entità, una vera e una fittizia», si rivela. È il 2019, gli scienziati hanno appena diffuso la prima foto di un buco nero e Cassie lavora come creativa dell’ufficio marketing di un’azienda «il cui valore è dovuto a un oscuro trattamento dei dati per profilare gli utenti stimolandoli a fare acquisti online». La seguiamo percorrere ogni giorno lo stesso tragitto, arrancare nella calca tra i palazzi di vetro che costeggiano la baia sostenuta dalla polvere bianca che appena sveglia somministra al posto del caffè; abbandonarsi alla corrente di giacche a vento con sopra appuntati i loghi delle startup più in voga, in un orizzonte dove il brand a cui vendi la mente e l’icona del tuo profilo collassano in un nuovo grado di appartenenza. A poco servono le conversazioni telefoniche con un padre dall’altro lato del continente o il calore insufficiente di un amore troppo liquido.

Sarah Rose Etter torna a raccontare il lavoro come un horror. «Ci hanno aperto il corpo a metà, le viscere sparse sul tavolo della sala conferenze»

Contro l’intransigenza dei discorsi da «donne alfa» di una schiera di vegane appassionate di pilates, muscolose ma ingobbite dalle troppe ore trascorse davanti a un pc non c’è femminismo che tenga, il valore di una lavoratrice si misura ancora in base al modo in cui un amministratore delegato la guarda. «Qui non c’è niente per te, ricordi?», dice la voce all’altro capo del filo mandando in crash la memoria a lungo termine – «è difficile distinguere i ricordi corretti da quelli che sono stati corrotti», ci confida Cassie, persino se in fondo all’elenco delle cose da fare c’è un tamburo che rimbomba – «il mio cuore che canta, no, no, no».

Dopo Il libro di X e la sua versione dark del precariato cognitivo, Etter torna a raccontare il lavoro come se fosse un horror – «ci hanno aperto il corpo a metà, le viscere sparse sul tavolo della sala conferenze» – e lo scrive come un trattato di fisica astronomica: quanto più le sue pagine affondano nella realtà, tanto più definitive risuonano. «Immaginate di addentare un frutto apparentemente maturo, e poi ritrovarvi la bocca piena di marciume», dice la ragazza alle prese con un corpo fertile ormai privo di desideri. La sua voce custodisce al centro il buio che Anna Wiener dispensava ne La valle oscura (Adelphi, 2020, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra), ma ne ha fatto evaporare la parte più lucida, il chiarore della materia che si appresta a sparire dal mondo. Accade così quando si viaggia nel tempo, anche solo con un salto piccolo. «Era l’alba dell’era degli unicorni», scriveva Wiener all’inizio di quello che sarebbe diventato il manifesto istantaneo di un sentimento generazionale, «il settore tecnologico si era espanso oltre la sfera di competenza di futuristi e fanatici dell’hardware per assumere stabilmente il nuovo ruolo di impalcatura della vita quotidiana».

Siamo negli anni successivi alla recessione, quelli che hanno visto i millennial fare il primo ingresso nel mercato del lavoro, la cosiddetta share economy stava consolidando un impero sulla compravendita di dati personali. «Un’interfaccia ben progettata era come la magia o la religione: alimentava una collettiva sospensione dell’incredulità» raccontava Wiener che nel 2013, all’età di venticinque anni, aveva lasciato la piccola agenzia letteraria di Manhattan dove lavorava come assistente per trasferirsi nel cuore della uncanny valley e prendere parte alla mega-transizione del settore editoriale. Dalla correzione di bozze all’assistenza clienti il passo era sembrato semplice, era bastato lasciarsi addosso una maglietta stropicciata con su scritto I’m data driven, sbocconcellare «accaventiquattro» culture aziendali insapori come bombe chimiche.

A sgocciolare dai soffitti di quegli uffici informali tacitamente fondati su sbornie, Xanax e patatine era il linguaggio semi-analfabeta che negli anni a seguire ci avrebbe addestrati a un futuro «dove ogni cosa – ridotta alla versione più veloce, semplice e patinata di se stessa – poteva essere ottimizzata, gerarchizzata, monetizzata, e controllata».

La grammatica che avrebbe assurto le emoji a sostituti di un discorso iperesteso di aggressività passiva sarebbe stata la stessa che avrebbe perorato la causa del «più donne ai vertici del tech» senza che ne venissero assunte a sufficienza, vincolando il merito all’automiglioramento, costringendo tutti a guardare continuamente se stessi fingendo di guardarsi l’un l’altro «in un atto di sorveglianza infinita».

Opportunità e pericoli della smaterializzazione di sé al tempo dell’intelligenza artificiale, attraversando l’ultima membrana del mondo reale

Certi giorni, scriveva Wiener che nel frattempo come la Cassie di Etter aveva imparato a destreggiarsi tra almeno due avatar – la lavoratrice eccezionale, la femminista guastafeste – «mentre aiutavo uomini a risolvere problemi che si erano creati da soli mi sentivo io stessa un software, un bot: anziché essere un’intelligenza artificiale, ero un artificio intelligente, un frammento di codice empatico o una voce calda che forniva istruzioni».

