da DoppiozeroHo delle polaroid incastrate nella cornice del grande specchio che occupa la parete della sala: una piastrella di Lisbona, un lampione di Venezia, dettagli di corpi femminili di marmo. Le hai scattate tu: è il tuo sguardo. C’è poi un altro scatto, questo è nella mia testa: verso Punta della Dogana, sono dietro di te, sei di spalle e le canette ti girano attorno. Sei avanti, e un po’ in là, a capire prima. L’ultima volta che ci siamo viste hai detto che ci aspetti davanti al mare, con i sassi di Nervi: ci hai descritto la sottile linea bianca che li attraversa. Avrai con te Lisetta, Goliarda, Agota, Grace, Anne e tutte le altre.
Anna Toscano era poeta, docente, scrittrice, fotografa e critica. Abbiamo le sue raccolte di versi (Cartografie, Samuele Editore è l’ultima raccolta pubblicata); i suoi saggi (Il calendario non mi segue. Goliarda Sapienza; Con amore e con amicizia. Lisetta Carmi, Electa edizioni); gli articoli su queste pagine (Anna Toscano) e molte altre riviste – Artribune, Domani, Nazione Indiana, Il Sole 24 Ore, Rivista Studio. Scriveva con le parole e con gli abiti che sceglieva, con i giocattoli rotti da salvare, con le piante e le teiere, con le scatole di biscotti e la polvere nelle tasche. Trascorreva il tempo «disponendo parole, spostando oggetti, leggendo virgole e accudendo cane, che è tutta un poco la stessa cosa».
Come la si ricorda? Come si restituisce quanto ha attraversato e raccontato? Siamo tra noi, qui, dove, con te, ci troveremo sempre: nelle voci femminili che ci hai fatto incontrare e hai intrecciato; voci di carta e di carne, di manichine e di cose. Voci che si son fatte, tra le tue mani, versi corpo e carne.
[Anna Stefi]
«E se mi risveglio sulla Striscia di Gaza?». È la prima cosa che mi hai detto quando siamo venute a salutarti per l’ultima volta, e mi ha fatto pensare di essere arrivate comunque in ritardo, che la tua testa bellissima fosse già andata allo strazio di chi muore lontana quattromila chilometri, lasciando il tuo corpo qui a fare i doveri di casa con un’ospite privilegiata che non ne voleva proprio sapere di salutarti per sempre. Ma sbagliavo: eri tu, tutta tu, che tieni insieme i vivi che lasci a Venezia e i morti di Gaza; le nostre cane sgangherate e le vetrine delle pasticcerie; le mostre da vedere e i cimiteri su cui lasciare piccole cose perché in fondo che cos’è una tomba se non un museo e viceversa?; tua madre che si impone per dire la sua anche da morta e mia figlia di lato che ti torna nei sogni; le reiette come fossero protagoniste di un romanzo da scrivere e le scrittrici come se fossero da struccare, mettere davanti a una fetta di torta e parlarsi; la vita con tutta la morte che può contenere. Hai sempre parlato con la morte, tu: la portavi alle feste, ai festival, l’hai infilata nei regali che ci spedivi, nelle poesie che scrivevi e in quelle delle care altre che ci leggevi. Ci hai dialogato così bene con la morte da aver convinto un allora novenne molto attento che assisteva in prima fila ai tuoi racconti su Lisetta, che la nostra potesse non solo essere ancora viva, a girovagare in qualche vicolo genovese fotografando gli ultimi come fai tu, ma addirittura che gli avesse dormito accanto per tutta la notte seguente. E parlavi con la morte così bene da aver convinto anche me, sai, che a gennaio sentendo la parola tumore ho pensato addio, che a giugno vedendoti stanca dopo pochi passi ho pensato basta, e a dicembre leggendo il tuo «Chiara, sono gli ultimi giorni» ho pensato ecco, che quando mi hai salutata alla fine, invece, ho creduto che tu e la morte insieme avevate trovato ancora una soluzione e che avrebbe tenuto insieme anche me, come tutto quello che ci portavi tu dall’altrove. E così: eccomi qui a parlarti, Anna.
[Chiara Alessi]
Ho pochissime vere amiche che fanno il mio stesso mestiere, quello delle parole, così poche che stanno in una mano e tutte abitano lontano da Napoli. Fra tutte Anna Toscano era l’unica ad avere la mia età. Adesso è andata ad abitare così lontano che non posso più ricevere i suoi pacchetti né spedirle i miei. Tuttavia, non sarà mai così lontana da non risentire la sua voce che per vent’anni mi ha raccontato cose. Ad esempio, di manichine, che salvava e collezionava. Una volta ne vidi una antica in un negozio e le mandai la foto: «Salvala! Salvala!», mi scrisse. Ma costava troppo, dovemmo abbandonarla. Mi ha raccontato dei suoi genitori, di sua nonna, di sua sorella, di case, delle poete che amava, Anna Maria Carpi, Bianca Tarozzi, di canette, di Gianni che avrebbe poi sposato.
Anna è stata poeta di qualità superiore, Al buffet con la morte e Cartografie sono due capolavori, curatrice geniale di antologie, Chiamami col mio nome, prima riscopritrice dei versi di Goliarda Sapienza, perfetta narratrice di vite, da Goliarda a Lisetta Carmi. Ogni volta che le ho affidato una donna da raccontare in Strane Coppie (Janet Frame, Sybille Bedford, Agota Kristof o Carson McCullers), lo ha fatto con tale immersione che tutte ne saltavano fuori salvate.
Quel che dovrebbe fare chi scrive davvero è essere sempre immersa nel dolore, trasformandolo in parole l’indicibile, e cercare con ogni sua forza chi lo ha fatto prima e resta esclusa, o dimenticata. Due attitudini che in Anna erano acutissime, perché nessuna restasse indietro, nemmeno le manichine. E poiché più spesso alle donne capita in arte d’essere seppellite, Anna con metodo metteva luce e tesseva fili. E intanto passeggiava per Napoli in un gran contrabbando di frolle, le sue preferite. Penso spesso a quella gelateria che chiude e causa la morte della nonna, ultimo baluardo della vita in Al buffet con la morte: ci sarà molto da scrivere su che spazio occupa la sua poesia nel canone contemporaneo, delle parole che ha reso coloratissimi pesci-gioiello, perle di impiraresse veneziane, pura bellezza, cristallo di dolore. Grazie Anna, poi ci sentiamo.
[Antonella Cilento]
È stata Agota Kristof. Dovevo debuttare con Trilogia della Città di K. al Piccolo e un giorno ho scritto ad Anna. Mi ha accolta come se ci conoscessimo da sempre. Ho ritrovato con lei una più lucida misura, senza perdere il trasporto che entrambe nutrivamo per quella storia bella e terribile. Poi è venuta a Milano: aveva scritto un bel testo per il programma di sala senza vedere ancora nulla, ma c’era già tutto. Pensai che avesse un superpotere. Al bar accanto al Melato, abbiamo parlato per due ore di Agota, Goliarda Sapienza, Mariella Mehr, poesia, amicizia, maternità, scioperi (ce n’era uno e lei doveva tornare a Venezia), tempi perduti e ritrovati. Ero stordita, felice. Anna è venuta allo spettacolo, ha scritto, abbiamo fatto un incontro col pubblico. Era così: definitivamente generosa. Ogni tanto mi arrivava un’immagine notturna o solare da Venezia. Un pensiero affettuoso, idee vive e brillanti, il racconto di un sogno. In una strana notte insonne, ad esempio, le era apparso un corteo di otto Goliarde su un palcoscenico e ognuna si raccontava: una per ogni evento forte della vita. Era certa, disse, che fosse stata la “mia” Trilogia a farle comparire a quel modo. Le ho scritto a metà ottobre: vieni a teatro? Facciamo L’analfabeta! Lei ha risposto, al solito festosa: è una notizia bellissima! Ma non l’ho più sentita e mi son detta: forse posso riscriverle… Dieci giorni dopo è arrivata una sua foto: Federica Fracassi agli applausi di fine spettacolo. Con un commento: «Super!». Cara Anna, se penso a quanto abbiamo ragionato su Lucas, Claus e ogni finale possibile! Adesso, per quanto sia incredibile non poterne riparlare, posso quasi vederti mentre ne discuti, in quel tuo modo senza scorciatoie, direttamente con la nostra Agota. Vi vedo, un po’ appartate, nel misterioso mondo ancora a noi precluso, coi begli occhiali tondi e, dietro, i vostri occhi intelligenti, insieme allegri e malinconici, e mi sembrate assai più forti di ogni possibile visione.