La fine del lavoro materiale passa inevitabilmente per la smaterializzazione di sé. I corpi sarebbero diventati piattaforme, interi sistemi di conoscenza si sarebbero sgretolati in frammenti di codice. Tutto, persino la coscienza, si stava trasferendo «nel cloud». A essere saltata era la relazione con la macchina che così bene Ellen Ullman descriveva nel suo Accanto alla macchina (Minimum Fax, 2018, traduzione di Vincenzo Latronico), uscito per la prima volta nel 1997 – lo stesso anno in cui l’informatica Rosalind Picard avrebbe dato alle stampe il suo trattato sui rapporti affettivi tra umani e macchine –, agli albori di quel «bagliore azzurro» che ci avrebbe per sempre modificato la vita. «Ho attraversato una membrana oltre la quale il mondo reale e i suoi fini perdono consistenza», ci avvertiva la software engineer arrivata in California negli anni ’80 per lavorare a un database di malati di Aids.

Le sue pagine oggi odorano del pulviscolo che fuoriesce dalle ventole di raffreddamento, emanano l’alone vintage di un femminismo radicale. «I nostri corpi sono stati abbandonati da un pezzo, costretti alla fame e all’insonnia e alla tortura di passare ore incollati a mouse e tastiera», collocava la sua postazione nel momento esatto in cui «chissà quante pagine di specifiche» sarebbero andate incontro alla traduzione «in una lingua straniera chiamata codice». È un confine che rassomiglia a uno stato alterato di coscienza, dove «il mondo come lo comprendono gli umani e il mondo per come va spiegato a un computer» collidono in una disgiunzione matematica capace di raggiungere gli effetti della metanfetamina.

Poi succede qualcosa, le irregolarità prendono il sopravvento e lo schermo si riempie di domande a cui nessuno sa rispondere. «La mente umana è un casino» ci mette in guardia Ullman, piratessa nell’oceano di un’obsolescenza che dalle cose si trasmette alle persone. «Tutto ciò che vogliamo creare, tutto ciò che il sistema dovrà essere in grado di fare, ha bisogno di essere snaturato nel momento del passaggio alla macchina», scriveva affidando al suo sé personaggio, una quarantenne disinibita nelle relazioni e politicamente sensibile, la matassa di implicazioni collettive e intime che nessuno sarebbe più riuscito a sbrogliare.

«Mi piacerebbe pensare che i computer sono neutrali, uno strumento come tutti gli altri» lasciava scritto in quello che funziona come un testamento ritrovato al nucleo di una matrioska immateriale, «ma il problema è che più tempo passiamo a osservare un’idea ristretta dell’esistenza, più la nostra idea di esistenza si restringe». Eravamo convinti di aver inventato un sistema, quello che non avevamo messo in conto era come quel sistema stava inventando noi. Il fatto che persino la baia dorata, le sue navi dirette nel mar del Giappone, le decappottabili che sfrecciavano veloci sulle autostrade mentre qualcuno decideva di lanciarsi sotto una metro, avrebbero perso un valore reale. Che sarebbe contato solo come quel bagliore azzurro ci avrebbe illuminato ancora.

Da L’Osservatore Romano – Desta un brivido di inquietudine la lettera che Virginia Woolf scrive a Vanessa Bell nel marzo del 1941. «Ora sono certa — confessa — che sto nuovamente impazzendo. Come la prima volta, sento in continuazione le voci, e ora so che non ce la farò. Ho lottato, ma non ce la faccio più». È questa la missiva che chiude il prezioso libro Vanessa Bell, Virginia Woolf. Se vedi una luce danzare sull’acqua. Lettere tra sorelle. 1904-1941, a cura di Liliana Rampello (Milano, il Saggiatore, 2024, pagine 410, euro 35, traduzioni di Andrea Cane, Silvia Gariglio, Silvia Gianetti, Camillo Pennati e Sara Sullam). La corrispondenza, in gran parte inedita in Italia, abbraccia circa quarant’anni di vita di due donne che, in virtù di un sentito legame di sangue, condividono con slancio e senza diaframmi o comode circonlocuzioni fervide passioni e brucianti delusioni, successi letterari e tragedie private. Sullo sfondo di questo dramma umano, venato talora di tratti di commedia, si proietta l’eco delle due guerre mondiali, come a ricordare che il macrocosmo di queste sorelle non è un universo conchiuso, ma si innerva delle dinamiche, tumultuanti e complesse, di un mondo ben più vasto.

Virginia, scrittrice, è sempre stata cagionevole di salute: i suoi nervi sono labili e la dispongono a una depressione logorante e crescente. Ne è consapevole Vanessa, pittrice, che non si risparmia nel cercare di aiutare la sorella. Lo scambio di missive ha inizio quando le due donne hanno poco più di vent’anni. Quel terribile biglietto d’addio Virginia lo firmerà sulla soglia dei sessant’anni. «Le loro — rileva Rampello, la curatrice — sono lettere spontanee, ironiche, disinibite, scritte in una lingua scintillante da cui affiora tutta la grandezza e la fragilità di due personalità irripetibili, ma anche il brusio spregiudicato della cerchia di Bloomsbury». Si tratta, in sostanza, di un epistolario che si configura come la biografia di un rapporto umano indissolubile, come «qualcosa che è più della somma di due vite». È qualcosa che «sta tra due vite». In quel “tra” si specchia tutto il vulcanico fluire di pensieri e sentimenti che contribuisce a definire e a forgiare la personalità delle due sorelle.

Sia per Virginia che per Vanessa risulta inafferrabile la natura dell’esistere, la vita che palpita nel mondo umano, vegetale, animale. Ma se i quadri di Vanessa sono silenziosi, muti — e devono essere tali perché «la tela appesa al muro continua comunque a dire qualcosa di suo» —, Virginia ha invece bisogno delle parole, sebbene possano essere inadeguate. «Oh potersene restare in silenzio! Oh essere un artista!» lamenta.

La corrispondenza rivela anche un assiduo scavo interiore, alla ricerca di un’identità che sia stereotipata e data una volta per tutte. «Ormai — scrive Vanessa —, da quando ho capito che basta cambiare l’idea che si ha di sé trasformandosi in una specie di donna delle pulizie o in un barbone, per camminare indisturbati e vestiti di stracci o a piedi nudi, non ho più vergogna». E quindi, con lo spirito bizzarro e un po’ ribelle che le era proprio, aggiunge: «Non capisco perché si debba sempre ritenere necessaria la decenza, per non parlare dell’intelligenza, quando in effetti non si ha nessuna voglia di bazzicare persone decenti o intelligenti».

A proposito di una delle sue opere più note, Gita al faro, Virginia osserva che con questo romanzo non ha voluto dire «niente». Occorre «una linea centrale» che percorra il libro per tenere insieme il disegno. «Mi sono accorta che sentimenti di ogni genere si sarebbero accumulati lì dentro, ma ho evitato di elaborarli e ho confidato che la gente ne facesse il deposito delle proprie emozioni. E così è stato, e uno pensa che significhi una cosa, e un altro un’altra cosa. Non riesco a trattare il simbolismo se non in questo modo vago, generico. Se sia giusto o sbagliato non lo so, ma non appena mi spiegano il significato di una cosa, mi diventa odiosa». Parole, queste, illuminanti riguardo alla sua concezione della vita e al suo ideale di letteratura che, della vita, ambiva ad essere dignitosa e rispettosa espressione.

Un’espressione che si fa visione nell’ultima riga del romanzo, quando Lily Briscoe, spossata, nel mettere giù il pennello, si trova a pensare — mirabile epifania — che ha avuto una visione. Di conseguenza la pittrice, nello spazio di un fulmineo istante, traccia «una linea lì nel centro» della tela. Ma non è il quadro a essere descritto: a imporsi è l’esperienza visiva di una composizione che ha una sua specifica dimensione cognitiva e non ha un equivalente verbale. Ciò che la scrittrice ha scoperto — grazie alla pittura — è come scrivere la propria visione. Anche entro questa prospettiva di carattere narrativo s’inserisce il valore del reciproco rapporto fra le due sorelle sul piano professionale: c’è la scrittrice che dalla pittura mutua un linguaggio che le risulta funzionale alla manifestazione del suo sentire, e c’è la pittrice che riconosce nell’arte letteraria (come sottolineato da ella stessa in alcune missive) lo strumento cui attingere per «far parlare» la tela. Si consacra così la felice simbiosi tra penna e pennello.

Da il manifesto – Non è stato un saluto istituzionale quello che il ministro Valditara ha rivolto ieri alla Camera dei deputati, ma il modo di intestarsi la nascita della Fondazione Giulia Cecchettin, dando il suo parere sulla violenza contro le donne in maniera assai paradossale. Appellandosi ai valori costituzionali, alle pari opportunità e alla civiltà offesa dal fenomeno della violenza maschile contro le donne – a una settimana esatta dalla giornata mondiale che ne ricorda, come ogni anno, il significato sistemico – il ministro non è sembrato così aggiornato, come il nome del suo dicastero imporrebbe, in particolare in due passaggi: ha citato la violenza sessuale che «si combatte anche riducendo i fenomeni di marginalità e di devianza legati alla immigrazione clandestina»; ha poi indicato il patriarcato conclusosi «come fenomeno giuridico» con la riforma del diritto di famiglia del 1975.

Due opinioni che certamente corroborano la parte politica cui appartiene ma che non sono verificabili nella realtà. La cosa singolare è che, entrambe queste enormità, sono state esplicitate davanti a Gino Cecchettin, la cui figlia è stata uccisa un anno fa dal suo ex fidanzato e la cui vicenda, ancora una volta, conferma quanto la provenienza geografica e le riforme del diritto di famiglia contino ben poco.