[Chiara Lagani]
«Il corpo pare lo dobbiamo restituire / e quanto ci è costato / dobbiamo cedere tutto al mondo / quando ce ne andremo»: ho ritrovato questi versi ieri, sottolineati in Cartografie, libro di poesie pubblicato da Anna l’anno scorso. Era insieme a un altro che lei mi aveva consigliato, sapeva a cosa stavo lavorando e mi mandava fotografie di pagine, riferimenti, consigli, sollecitazioni. Perché Anna era sempre generosa del suo sapere e dei suoi talenti, che in lei diventavano anche azione, attenzione, presa di posizione e luogo dove stare insieme nel comprendersi. Dono prezioso e unico. Come erano le sue polaroid che lei scattava a persone, cose, ombre: “quell’ombra della polaroid in cui l’ombra di un lampione crea delle lancette” un brandello di quello che mi aveva scritto inviandomene una che mi aveva fatto fantasticare, entrare nell’incantamento del suo raccontare. In questo confuso scrivere, impastato dal dolore, dalle emozioni, dal rimpianto (dovremo poi scrivere della grande eredità di Anna, dovremo renderle omaggio cercando di dare il giusto valore al suo incredibile lavoro), non riesco a non pensare al corpo di Anna. Accanto, quello di Gianni. Un corpo grande, in cui ti veniva naturale rannicchiarti, ascoltando le sue parole. Era bello vederla arrivare con la sua camminata tra il baldanzoso e il pensieroso. Il suo stile era inconfondibile, e a me piaceva tantissimo. I capelli dal taglio preciso che rendevano grafico il suo bel volto. Le magliette a righe messe una sopra l’altra, i jeans ampi. Gli accessori che lei scovava ovunque. Lei sapeva tenere tutto insieme senza pregiudizi. Le piacevano le sovrapposizioni, sorta di personalissima post production. I cappelli tanti, e le stavano sempre tutti bene. Gli occhiali importanti che mettevano in evidenza i suoi occhi attenti e curiosi. Ecco Anna, io sono lì in campo Santa Margherita, forse ti aspetto alla Marcopolo, e tu arrivi e mi dici che non è vero mentre mi abbandono al calore di quel tuo corpo grande e generoso.
[Maria Luisa Frisa]
Nella borsa ho un astuccio, una busta di tela écru con la cerniera tortora che mi ha regalato Anna qualche anno fa. A un certo punto ho preso una borsa nuova perché ci stesse dentro meglio. C’è stampata sopra, con la sua calligrafia, una delle sue poesie. «Io con le parole faccio cose / con le parole svuoto una stanza / con le parole compio una danza / cucino un risotto, vado al ridotto. / Con le cose faccio parole / scelgo un baule / e lo riempio di sillabe nuove». Anna con sapienza e pazienza quotidiana ha restituito delle parole a una persona schiva e asciutta come me perché potessi riutilizzarle, è la persona con cui giorno dopo giorno ho condiviso nell’ordine cani, attrezzi, piante, cuori, cappuccini freddi e, naturalmente, libri. Entrambe golosastre autolimitantesi, con Anna voglio condividere ancora un biscotto.
[Sabina Rizzardi]
Ti chiamo col tuo nome, Anna, e ti chiamo antenata.
Antenata coetanea – tu grande, io molto più piccola – con una vocazione comune di orfane da parte di madre per vie divergenti: ripercorrere la strada a ritroso, cucire arazzi con i detriti seminati dalle altre, detective sulle tracce delle parole di chi ci ha precedute, archeologhe di matrilogie. Ogni donna che scrive sa che lo fa sulle loro ossa: entra in uno sterminato cimitero e si accomoda su quello che altre hanno pensato, poi scritto.
Ti chiamo col tuo nome, Goliarda, e ti chiamo ancestrale.
Qualcuna di atavica, primordiale, che sa cose che noi altre non sappiamo. Come: che non conviene sottrarsi, ma accoglierla, quando arriva, e farsi ricoprire dal suo corpo di pietra caldo di sole. E anche: che il buio non è nero, che il giorno non è bianco, che fermarsi è correre ancora di più.
Ti chiamo col tuo nome, Janet, e ti chiamo tempesta.
Proprio l’altro giorno mi dicevi: della tempesta ti puoi fidare, del paciugo di alghe, gusci imperfetti, uccelli laceri, rasoi affilati, corni d’ariete e conchiglie che lascia scritte sulle miglia di spiaggia. E poi hai aggiunto: tu piangi ora e mi parli di vita. E tu che non piangevi.
Ti chiamo col tuo nome, Wisława, e ti chiamo cuore.
Ascolta, ti dico ora, come mi batte forte il tuo, di cuore. Lo sapevamo, poteva accadere, doveva accadere, è accaduto prima. Però morire – questo a una gatta non si fa. Perché cosa può fare una gatta in un appartamento vuoto?
Ti chiamo col tuo nome, Anna, e sopra tutto tutto questo ti chiamo amica, mia nostra.
L’autunno si è fermato sui rami, è immobile. Forse sei solo andata nell’altra stanza al buio a prendere gli occhiali. Perché chi è amato non conosce morte, perché l’amore è immortalità. O meglio, è sostanza divina.
[Laura Pezzino]
Anna, zazzera corta che non sapeva ingrigire, occhiali tondi e magliette a righe su pantaloni ampi e scarpe sempre pronte a saltare nel vento e nel mare, quando ho saputo che la tua anima era libera ero su treno che non mi stava portando da te come altre volte, e tra le lacrime ho scritto due (brutte) poesie che parlano della distanza e del tempo, ero furiosa con loro. Volevo farti una torta di mele, che ti piaceva tanto, e invece ho scritto una poesia. Era successo così anche alla tua Goliarda che in una notte di disperazione, quando perde sua madre, inizia a scrivere. Forse per questo la amavi tanto, entrambe sapevate che la propria parte di gioia si ricava scavando con le unghie e la penna nella roccia dei dolori. Eri poesia. Tu accettavi la vita perché sapevi danzare con la morte e la perdita, invitandole a un buffet, prendendole in giro, tirando loro i noccioli dall’altro capo del tavolo, divertita. La tua voce per me era un flauto magico e mi prendevi in giro con Gianni perché a ogni vostro reading di poesia io piangevo sempre, come se quella tua voce con un solo sussurro potesse smuovere in me slavine trattenute troppo a lungo. L’ultima volta che l’ho sentita è stato a novembre, raccontavi di un incontro immaginario tra Lisetta Carmi e Goliarda Sapienza. Era la tua voce di sempre, solo un poco più stanca. Ora ti vedo entrare in quella stanza con loro e tutte le altre che hai amato, nella luce obliqua di dicembre, prendete un tè e una fetta di torta, ridete, ti vedo stringerle come hai fatto con noi Altre a cui hai aperto la porta e il cuore, rendendoci sorelle, ovunque fossimo. Hai scritto in una delle tue poesie che in questa vita tutto è in affitto, tutto va ceduto, prima o poi, tranne che il cuore, quello è l’unico posto che si occupa per intero. Il nostro oggi è allagato da te, diventato in un giorno una Venezia dall’acqua sempre troppo alta. La tua Goliarda diceva che «i morti hanno torto se dopo morti non c’è nessuno che li difende» e tu, qui da noi, avrai sempre ragione, finché non ci vedremo di nuovo, al mare.
[Giorgia Antonelli]
Anna ha sempre visto oltre la trama del visibile: me ne sono accorta dalla prima conversazione che abbiamo avuto, riguardo una scrittrice di fulgido talento scomparsa troppo presto, cosicché la memoria di lei si era dissolta e i suoi libri erano rimasti a navigare alla deriva, senza nessuno che se ne ricordasse. Nessuno tranne Anna, la sola persona che all’epoca delle mie ricerche su Brianna Carafa seppe mostrarmi la via. Siamo diventate amiche parlando di letteratura e poi subito di cani, poi di capelli, di anelli e manichini, poi di Fortuny e di Proust e delle pietre di Venezia, poi ancora di amore, di case, di paure. Ho in testa le increspature nella sua voce mentre manda un messaggio vocale salendo e scendendo da un ponte come in quella sua poesia bellissima in cui il ponte è il passaggio e oltre il ponte lei torna bambina, con le scarpe con gli occhi e tutto ricomincia. Anna ha avuto – ha ancora, perché l’ha impressa nelle poesie che in questi giorni zampillano da ogni dove – delle cose invisibili e sommerse, una visione così precisa da permetterle di porgerti pensieri quasi calmi, pacificati in una saggezza percorsa da un’inquieta corrente sotterranea: nell’equilibrio della sua specifica forma di eleganza ribolliva una personalità forte persino nelle delicatezze, un’allegria tenace per virtù di coraggio. In lei ho sempre sentito una forma di assoluto che si sposava all’attenzione per cose minuscole, rivelazioni splendidamente pragmatiche.
Non ho incontrato mai nessuno che guardasse come lei: con un’esattezza misurata e appassionata, da dietro i suoi occhiali inconfondibili, come tutti gli oggetti che intorno a lei si animavano di vita infusa dal suo gusto per il bello, l’essenziale, il poetico. In una domenica di settembre, dopo avermi raccontato i segreti di Venezia, sotto il cielo bianco mi ha sorriso dall’imbarcadero, Gianni accanto, le canette al guinzaglio. E mentre il vaporetto si allontanava, dalla laguna ho guardato quel loro amore strepitoso, per sempre salvo.
[Ilaria Gaspari]
Mi sono crogiolata molto
tra parentesi (mie o di altri)
senza scansione del tempo che non fosse interna.
Non avevo capito che è il punto
– come dicono anche i manuali di scrittura –
che rende possibile il respiro.
[Anna Toscano]
da volerelaluna
«Il vecchio continente […] deve reagire, a cominciare da una vera Unione della Difesa, costruendo un’Unione federale e difendendo l’Ucraina». Così, in un’intervista di Repubblica a Daniel Cohn-Bendit, che conclude: «Spero che gli storici futuri [ma ci saranno? ndr] potranno dire: “L’Europa ha vinto contro il mondo del male, ossia gli Usa, la Russia e la Cina”» [e tutto o quasi l’ex Terzo mondo, ndr]. Cioè, “buoni”, l’Europa; e “malvagi”, tutti gli altri. È il punto di approdo di una deriva che ha portato molto lontane tra loro vite che più di mezzo secolo fa si erano trovate accomunate nelle lotte del ’68 e dei primi anni ’70. Una distanza cresciuta nel corso degli anni ma resa ancor più profonda con l’esplosione della guerra in Ucraina: un percorso analogo a quello di Adriano Sofri, di cui sono stato e sono amico ed estimatore della sua intelligenza e della sua onestà intellettuale; come lo ero e sono di Daniel Cohn Bendit. L’esito obbligato di quelle derive è la militarizzazione della società in vista della guerra: calda, fredda o ibrida, locale o globale, convenzionale o nucleare; chi può dirlo?
Ma affidare la ricostituzione di un’identità liberaldemocratica europea alle armi, alla sua militarizzazione, là dove hanno fallito la politica istituzionale, il mercato, la finanza, l’euro, il vantato primato ambientale e quel simulacro di transizione che è stato il Green Deal significa consegnare il destino dei popoli europei agli Stati maggiori delle forze armate e all’industria delle armi. Scompare così dall’orizzonte di chi ha percorso quella deriva qualsiasi preoccupazione per il futuro del pianeta e di ogni suo territorio, minacciati dalla crisi climatica: ha un bel dire, Cohn-Bendit, che Trump ha cancellato il problema; chi opta per il riarmo come priorità compie la stessa scelta, ma senza dichiararlo. E non è poco. Ma scompare con essa anche il frutto più ricco e promettente della presa di coscienza di mezzo secolo fa: la lotta al patriarcato, portata “in prima linea” dal femminismo. Che non è solo lotta alla violenza sulle donne – residuo di un passato che resiste o emergenza di una difficile transizione – ma è denuncia e decostruzione di ogni forma di dominio: lo sviluppo di quello che era stato – soprattutto per Cohn-Bendit – il programma del ’68 e delle lotte di fabbrica e sociali degli anni successivi: la destituzione del potere degli oppressori sugli oppressi (Freire), di chi comanda su chi è condannato a obbedire, del prepotente sui diritti degli altri e – come ci mostra l’attualità degli “effetti collaterali” della guerra – dell’ipocrisia sulla verità, della corruzione sull’onestà e del cinismo sulla fraternità e sulla sorellanza. Vi contribuisce una visione del mondo ridotta a una giocata a Risiko, dove ci sono solo guerre, armamenti, confini, conquiste, vittorie o rese: una visione innescata dal sostegno a oltranza dell’Ucraina aggredita – con armi altrui e sacrificio di soldati locali – senza alcuna prospettiva di sbocco se non il crollo della Federazione Russa o una ecatombe nucleare, senza mai prospettare un negoziato sensato o anche solo una tregua vera.