Dovremmo pensare dunque che Giuseppe Valditara, oltre a non essere istruito sull’entità di quanto ha commentato, non sappia intervenire neppure nel «merito». Perché a commettere violenza contro le donne sono dei maschi, indipendentemente da dove arrivino e dove siano diretti: per tacere dei dati forniti dai centri antiviolenza, che fanno un lavoro capillare sul territorio e mai sufficientemente sostenuto, si può dare uno sguardo almeno all’ultimo report del Dipartimento di pubblica sicurezza. Si ferma al 10 di novembre, viene aggiornato ogni settimana e, dall’inizio del 2024, registra 97 uccise di cui 83 in ambito familiare/affettivo.

Non si tratta di difendere una presunta italianità e nemmeno, in questo caso, le ragioni dell’accoglienza. Si tratta invece di una precisa questione di genere, lo si ripete da anni. Oltre a essere una evidenza che niente ha a che vedere con «l’ideologia», parola che il ministro curiosamente convoca con valore negativo tanto da domandarsi se non la confonda con il termine «propaganda».

Affermare che il patriarcato sia «giuridicamente» finito, è invece l’appropriazione confusa di quanto il femminismo di questo paese ha elaborato e sovvertito negli ultimi decenni a proposito della relazione tra i sessi.

La scena di ieri alla Camera dei deputati in occasione della Fondazione dedicata a Giulia Cecchettin racconta tuttavia qualcosa in più: ad esempio che un saluto istituzionale si trasforma in un rapido résumé di intenti della destra al governo, antistorica e reazionaria. Peccato perché avrebbe potuto imparare da ciò che il padre di una ragazza vittima di femminicidio diffonde ormai da mesi a proposito del tema. Ma il ministro ha parlato in un videomessaggio, dunque non ci sono state repliche immediate. Lo si è ascoltato, come l’etichetta e l’educazione impongono quando si è ospiti in casa d’altri.

Da kobo.com

Da studioso, non accademico, di simboli e archetipi, nei miei anni di ricerca mi sono obbligatoriamente imbattuto nella necessità di frequentare l’ambito archeologico. Non posso accampare competenze tecniche, mi limito a riportare, da appassionato, la testimonianza dell’influenza di determinate figure ed incontri sul percorso intellettuale del sottoscritto (e di molti altri).

Per il mio percorso intellettuale e spirituale, legato in particolar modo allo studio della devozione degli aspetti femminili del divino, non ho potuto non imbattermi nella lettura dei saggi di Marija Gimbutas. Parliamo di una figura fondamentale nello studio della preistoria europea, in particolare per il suo approccio ai culti della Grande Madre. Le sue ricerche, condotte principalmente tra il ’46 e il ’71, hanno messo in luce l’importanza delle società matriarcali e dei culti legati alla fertilità, proponendo una reinterpretazione della storia antica.

Gimbutas ha identificato e analizzato numerosi reperti archeologici, come statuette di donna e simboli associati alla fertilità, provenienti da culture neolitiche dell’Europa, suggerendo che queste culture avessero un forte legame con la venerazione della Dea Madre, simbolo di fertilità, vita e rigenerazione.

A differenza della visione più largamente storico-culturale del matriarcato di Bachofen, per alcuni versi simili a livello concettuale ma che sorgeva da una combinazione di fonti mitologiche e storiche, l’archeologa (nata lituana, poi naturalizzata americana) basava le proprie tesi sullo studio di dati archeologici concreti.

Gimbutas interpreta molte delle divinità femminili ritrovate nei reperti archeologici in un modo per molti versi convergente alla visione dell’archetipo junghiano della Grande Madre; chiaramente, la sua interpretazione pertiene più all’aspetto simbolico-religioso che strettamente psicanalitico (soprattutto se pensiamo al saggio di Erich Neumann La grande madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, che sottolinea anche il ruolo potenzialmente oppressivo di una potenza inconscia così “ingombrante”).

L’opera di Gimbutas ha influenzato non solo la ricerca archeologica, ma anche i movimenti femministi e ha contribuito a plasmare una nuova visione della spiritualità, che, nel calderone fertile quanto confuso della New Age, si è sposata facilmente con la riscoperta di massa della filosofia orientale, alimentando un rinnovato interesse per il sacro femminile e le pratiche cultuali legate alla Dea.

Il saggio più importante di Marija Gimbutas è probabilmente The Language of the Goddess, pubblicato nel 1989 [trad. it. Il linguaggio della Dea, Venexia 2008, Ndr]. In quest’opera, Gimbutas riassunse la sua tesi fondamentale ovvero, appunto, l’idea che le antiche civiltà europee neolitiche fossero fondate su una struttura sociale matriarcale e una forte venerazione per il divino femminile, come testimoniato da una vasta e variegata iconografia di dee.