Come scrive l’appello firmato Scienza Medicina Istruzione Politica Società (www.smips.org), «Si tratta dell’ultimo stadio della forma economico-sociale dominante, consistente in un capitalismo militarizzato, che per presidiare il dominio del denaro e di una finanza incondizionata, procede alla militarizzazione non solo di tutto ciò che attiene alla cosiddetta sicurezza, ma della intera, cioè della mente, del cuore, della cultura, dell’informazione, dell’Accademia, della scuola». Ma quella corsa alla militarizzazione della società si rivela, giorno dopo giorno, diretta non solo verso l’esterno, “il nemico”, ma anche e soprattutto verso l’interno: il migrante (in un’epoca in cui milioni di abitanti del pianeta saranno costretti ad abbandonare le loro terre, rese invivibili da guerre e crisi climatica), l’escluso, il dissidente, il povero; la guidano in questa direzione i governi dell’Unione Europea (rientrati, dopo la Brexit… nel Regno Unito) ma, in ultima analisi, ancora gli Stati Uniti; e non solo quelli di Trump: Fuck the EU! diceva una portavoce di Obama innescando la vicenda che ha portato all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin: e i governi dell’Unione europea allora come fino a ieri, non hanno fatto che adeguarsi…
Oggi tutto l’establishment occidentale – non solo governi e partiti, ma anche media, Università e associazioni professionali, impegnati a convincerci che non c’è alternativa alla guerra – va contrastato in nome della diffusa volontà di pace che persino i sondaggi riconoscono maggioritaria ovunque e che le manifestazioni per la Palestina in corso in tutto il mondo mettono in evidenza con il loro rinnovato attivismo. Stiamo assistendo o siamo attori, in diversa misura e con diversa intensità, di una mobilitazione mondiale che ai temi della pace e del contrasto al riarmo accomuna in misura crescente difesa dell’ambiente, dei salari, dell’occupazione, della salute, dell’istruzione: tutte vittime designate della corsa alle armi. Ma nei popoli, tra la “gente”, il desiderio di pace è ben più esteso dell’arco delle associazioni e dei movimenti che si riconoscono in questa convergenza di temi. Per questo è urgente che le organizzazioni coinvolte nelle attuali mobilitazioni si facciano promotrici, a livello per lo meno europeo, di un appello rivolto anche a tutte le forze contrarie a guerre e militarizzazione – quali che siano le loro posizioni sulle altre questioni di ordine sciale e ambientale – affinché si impegnino, nei rispettivi ambiti, a portare contraddizioni e disgregazione dentro il furore bellico dei propri rappresentanti. Il tempo è ora!
da il manifesto
Anatomia di una separazione o documento politico sulla relazione tra i sessi, rileggere oggi Vai pure è di una certa attualità. Si tratta del volume che Carla Lonzi prepara e pubblica nel 1980 riportando la sua conversazione in quattro giornate con Pietro Consagra, facendoci entrare dentro il rapporto tra una donna e un uomo. Si erano conosciuti alla metà degli anni Sessanta, Lonzi e Consagra, e a unirli era stata l’arte, ambiente da cui lei decide presto di congedarsi perché non corrispondente alla sua radicalità, ma soprattutto un legame d’amore. Forte, importante, fatto di alleanza e desiderio, soprattutto nei primi anni, non sempre facili, poi di conflitti insuperabili. Uscito per la prima volta nei «Prototipi» delle edizioni di Rivolta Femminile, viene ripubblicato nel 2011 dalle edizioni et.al e ora è nuovamente disponibile per La Tartaruga (pp. 168, euro 19), a cura di Annarosa Buttarelli che ne firma una puntuale postfazione.
A casa di Carla, luogo indicato in quelle 4 giornate del 1980 dal 25 aprile al 9 maggio, registrano ciò che si dicono riportando su carta l’analisi incarnata di una resa dei conti. Per comprendere come arrivano a quel punto si può intanto leggere il diario di Lonzi, Taci, anzi parla (1978, poi 2010 e 2024), in cui «Simone» (cioè Pietro) è tra le sue interlocuzioni significative, se ne possono osservare le mutazioni via via che la scoperta del femminismo diviene inaggirabile indagine di sé, quando l’autocoscienza prosegue e rompe le illusioni, una per una, smantellando inganni, sistemi di potere e inferiorizzazione.
Nel 1973, Lonzi appunta diverse cose proprio nel suo diario rivolgendosi al suo compagno di allora: «Avevo diversi amici, personalità di cui subivo l’influenza, però sono stata saggia e oculata: il cuore, proprio il cuore l’ho dato a te, e era la parte più veritiera. Con te ero più me stessa, tu mi amavi più come ero, gli altri mi mitizzavano di più; o meglio, vedevano solo una parte». Dopo sette anni, la frontalità ormai ineludibile è di due esseri umani nella tensione di osservare l’esaurimento di una esperienza, tra disincanto e allarme.
C’È UNA FOTO, nella copertina di Vai pure, in cui sono seduti ai lati di una scrivania, lui concentrato a leggere qualcosa mentre lei lo guarda. È scomparso il sole caldo di quella volta in cui, nel 1968, è proprio Consagra a fotografare Lonzi. Sono in Texas, a San Antonio, il ritratto di lei ha dietro una costruzione illuminata di una fiera internazionale che le faceva da aureola. Anche questo lo racconta nel diario, quando descrive l’esperienza del suo cancro e della sua operazione proprio negli Stati Uniti.
Cosa accade allora in quel 1980? Anno interessante – ad esempio Adrienne Rich svela i gangli dell’eterosessualità obbligatoria assunta come sistema di potere e sulla scena artistica mondiale, Marina Abramovic e Ulay sperimentano Rest Energy, che li vede in equilibrio precario mentre tendono un arco, sbilanciati sui talloni. Lui tiene la freccia tesa sul petto di lei, basterebbe una frazione di secondo a spaccarle il cuore e in quella eventualità c’è un affidarsi ma pure una disparità di potere maschile su una donna spalancata ed esposta che non cede. Se della performance dei due artisti ricordiamo i suoni dei loro battiti cardiaci, per 4 minuti, di Carla Lonzi e Pietro Consagra l’impressione delle loro 4 giornate è la capacità di sapersi salutare, come accaduto già transitoriamente.
Ora però il clima è definitivo, perché tutto è accaduto, lei davvero gli dice che può andare dopo che si è compresa l’insostenibilità di due mondi opposti, due lingue agli antipodi. Quella di Lonzi, libera, dice, ad esempio, che non è possibile il perdurare di un incontro di due soggetti senza che uno riconosca l’altro interamente e non come presenza accessoria. Anche questa reciprocità, da non confondere con una richiesta di autorizzazione per esistere, è il sottofondo di Vai pure.
Il confronto serrato è su quanto abbiano scelto per le loro esistenze: in Vita mia, l’autobiografia che Pietro Consagra pubblica nel 1980 con Feltrinelli, Lonzi nota quanto lo scultore scambi i processi, i passaggi con le «tappe» mentre lei nel suo Taci, anzi parla, edito la prima volta nel 1978, «si vede cosa è stata per me la tua presenza in quegli anni, dal tuo libro non si vede cosa è stata la mia presenza per te, non c’è proprio».
DUE ORIZZONTI che potrebbero ascriversi nell’ordine di una differenza sessuale al lavoro e in effetti c’è una fatica, un discreto impegno ma infine una irraggiungibilità non più rimediabile. Consagra si lambicca, è a tratti sinceramente incline ma non sostiene l’intransigenza, il nocciolo della questione: le domanda, quindi, perché lei continui a parlare di «un rubacchiamento» mentre quel che solleva Lonzi è ancora una volta, e con semplicità, di un’altra portata. Il tema è che, dice Lonzi, «io trovo astratto, cioè non vero, irreale, tutto questo costruirsi della personalità maschile come un produrre da sé.
Questo produrre da sé non è vero, non esiste. Esiste sempre un rapporto, un dialogo». E fintanto che un dialogo non si pone tra due coscienze, una delle due crede di essere «assoluta», e anche – si potrebbe aggiungere – irrelata. Il diario fa vedere quanto a uno «scatto di coscienza corrisponde un processo che non è prestigioso come lo scatto di coscienza» per segnalare come questo momento «non prestigioso» venga sempre nascosto «ed è quello in cui la donna è presente».
Diversamente, l’uomo di questo salto di coscienza ne fa un salto di cultura, gestendone il profitto. Ancora una volta il meccanismo è della appropriazione, Lonzi lo chiama qui «assorbimento», e del disconoscimento che ne consegue a fronte di un protagonismo maschile.