A Gimbutas si deve anche la famosa “ipotesi kurganica”, pubblicata nel 1956 all’interno del saggio The Prehistory of Eastern Europe: una delle teorie più affascinanti e influenti sull’origine delle popolazioni indoeuropee e sul cambiamento culturale che ha trasformato il volto dell’Europa antica. Secondo questa ipotesi, le popolazioni indoeuropee, portatrici di una cultura guerriera e patriarcale, ebbero origine nelle steppe a nord del Mar Nero, in un’area che oggi si estende tra Ucraina, Russia e Kazakistan, circa tra il V e il III millennio a.C. Queste popolazioni, conosciute come “kurgan” (termine che in russo significa ‘tumulo funerario’ e si riferisce alle sepolture monumentali caratteristiche di questi gruppi), si sarebbero espanse verso l’Europa e l’Asia, portando con sé una cultura, una lingua e un sistema di valori nuovi, che gradualmente sostituiranno quelli delle popolazioni autoctone.

Gimbutas, come detto, sostiene che prima dell’arrivo dei Kurgan, l’Europa fosse abitata da comunità agricole e matrilineari, pacifiche e basate su un culto della fertilità e su una venerazione della Dea Madre. Queste società, incentrate su valori di cooperazione e armonia con la natura, svilupparono un simbolismo complesso che celebrava il ciclo della vita e la rigenerazione. Con le ondate migratorie delle popolazioni Kurgan, Gimbutas ipotizza l’arrivo di una società patriarcale e gerarchica, basata sul potere militare e sul dominio maschile. La spiritualità della Dea Madre e della natura cedette il passo a divinità maschili e a un simbolismo centrato sul potere e sulla guerra.

Come spiegò lei stessa in un’intervista del 1992: «Il sistema da cui proveniva la cultura di matrice materna antecedente agli Indoeuropei era molto diverso. Dico di matrice materna e non matriarcale perché quest’ultima desta sempre idee di dominio, ed è semanticamente contrapposta al patriarcato. Quella era una società equilibrata, non è vero che le donne fossero talmente potenti da usurpare tutto ciò che fosse maschile. Gli uomini occupavano le loro legittime posizioni, facevano il proprio lavoro, avevano i loro compiti e avevano anche il loro potere».

Del resto, come spiega Eva Cantarella (nella voce “matriarcato” da lei curata nell’Enciclopedia delle Scienze Sociali), Gimbutas non amava il termine “matriarcale”: «nella ricostruzione di Gimbutas questa dominanza delle donne non sarebbe stata sopraffazione e sottomissione degli uomini. Nel periodo al quale risale il complesso di simboli di cui sopra, infatti, non vi sarebbe stato né matriarcato né patriarcato bensì “gilania”, parola coniata da Gimbutas utilizzando le radici greche gy (donna) e an (uomo), unite da una l centrale, quasi a simbolizzare il legame tra le due componenti sessuali dell’umanità».

Com’è noto, gli studi della Gimbutas hanno ricevuto diverse critiche: dal punto di vista strettamente storico-archeologico, si considerano le sue conclusioni troppo speculative e orientate ideologicamente al fine di enfatizzare il ruolo (financo per alcuni l’esistenza) delle società matriarcali, in assenza di evidenze testuali. D’altro canto, uno studioso come Joseph Campbell, discepolo di Jung, definì il suo contributo in termini epocali come la scoperta della Stele di Rosetta.

Rimane, per chi scrive, comunque l’importanza determinante della sua opera, nel tentativo coraggioso e illuminante di “riscrivere” la storia dell’archeologia (dunque, la storia della civiltà), da un’altra prospettiva.

In anni più recenti un impatto simile, se non superiore almeno come clamore mediatico, è stato causato dalla scoperta archeologica di Göbekli Tepe, nella zona della Turchia prossima al confine della Siria. Si tratta di uno sito archeologico dalla rocambolesca scoperta: prima scambiato nel ’63 per un sito funebre, fu riscoperto casualmente nel ’95 da un pastore; a quel punto partì una missione guidata da Karl Schmidt, a guida di un doppio team (del vicino museo di Şanlıurfa e dell’Istituto archeologico germanico), successivamente passata alle università tedesche di Heidelberg e di Karlsruhe.

La scoperta è stata veramente sorprendente: un’imponente costruzione megalitica, formata da recinti circolari formati principalmente da enormi pietre calcaree a forma di T, decorati con rilievi animali e motivi astratti, alcune delle quali con tracce antropomorfe (ad esempio delle mani allungate lungo i fianchi della struttura), ribattezzate per questo da Schmidt “i vigilanti”.

La scoperta ha rivoluzionato la linea fino ad allora supposta dello sviluppo della civiltà umana, predatandola e capovolgendone l’interpretazione: sintetizzando in maniera brutalmente provocatoria, non sarebbero i culti sciamanico-devozionali a derivare dalla scoperta dell’agricoltura nella mezzaluna fertile, al contrario sarebbe stata proprio la spinta comunitaria alla devozione in luoghi sacri a indurre il processo di sedentarizzazione.