Sono argomenti che, a quell’altezza, avevano già circolato ampiamente negli scritti di Lonzi e con il gruppo di Rivolta era già intervenuta in più contesti, ad esempio in un documento del 1971, «Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile», o anche quello del 1972 «Significato dell’autocoscienza nei gruppi femministi» (riuniti in Sputiamo su Hegel nel 1974, poi 2010 e 2023). Da un lato dunque c’è il protagonista, monologante ed estroflesso nei suoi rapporti sociali e di mantenimento della sua posizione, che non è più l’uomo «in crisi» della metà degli anni Sessanta, dall’altro lato c’è la «massima dilatazione» il cui sfondo, quando Lonzi scrive il diario, è il femminismo e che le ha consentito di porsi «come mito di nessun genere» piuttosto invece come «un’istanza di autenticità e l’altro capisce che o risponde sullo stesso piano o è meglio che stia zitto».
IN «VAI PURE», prima che Carla e Pietro concludano questo loro apprendistato che ha seguito l’amore, la ferita, la fragilità, fanno capolino la sessualità come l’abbraccio. Colpisce inoltre quanto nessuno dei due sia mai grato all’altra bensì vi sia «una esasperazione continua delle posizioni» che diventa, ineluttabilmente, impraticabile. Cruciale il passaggio in cui, parlando della dialettica servo-padrone segnandone la prospettiva marxiana, Carla Lonzi centra un punto piuttosto attuale nei rapporti cosiddetti emancipati (Consagra non sembra ostile alla sua pratica femminista); oggi lo chiameremmo un percorso denso, condiviso nella libertà di una visione del mondo. Ebbene, peccato che: «qui, siccome il rapporto è privato, a due, senza testimoni, bisogna che siano proprio i due interlocutori a mettere giù i punti di coscienza. L’uomo finora ha usufruito di un profitto senza accorgersene, adesso se ne accorge, perché se ne è accorta l’altra. Me ne sono accorta io quindi ti ho portato a dover ammettere che la cosa è così, siccome siamo sul piano della coscienza, e la coscienza vuol dire la verità».
- Sabato 13 dicembre, alla Libreria delle donne di Milano (Via Pietro Calvi, 29) alle ore 18.00, la presentazione di «Vai pure» con Annarosa Buttarelli in dialogo con Francesco Morace.
da Il Sole24Ore
La nostra società considera le donne che lavorano fondamentali, tranne quando si tratta di riconoscerle, pagarle e tutelarle. La retorica che ci circonda è edulcorata, ma strutturalmente disonesta: riconosce il sacrificio, ma non lo trasforma mai in diritto. Le donne questo teatrino lo conoscono bene perché sino a qualche decennio fa vivevamo dentro un’economia che non aveva bisogno di mascherare la sua brutalità: le lavoratrici, ad esempio, erano pagate meno degli uomini perché «non dovevano mantenere la famiglia». Punto. Era un pensiero talmente dominante da diventare indiscutibile: non era percepito come discriminazione, ma come organizzazione naturale della società. Il salario era corrispondente alla gerarchia e noi occupavano un gradino più basso.
La protesta delle tabacchine di Lanciano nel 1968
Poi, la “naturalità” dell’ordine sociale si è incrinata. Nel 1968 alla Manifattura Tabacchi di Lanciano, la notizia di centinaia di licenziamenti fa saltare l’ingranaggio della rassegnazione: quegli esuberi non erano solo perdite di reddito, ma privazione di identità e dignità. Le tabacchine, che la società aveva educato alla discrezione e al silenzio, reagiscono con un atto di sovversione: occupano la fabbrica. Quaranta giorni di sciopero, barricate, tensioni, piazze piene. Un’intera città, studenti, operai, commercianti, preti, casalinghe, trascinata dentro una vertenza guidata da donne, in un’epoca in cui le donne non dovevano guidare niente.
Il gesto non è soltanto coraggioso: è addirittura scandaloso. La narrazione dominante afferma che il sacrificio delle donne è personale e silenzioso e invece loro lo trasformano in rivoluzione pubblica: allattando i figli piccoli ai presidi, mentre i mariti, abbracciati ai cancelli del tabacchificio, intimavano o le pregavano di tornare a casa a occuparsi di loro. La loro lotta non fu solo economica ma anche sanitaria: l’esposizione continua a polveri e umidità provocava bronchiti croniche, dermatiti, malattie professionali e aborti spontanei. Le tabacchine chiedevano controlli medici, pause obbligatorie, strumenti di prevenzione, riconoscimento della nocività. In numerose manifatture, tra gli anni Cinquanta e Settanta, comitati spontanei si trasformarono in delegazioni sindacali, rompendo l’idea che le operaie dovessero subire in silenzio.
Le mani invisibili dietro La Perla
Cinquant’anni dopo, a Bologna, un altro gruppo di donne vive una variante moderna della stessa violenza. La Perla è una delle più note aziende di intimo al mondo, ma le mani che producono quella bellezza restano invisibili: modelliste, cucitrici, ricamatrici che incarnano un sapere artigianale riconosciuto a livello internazionale e che, di fronte alla crisi, vengono trattate come costi sacrificabili. Quando arrivano gli esuberi che coinvolgono centinaia di lavoratrici, le motivazioni sono le stesse di sempre, solo meglio infiocchettate: si parla, infatti, di «razionalizzazione» e «ristrutturazione». Se negli anni Sessanta il sopruso era brutalmente esplicito, oggi è ipocritamente neutro.
Il simbolo del reggiseno rosso: non potete fare finta di non vederci
E allora le donne di La Perla, guidate dalle loro rappresentanti sindacali, rispondono con scioperi e occupazione, pressione mediatica e politica. Non solo fabbrica chiusa, ma tavoli istituzionali, vertenze legali, interviste, manifestazioni a Bruxelles. È una lotta che mescola conflitto, competenza, strategia ostinazione, e che non chiede pietà ma rispetto. Gioia e rivoluzione, come cantavano gli Area: ai presidi le lavoratrici si presentano sempre con un enorme reggiseno rosso che campeggia sotto i ministeri e che intima un messaggio semplice ma potente: siamo qui con la nostra ostinazione e non potete fare finta di non vederci.
Nel 2021 nasce UnicheUnite, un collettivo che produce, vende, organizza eventi, per sostenersi economicamente e per non disperdere un capitale di competenze e relazioni.
Più di duecento lavoratrici reintegrate
La vertenza, lunga e ostinata, produce uno straordinario risultato: con l’acquisizione dello stabilimento da parte della nuova proprietà, più di duecento lavoratrici vengono reintegrate in una nuova società con l’obiettivo di rilanciare la produzione. Non c’è un miracolo, c’è un metodo: presidio continuo, pressione mediatica, coinvolgimento istituzionale, difesa del made in Italy, denuncia della logica finanziaria che smantella siti produttivi per ragioni speculative.
Il risultato è, per gli standard attuali, un’anomalia radicale: è un esito talmente inusuale da sembrare un miracolo, proprio perché abbiamo interiorizzato l’idea che la sconfitta sia inevitabile e che la vittoria sia eccezionale. Ma qui non c’è nessun miracolo: c’è una strategia che ha funzionato.
Donne che rifiutano la rassegnazione
Ed è questo che accomuna profondamente le tabacchine di Lanciano e le “perline” di Bologna: non solo l’oggetto della battaglia (il lavoro), ma la sua filosofia. In entrambi i casi, le donne hanno rifiutato l’idea violenta della rassegnazione. Hanno rifiutato il ruolo della vittima controllata, resiliente e composta. Le tabacchine e le lavoratrici di La Perla hanno fatto ciò che di solito non si perdona alle donne: non sono state accoglienti, non sono state “brave e zitte”.
In modo diverso, in tempi diversi, hanno affermato lo stesso principio: la dignità è collettiva o non è. Il potere può ignorare una donna sola, ma cento donne insieme diventano un problema. Il patriarcato industriale degli anni Sessanta e il capitalismo finanziario del XXI secolo condividono un presupposto: che le donne siano fragili, sostituibili, disponibili. La storia dimostra che è proprio questa convinzione a renderle pericolose, perché quando decidono di non esserlo più, cambiano un modello di potere.
Un promemoria universale: organizzarsi per migliorare
E allora forse non dovremo raccontare queste storie come straordinarie: se una vittoria è eccezione, non è imitabile. Se è miracolo, non è metodo. Ciò che le tabacchine e le perline ci consegnano è un promemoria universale: non bisogna essere potenti per cambiare la propria condizione, bisogna essere organizzate.
Non bisogna essere straordinarie, bisogna essere intransigenti. Non bisogna essere perfette, bisogna essere stanche nel modo giusto: quel tipo di stanchezza che chiede trasformazione.
In fondo, il gesto più rivoluzionario non è resistere, ma decidere di non farlo da sole. E le tabacchine e le perline hanno lanciato un messaggio chiaro: se non ci danno il futuro, noi ce lo prendiamo.
da L’Altravoce il Quotidiano
Nei due anni di genocidio Israele ha tentato di ucciderli tutti, di cacciarli dalla loro terra, li ha bombardati, massacrati, affamati, mutilati, trafitti nel corpo e nell’anima, ha raso al suolo le loro case costringendoli a sfollare e a vivere in tende improvvisate, ha ridotto la Striscia di Gaza a un cumulo di macerie, ma loro, i palestinesi, nonostante il dolore, le sofferenze e un mare di lacrime, hanno resistito con coraggio e determinazione. Una resistenza che bambine/i, ragazze/i hanno portato avanti avendo come unica arma i libri, le lezioni e il desiderio di studiare per lasciare aperta la porta alla speranza e al futuro. Bambine/i hanno continuato in tende le lezioni con insegnati volontari. Migliaia di ragazze/i non hanno smesso di studiare, di seguire corsi accademici online, con tutte le difficoltà dovute alle interruzioni di elettricità, al cedimento delle reti di comunicazione, allo sfollamento e al lutto. C’è stata chi come Thuraya Fatid si è diplomata. «Prendere il diploma di liceo – racconta in un articolo su “La Stampa” a firma di Majd Al-Assar – è stato un miracolo. Abbiamo perso due interi anni scolastici, ma ero determinata a continuare gli studi, soprattutto dopo aver perso la casa e dopo che mio fratello è stato ucciso. Ho studiato in una tenda, sono rimasta sveglia notte dopo notte alla luce della torcia del mio cellulare per preparare l’esame di fine corso». Da quando è iniziata la tregua, nonostante Israele non cessi di violarla e di impedire l’entrata a Gaza di tutti gli aiuti umanitari, la resistenza è diventata rinascita con l’apertura, tra le macerie, delle scuole e dell’Università islamica a Gaza. «Mi ci è voluta mezz’ora per arrivare a scuola a piedi, e la maggior parte delle strade sono danneggiate e piene di macerie e pietre, il che mi stanca molto. Il cessate il fuoco mi rende felice», parole di una studentessa. Felicità condivisa dalla giovane Thuraya. «Sognavo – lei dice – di riuscire un giorno a vivere la vera vita universitaria, di conoscere compagni e professori, e adesso una parte di quel sogno è diventata realtà. Sono molto felice, malgrado tutte le difficoltà del momento». Nelle scuole in aule improvvisate non ci sono i banchi, le/gli studenti si siedono per terra, ma sono felici. All’Università islamica il campus vero e proprio è un mare di macerie, i pochi edifici danneggiati portano i segni dell’artiglieria israeliana. La riapertura delle scuole e dell’Università, col ritorno di migliaia di studenti, ha un grande significato simbolico per una generazione che guarda al futuro e affida la propria rinascita non alle armi, non alla guerra ma allo studio, ai libri, al desiderio di imparare che è più forte della distruzione che li circonda. Rinascita è il matrimonio di massa celebrato il 2 dicembre scorso nel sud della Striscia. Tra gli edifici bombardati si sono sposate 54 coppie provenienti da varie parti della Striscia, in centinaia hanno assistito alla cerimonia. Rinascita è il festival del cinema femminile lanciato dal regista palestinese Ezzaldeen Shalh e tenuto, dal 26 al 31 ottobre, in tende temporanee nel centro di Gaza. Cinquecento donne hanno assistito alla proiezione di ottanta film di registe di oltre venti paesi, tra Medio Oriente, Nord Africa, Europa e America. Aperto con la proiezione del film “La voce di Hind Rajab”, la prima nel mondo arabo, il festival aveva come titolo “Donne leggendarie durante il genocidio” in onore delle donne palestinesi che «hanno sopportato gli orrori della guerra, dalla perdita alla detenzione, fino allo sfollamento». Donne sopravvissute al genocidio che vogliono vivere, rinascere e sperare insieme a tutto il loro popolo. Donne da ammirare e sostenere nella rinascita come nella resistenza.
dal Corriere della Sera

Centinaia di capi scoperti. Centinaia di code, di trecce nere che ondeggiano libere. Bisogna scrutare con attenzione i video della fiumana che taglia il via della maratona di Kish per scovare un hijab. C’è qualche fascia che ferma frangette ribelli, qualche cappellino da baseball portato all’indietro, ma pochissimi i veli a coprire le chiome delle duemila iraniane che venerdì hanno preso parte alla maratona sull’isola nel Golfo Persico. «Una “immorale” la puoi arrestare, ma duemila non è così facile», ci scrive Ghazaleh, giovane professoressa di Teheran. Non ha partecipato alla gara che tanto ha fatto infuriare gli ayatollah e i loro seguaci, ma sono due anni che corre per le strade della capitale a testa libera. Dice: «Non sanno più come fermarci».
Gli uomini di Ali Khamenei, sorpresi e sconcertati dall’affronto senza precedenti, sui giornali di regime condannano la «scandalosa competizione», che qualche integralista indignato sui social chiama «Las Vegas della corsa». Confusi sul da farsi, i giudici fanno partire gli arresti. I primi a «pagarla» sono due organizzatori della maratona colpevoli di non essere riusciti a fare rispettare le leggi morali che governano la Repubblica Islamica. E balbettano: «Per dirla tutta noi avremmo avvertito che era fondamentale osservare le regole d’abbigliamento». Ma la procura di Kish non perdona: «È stato indecente il modo in cui si è svolto l’evento». L’agenzia di stampa ultraconservatrice Tasnim critica «l’assenza totale di controllo e il mancato rispetto dei codici da parte di un numero significativo di partecipanti».
Ghazaleh crede che non si fermeranno ai due arresti: «I loro scagnozzi staranno studiando i profili social per capire chi altro punire. Staranno cercando le persone con più follower perché la vendetta sia rumorosa. Poi, smetteranno di parlarne, come è successo con l’ultimo caso del concerto all’aperto a Teheran. Anche lì si cantava e ballava a capo scoperto: io c’ero».