Parliamo di circa diecimila anni fa.

Un’ipotesi vertiginosa che riporterebbe il Sacro al centro dell’esperienza umana, come motore dello sviluppo sociale, non come sovrastruttura successiva allo sviluppo delle attività umane.

Anche in questo caso, per correttezza, devo riportare come una serie di ultime ipotesi derivate dagli ultimi scavi (secondo l’opinione di Lee Clare) facciano tramontare lo scenario del “tempio” come unico ruolo del sito, propendendo per una sorta di ampio rifugio per una comunità di cacciatori e raccoglitori.

Ma al di là del dibattito, chiaramente ancora in fieri, questa scoperta, e le speculazioni derivatene, ha ispirato una serie di intriganti suggestioni romanzesche: personalmente, confesso di essermi appassionato al tema durante la visione della serie turca The Gift (ingenua quanto suggestiva), fino a visitare il sito con degli amici archeologi; l’effetto dal vivo non può non far pensare, rimanendo su un piano di suggestioni da archeologia misteriosa, a uno scenario stile X-Files.

Ancor più impressionante è il sito “gemello”, i Karahan Tepe (“tepe” in turco vuol dire “collina”, “cima”), sempre nella provincia di Şanlıurfa, a circa 40 km dal più noto, ancora anteriore (circa 12mila anni fa), ma attualmente ancora in fase di studio, dunque meno promosso mediaticamente.

Posso testimoniare l’emozione “primordiale”, se mi consentite un’espressione così vaga e ingenua, nel vedere dal vivo statue antropomorfe, dal volto impressionante per intensità espressiva, che ci guarda con fissità ieratica dalla Preistoria.

Da qualche settimana a Roma, nel Parco Archeologico del Colosseo, è aperta una mostra, “L’enigma di un luogo sacro”, dedicata proprio alla sconvolgente scoperta archeologica di Göbekli Tepe.

Personalmente, ho avuto la possibilità di visitare il Museo Archeologico di Şanlıurfa, che ricostruisce su scala 1:1 il sito archeologico e consente quindi di visitarlo “virtualmente” con una capacità di dettaglio molto realistica (il sito dal vivo è chiaramente visitabile solo da una distanza di sicurezza), ma credo che sia comunque una possibilità interessante per scoprire un vero e proprio “evento” della storia dell’archeologia.

In un periodo in cui le masse sono preda di un’accelerazione tecnologica inversamente proporzionale alla ricerca interiore, riscoprire l’archè può essere una fonte di salvezza.

Credo che sia più saggio cercare di ritrovare il senso dell’esistenza seguendo le indicazioni contenute nei frammenti di Eraclito o nel Prologo di Giovanni, piuttosto che nei tweet di Elon Musk o nelle risposte di Chat Gpt.

Da Il Quotidiano del Sud – Riportare in vita una madre, strapparla all’oblio della morte, raccontare di lei in onore della figlia, è un gesto di amore femminile per la madre. È quello che ha fatto la scrittrice Maria Rosa Cutrufelli col suo libro Maria Giudice. Vita folle e generosa di una pasionaria socialista (Neri Pozza 2024), scritto in onore della figlia Goliarda Sapienza, sua amica e compagna di scrittura, in ricorrenza quest’anno del centenario della nascita. È dal ricordo del gruppo di scrittrici femministe, tra cui Adele Cambria e Elena Gianini Belotti, di cui facevano parte entrambe, che l’autrice parte per introdurci nel racconto della vita straordinaria di Maria Giudice, vissuta tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Una vita segnata dalla militanza politica, sindacale e giornalistica, dal carcere e dall’esilio. Una militanza vissuta a fianco degli operai e dei contadini, in particolare delle operaie e delle contadine, da segretaria della Camera del Lavoro di Voghera, Torino e Catania. Il racconto della sua vita si intreccia col contesto storico del suo/nostro tempo. Per Maria la politica non è «mestiere» o «voglia di comando», ma una visione del mondo e un accesso alla «sua personale libertà». Il partito, a cui si iscrive giovanissima, per lei non è solo una tessera, ma un modo di essere e «di agire in ciascuna circostanza della propria esistenza». E il giornale è «uno strumento politico» che unisce «i lavoratori dei campi, delle officine e quelli della penna» ma è convinta che è il socialismo «l’unica vera scuola». È una brava oratrice e le donne affollano i suoi incontri e conferenze per lo più clandestine. Non autorizzate. Nei rapporti delle prefetture è definita una «socialista intransigente». In carcere incontra Umberto Terracini e con Gramsci, compagno di partito, dirige il giornale “Grido del popolo”, organo dei socialisti piemontesi. Donna determinata, fiera, appassionata e anticonformista, Maria eredita la passione politica dal padre Ernesto che da ragazzo si arruolò nelle truppe di Garibaldi, e dal nonno che fu seguace di Mazzini e affiliato alla Carboneria. Dalla madre, Ernesta, eredita l’amore per la scrittura e per i poeti, classici e moderni, amore che trasmette alla figlia Goliarda. La madre la fa studiare e diventa maestra elementare. Insegna, ma per poco. Viene licenziata per condotta immorale, in quanto unita in “libera unione” con Carlo Civardi, prima, e Peppino Sapienza, poi, suoi compagni di vita e di lotta, perché madre di figlie/i fuori dal matrimonio e per le sue idee politiche e religiose. Motivi per cui sotto il fascismo la sua domanda di insegnare viene respinta. «L’amore è cosa così intima, così assoluta che il farne un atto pubblico, peggio ancora, ufficiale, è un profanarlo», scrive. Accetta come necessità, ma non per sé, il matrimonio civile perché «questa società, ingiusta e imprevidente, ancora non si crede in obbligo di provvedere ai nati di donna». Tiene comizi e conferenze non autorizzate contro la guerra e viene arrestata. «Prendi il fucile, gettalo per terra, vogliamo la pace, mai più la guerra» è il suo grido pacifista. La dittatura fascista la condanna all’isolamento con lo scioglimento dei partiti, dei sindacati e dei giornali d’opposizione. Il suo corpo si ribella, si ammala e finisce in una clinica per malattie mentali. Il compagno Sapienza entra nella Resistenza e la figlia Goliarda fa la staffetta. Con la fine della guerra Maria ritrova se stessa e con l’antica compagna Angelina Balabanoff riprende l’attività politica. Muore nella notte del 5 febbraio 1953, tra le braccia della figlia Goliarda. Al suo funerale Terracini, Saragat e Pertini e «un mare di garofani e compagni di ieri e di oggi». Dopo, per la figlia comincia «il lutto interminabile».