Le ragazze iraniane sanno come funziona. Conoscono a memoria i rischi che corrono quando sfidano le leggi medievali della dittatura. E a Kish – come per le strade di Teheran, di Isfahan, di Tabriz – hanno affrontato gli ayatollah sul solito fronte, quello più caldo: il velo. Queste giovani donne sembrano avere sempre meno paura delle autorità che governano il Paese. È dall’uccisione di Mahsa Jîna Amini, dal 2022, che la lotta del movimento Donna Vita Libertà è diventata una rivoluzione in grado di cambiare le regole del gioco. «Una rivoluzione che non ha fatto cadere il regime», dicono i pessimisti, ma ha stravolto la società. Ha liberato le ragazze, e, soprattutto, ha «convertito» i padri, i fratelli, gli amici. Gli unici a rimanere immobili sono coloro che detengono il potere e che tremano all’idea di perderlo.
Amir ha 25 anni e venerdì correva sull’isola di Kish: «È stato bello vedere così tante donne senza velo. Le nostre sorelle sono coraggiose e noi le sosteniamo». Erano tremila gli uomini che hanno partecipato alla quinta edizione della maratona. Correvano separati dalle atlete, «ma poi abbiamo festeggiato insieme».
I legislatori hanno accusato la magistratura di non far rispettare la legge sull’hijab. Il capo della Corte suprema Gholamhossein Mohseni Ejei ha chiesto un’applicazione più rigorosa e intanto il presidente cosiddetto riformista Masoud Pezeshkian si è rifiutato di ratificare un disegno di legge che avrebbe imposto sanzioni più severe per le donne. Il governo, indebolito dalla Guerra dei dodici giorni con Israele, da un’economia a pezzi e da una siccità senza precedenti, è accusato dalle frange più conservatrici di lassismo: le lotte interne debilitano il potere.
«Non ci fanno più paura, li combattiamo su ogni fronte. Anche lo sport qui è politica», continua Ghazaleh. In Iran alle donne è vietato andare in bicicletta e nuotare in pubblico. Sono vietati gli stadi ed è proibito giocare a biliardo.
da La Stampa
Piazza Unità d’Italia, Trieste: tripudio di luci e alberi di Natale. Novecento metri più in là, i magazzini del Porto Vecchio. Nessuna luce, niente stelle natalizie. Più di cento persone cercano di dormire nonostante il forte vento che scende dal Carso. Nonostante il cattivo odore e lo squittio dei topi.
Sono migranti, arrivati dalla famigerata rotta balcanica fino a Trieste, in attesa di essere ricevuti dalle autorità italiane. «Torna domani» è quello che tutti i giorni si sentono dire dalla Questura, dove si presentano appena arrivati, anche a costo di stare in fila per ore. Per qualcuno quel domani si trasforma in mesi, passati senza un posto in cui dormire se non gli umidi silos del porto. Circa novanta di loro, settimana scorsa, sono stati “trasferiti” con lo sgombero di uno di questi edifici. Nella struttura accanto, in silenzio, ha invece perso la vita Hichem Billal, trentaduenne algerino arrivato a Trieste sei mesi fa. Quando l’hanno trovato era già morto da ore per il freddo. «Era venuto più volte a farsi medicare da noi volontari: estremamente vulnerabile, era totalmente consumato nel corpo. Mi parlava della moglie e del suo bambino», racconta Lorena Fornasir, presidente dell’associazione Linea d’Ombra, che dal 2019 sostiene i migranti che arrivano in città.
Hichem è la quarta vittima delle basse temperature nel giro di pochi giorni in Friuli-Venezia Giulia. Due uomini pakistani, Nabi Ahmad di trentacinque anni e Muhammad Baig di trentotto, sono morti avvelenati dal monossido di carbonio a Udine mentre tentavano di scaldarsi con un fuoco alimentato da oggetti in plastica. Uno dei due aveva ricevuto l’invito a presentarsi per compilare la domanda di protezione internazionale. Shirzai Farhdullah, anche lui morto intossicato a Pordenone, aveva invece venticinque anni e arrivava dall’Afghanistan. Tutti e tre fino a poco fa, prima di spostarsi a cercare aiuto in altre città della regione, facevano parte dei fantasmi dei magazzini di Trieste.
Noman, kashmiro che vive da due anni in Italia, conosceva bene Shirzai. È stato lui a recitare in piazza il rito funebre in onore dei quattro morti per il freddo. Anche Noman ha dormito a Porto Vecchio per mesi. Da quando ha ottenuto il permesso di soggiorno, però, ha scelto di aiutare gli altri: «Ora vivo in un appartamento con altre persone e lavoro come badante, ma so cosa significa sopravvivere in strada. Tutte le sere sono in piazza per distribuire coperte, scarpe e cappotti. Vado anche a cucinare per gli altri al porto, improvvisando una cena con quello che c’è: riso, farina, olio». Il giovane vuole restituire l’aiuto che gli è stato dato in passato. «Quando qualche tempo fa sono andato con gli altri volontari a fare un giro per le montagne vicine al confine – racconta – mi sono inginocchiato per pregare accanto a una pozzanghera di fango. È stata quell’acqua sporca a salvarmi la vita durante la traversata».
Noman spiega che ogni giorno scopre che qualcuno durante la notte si è ammalato, ha una sospetta polmonite o non riesce nemmeno a muoversi per la febbre. Yousef, afghano che da cinque mesi si aggira nel porto, conferma che molti suoi «amici e fratelli migranti» soffrono l’essere continuamente esposti a pioggia e vento. La maggior parte di loro arriva da Afghanistan, Pakistan e Bangladesh. Ma molti sono anche i curdi, dalla Turchia o dall’Iraq, e i nepalesi. «Il numero di persone che vivono nei magazzini varia tra i 180 e i 250. La politica cittadina, in modo scientifico, vuole demotivarli e indurli ad andarsene. Sono ridotti a non-persone, a subumani, costretti a vivere tra i topi», spiega Fornasir, «spesso l’unico modo di accedere al sistema di accoglienza è tramite sgombero. Molti implorano la polizia di prenderli, di portarli via con loro». Capita, però, che chi viene trasferito si ritrovi ancora più isolato: molti finiscono in Sardegna, in case abbandonate all’interno dell’isola e lontane dai grandi centri abitati, dove è difficile anche solo frequentare un corso di italiano. Gli ultimi sgomberati verranno invece portati in Toscana.
Il rischio di essere mandati fuori dall’Italia, però, è ancora più grande. Lo spiega Fornasir: «Un tempo curavo vesciche e piedi devastati, oggi mi ritrovo davanti corpi pieni di cicatrici, ossa rotte, nasi spaccati, timpani saltati. I migranti che percorrono la rotta balcanica sono sistematicamente torturati. E chi è respinto è destinato a subire altri abusi».
Un intervento di Mar Arza
di MNAC
Questo intervento ci interroga se sia possibile eliminare le strutture patriarcali implicite nel nostro modo di vivere. Nasce da una riflessione dell’artista sulla tecnica dello strappo che ha permesso di conservare la preziosa collezione di pittura murale romanica del Museo. Questa tecnica consiste nel far aderire con colla solubile sui dipinti una tela fine che quando viene rimossa si porta lo strato più superficiale della pittura impregnata nel muro, che poi si trasferisce su un altro supporto. Durante una visita al magazzino delle riserve museali l’artista scoprì le seconde estrazioni delle pitture murali. Se i primi strati di pittura sono esposti al museo, i secondi si trovano nel magazzino e servono come oggetti di studio. Ricordano delle pelli secche, con le loro macchie di pittura confuse, in alcuni casi completamente astratte.