Da Indiscreto.org – Mentre scrivo sono un po’ stanca. Ne sono consapevole. Eppure, sono quella che si può definire una libera professionista che può gestire il proprio lavoro e che ha la possibilità di non svegliarsi presto la mattina e di non timbrare il cartellino. Eppure, sono stanca. Spesso. Anche se medito, pratico yoga, addirittura insegno a meditare. Sono stanca. Stanca ma felice, perché sono libera: non ho un capo, nessuno che mi comanda e che decida per me. Scrivo, scrivo sempre molto. Articoli, libri… e questa credo che sia la mia salvezza. Perché secondo il sudcoreano Byung-Chul Han, se la cavano meglio solo i poeti e i filosofi, perché in realtà, i liberi professionisti non sono liberi proprio per niente, anzi, rappresentano La società della stanchezza, per citare proprio il titolo del suo libro pubblicato da nottetempo nel 2020.

Non solo società della stanchezza, ma una società sfinita, esaurita, in continua competizione con sé stessa, che si autodivora, si autoschiavizza, si autosfrutta, si autodistrugge. La società dell’autosfruttamento, della concorrenza spietata con il proprio Io idealizzato e che deve prevalere e brillare. Una società diversa da quella che doveva timbrare il cartellino, la società disciplinare, per la quale la felicità era rappresentata dall’abbandono delle proprie inclinazioni in favore della virtù, della morale, dal fare le cose per bene, seguendo le regole. La società della stanchezza, invece, ha fatto diventare pure le spiagge di Bali dei campi di lavoro. Perché tanto, il lavoro, oggi, te lo puoi portare dappertutto, non è bellissimo? La società dell’autorealizzazione, dell’ottimizzazione, della prestazione e del burnout come stile di vita. La società della depressione democratica, delle nevrosi e della sopravvivenza, della salute a tutti i costi come nuova divinità. Una società, la nostra, che si è persa per strada il senso di tutto: la festa solenne e la vita contemplativa.

Da Internazionale – Gruppi di tifosi arrivano mercoledì in una città straniera per seguire la loro squadra. Aggrediscono e minacciano le persone del posto, gridano slogan razzisti, strappano e bruciano bandiere, lanciano sassi. La polizia non interviene.

Giovedì sera, alla fine della partita, escono dallo stadio e raccolgono mazze e pietre. Gruppi di cittadini reagiscono con violenza, li inseguono, ne picchiano alcuni. Cinque tifosi finiscono in ospedale, con leggere ferite. Altri sono scortati nei loro alberghi dalla polizia, che il giorno dopo li riaccompagna in aeroporto.

Potrebbe finire qui, un caso di cronaca i cui protagonisti sono ultrà violenti e razzisti. E invece no. Perché i tifosi sono sostenitori di una squadra israeliana, sono di estrema destra e hanno inneggiato al massacro dei palestinesi in una città dove solo nell’ultimo anno ci sono state 2.700 manifestazioni per la Palestina.

Per alcune ore la dinamica degli incidenti rimane confusa, e mentre sta finendo di radere al suolo quello che resta di Gaza, il premier israeliano Benjamin Netanyahu riesce a capovolgere il racconto approfittando delle poche informazioni disponibili. Parla di Kristallnacht, l’infame notte dei cristalli del 1938, quando i nazisti scatenarono in Germania una serie di pogrom contro gli ebrei.

Tutti si accodano, politici occidentali e mezzi d’informazione, accomunati da un riflesso condizionato così forte da appannare la vista e da non permettere più di distinguere tra i fatti e la loro manipolazione.

Anni fa il linguista George Lakoff spiegava bene questo meccanismo: “I frame sono cornici mentali che determinano la nostra visione del mondo e di conseguenza i nostri obiettivi, i nostri progetti, le nostre azioni e i loro esiti più o meno positivi. In politica i frame influiscono sulle scelte e le istituzioni che le attuano. Cambiare i frame significa cambiare le une e le altre. Il reframing equivale di fatto a un cambiamento sociale”.

Ad Amsterdam, la scorsa settimana, abbiamo assistito a un caso da manuale di reframing.

Da Il Quotidiano del Sud – Il parto di che mondo e mondo è un’esperienza solo delle donne che per secoli hanno partorito in casa aiutate da levatrici, poi ostetriche, mammane, vicine di casa, donne anziane esperte. Donne custodi di saperi, competenze e relazioni cancellate dall’ospedalizzazione e medicalizzazione del parto, ritenuto dalla medicina ufficiale più sicuro. Un “Gruppo di ostetriche” di Mestre, sulla spinta del movimento politico delle donne, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha tenuto in vita la pratica del parto in casa, rendendo onore al «sapere scientifico femminile» e ponendo al centro la relazione tra madre ed ostetrica. Un’esperienza la loro che Franca Marcomin, fondatrice del gruppo, racconta nel libro Parti in casa a Venezia. Storia di un’ostetrica femminista e delle sue colleghe, edito da Il Poligrafo. Ciò che spinge l’autrice è il desiderio di lasciare memoria e testimonianza di quarant’anni di straordinaria esperienza sua e delle sue colleghe, di formazione e trasmissione di memoria che hanno cambiato la concezione di questa antica professione. Destinatarie del libro sono le giovani ostetriche neolaureate o in procinto di laurearsi perché «sappiano che non partono da zero. C’è una genealogia femminile a cui riferirsi, che costituisce un precedente di forza» e perché traggano orientamento «dall’elaborazione e dal pensiero delle donne sul parto». Al racconto diretto dell’autrice si unisce la voce delle colleghe attraverso interviste e quella di alcune delle madri aiutate in questi anni a partorire in casa in modo naturale, restituendo «autorità ai saperi, alle pratiche e alle relazioni femminili presenti sulla scena della nascita». Racconti e testimonianze che ci dicono come la casa «si è rivelato il luogo più vicino a una nascita naturale e non violenta», senza traumi e ferite, di cui le madri sono protagoniste attive e non passive, e le ostetriche si riappropriano di quella autonomia di cui hanno goduto per secoli le loro ave e che negli ospedali è stata loro tolta da medici, ginecologi e primari. Le donne hanno sempre saputo come fare nascere le loro creature, le ostetriche sanno come aiutarle a partorire in modo “naturale”. È pur vero che «non tutte le donne possono partorire a casa propria», allora perché non «rendere l’ospedale il più possibile simile a una casa?». Trasformare le strutture ospedaliere per «fare del momento della nascita un’esperienza soddisfacente per la madre, il padre e il neonato o neonata», come nel parto in casa, è stato l’obiettivo dell’autrice e delle sue colleghe che hanno continuato a lavorare anche in ospedale, qualcuna, invece, si è licenziata. Si sono impegnate per avere ovunque «forme pubbliche di assistenza per il parto in casa e l’assistenza a domicilio dopo la dimissione precoce dall’ospedale dopo il parto». Qualcosa in molti ospedali è cambiato, grazie a loro e a tante altre: c’è di nuovo l’autonomia nell’assistenza al parto fisiologico e l’ostetrica può far intervenire il medico solo quando ne ravvisa la necessità clinica. Alcune regioni nei loro piani sanitari hanno inserito la possibilità di scelta dei luoghi del parto e/o il rimborso delle spese dei parti a domicilio. Molto deve ancora cambiare: il parto in casa è solo l’1%, non è offerto dal Servizio sanitario e nessuna legge nazionale in tal senso è stata mai approvata, anche se presentata. «Credo sia giusto che ogni donna possa scegliere di partorire nel modo che lei sente più sicuro e giusto per sé», dice una madre con esperienza di parto sia in casa che in ospedale. In un tempo in cui si cerca di cancellare la madre attraverso l’utero in affitto non ci si deve dimenticare «che comunque il luogo del parto è il corpo sessuato» di donna. Un corpo che si vuole cancellare come le levatrici, che le figlie, loro eredi, onorano con il loro racconto.