Davanti alla qualità materica di questi pezzi e della loro capacità evocatrice, la ricerca dell’artista va a convergere con riflessioni precedenti che hanno come asse centrale la spinta a cancellare i segni strutturali di un sistema patriarcale che permane presente, spesso in modo inavvertito, e che richiede una lotta costante, un’azione decisa per sradicare la violenza occulta e la discriminazione.
Il progetto consisterà nel realizzare un dipinto murale su una parete del museo in cui apparirà una frase che esprime che questa struttura patriarcale non si smantella per caso. Si procederà a rimuoverla mediante la tecnica dello strappo, di modo che, nonostante venga estirpato lo strato più superficiale, si possano ancora vedere sul muro resti indelebili. La difficoltà si rende patente. Mar Arza ci interpella: quanti strati ancora abbiamo bisogno di rimuovere per neutralizzarne gli effetti e la presenza?
(Museu Nacional d’Art de Catalunya, 12 giugno 2025, traduzione di Clara Jourdan)
Mar Arza (1976) vive e lavora a Barcellona; tra le sue esposizioni ricordiamo le opere della Colección La Relación, Duoda Centre de Recerca de dones. L’installazione Strappo si trova nelle sale del romanico del Museu Nacional d’Art de Catalunya, tra San Climent de Taüll e Santa Maria. Video: https://canal.mesmnac.cat/llegeix/strappo-no-per-atzar-cau-el-patriarcat/ Il progetto echeggia il testo È accaduto non per caso (Sottosopra, gennaio 1996) pubblicato da Duoda nella traduzione di María-Milagros Rivera Garretas: El final del patriarcado. Ha ocurrido y no por casualidad.
Strappo No por azar cae el patriarcado
Una intervención de Mar Arza
Esta intervención nos cuestiona sobre si es posible eliminar las estructuras patriarcales implícitas en nuestras formas de vivir. Surge de una reflexión de la artista sobre la técnica del strappo que ha permitido conservar la valiosa colección de pintura mural románica del Museo. Esta técnica consiste en adherir con cola soluble una tela fina sobre las pinturas que, cuando se extrae, se lleva la capa más superficial de la pintura impregnada en el muro, que posteriormente se traspasa a otro soporte. En una visita a las reservas del Museo la artista descubrió las segundas extracciones de las pinturas murales. Si las primeras capas de pintura están musealizadas, las segundas se encuentran en las reservas del Museo y sirven como objeto de estudio. Recuerdan a unas pieles secas, con sus manchas de pintura desdibujadas, en algunos casos totalmente abstractas.
Ante la calidad matérica de estas piezas y de su capacidad evocadora, la investigación de la artista converge con reflexiones anteriores que tienen como eje central el impulso de borrar las marcas estructurales de un sistema patriarcal que permanece presente, a menudo de forma inadvertida, y que requiere una lucha constante, una acción decidida para erradicar la violencia soterrada y la discriminación.
El proyecto consistirá en realizar una pintura mural sobre una pared del museo en la que aparecerá una frase que expresa que esta estructura patriarcal no se desarticula por azar. Se procederá a extraerla mediante la técnica del strappo, de forma que, a pesar de extirpar la capa más superficial , se puedan ver aún restos indelebles sobre la pared. La dificultad se hace patente. Mar Arza nos interpela: ¿cuántas capas más necesitamos extraer para neutralizar sus efectos y su presencia?

(Museu Nacional d’Art de Catalunya, 2 dicembre 2025)
(https://www.museunacional.cat/es/strappo-no-por-azar-cae-el-patriarcado)
da la Repubblica
Inversione dell’onere della prova? Ma figuriamoci. Affermare un concetto del genere in relazione al disegno di legge sul consenso, vuol dire non conoscere il processo penale». Teresa Manente, avvocata, esperta di violenza di genere, centinaia di processi alle spalle, a capo del team legale dell’associazione Differenza donna, spiega (e smonta) le critiche che hanno portato all’affossamento, in Senato, della modifica dell’articolo 609 bis del codice penale.
Ossia quell’unico articolo che introducendo la nozione di “consenso libero e attuale” per dimostrare se un atto sessuale è uno stupro o meno, avrebbe allineato l’Italia con quasi l’intera Europa, dove ventuno Stati hanno già approvato una identica legge.
La ministra della Famiglia Roccella, per motivare la marcia indietro della maggioranza sul disegno di legge, ha affermato che si rischia «l’inversione dell’onere della prova». È vero?
«Assolutamente no. È un errore giuridico. Esattamente come accade oggi nel processo penale in casi di stupro, ci sarà una donna che denuncia di essere stata violentata e un imputato che sostiene la consensualità dell’atto. Ma sarà sempre e comunque il pubblico ministero e non l’imputato a dover dimostrare se quel rapporto è stato o non è stato libero e volontario».
E allora qual è la differenza che l’articolo 609 bis introduce?
«La differenza è che la mancanza di consenso non dovrà più essere dimostrata attraverso la “resistenza” della donna, che magari non è fuggita, o non ha urlato, o non ha lesioni. Quante donne, lo sappiamo, durante uno stupro si immobilizzano come fossero congelate, per paura di morire, per cercare di non sentire l’orrore? È una sindrome ben nota e si chiama freezing.
D’ora in poi basterà affermare con una denuncia di aver detto no al rapporto sessuale e di non essere state rispettate, per dare avvio alle indagini. Perché il consenso appunto deve essere libero e reiterato. Anche durante l’atto la donna deve poter dire no ed essere ascoltata».
Ecco, Manente, su questo punto le critiche sono ancora più forti. E cioè che i confini del consenso o del dissenso sarebbero a volte labili e non sempre comprensibili.
«Vogliamo scherzare? Qui mi indigno davvero. Non esiste uomo o ragazzo che non sappia perfettamente se la donna o la ragazza che è con lui è consenziente o meno. Questo è davvero un retaggio maschilista: ho sentito miei colleghi dire che in certe situazioni l’uomo non si può fermare, anche se lei dice basta. Vi sembra consenso questo?».
Il ministro Salvini afferma poi che si lascerebbe «spazio a vendette personali da parte di donne e uomini» che userebbero la norma per risolvere questioni private.
«È la vecchia storia delle querele strumentali. Vorrei sapere quante sono, e se Salvini ha i numeri li tiri fuori. Questi numeri non ci sono perché si tratta di percentuali irrisorie, se esistono. Ho difeso centinaia di donne e non mi sono mai trovata di fronte a una denuncia per violenza non suffragata da fatti. Evidentemente il ministro non sa cosa vuol dire per una donna affrontare un processo per stupro. Si chiama calvario. Noi oggi siamo di fronte al dramma opposto: le vittime non denunciano per non dover affrontare il processo. E aver criminalizzato il concetto di “consenso libero” che così faticosamente avevamo cercato di far passare nelle aule dei tribunali, rischia di scoraggiare ancor di più le donne».
L’avvocata Bongiorno, leghista, presidente della commissione Giustizia del Senato, ha detto che per molti esponenti della maggioranza la norma sarebbe sbilanciata a favore della donna.
«Vorrebbe dire allora che anche la Convenzione di Istanbul, da cui questa legge discende e l’Italia ha sottoscritto, è un testo sbilanciato. Così come sbilanciate sarebbero le leggi sul consenso firmate da ben ventuno paesi europei. La verità è invece molto amara: non c’è la volontà politica di sradicare culturalmente la violenza di genere».
Siamo fiere di comunicarvi che Carol Gilligan è stata insignita del prestigioso Premio Kyoto 2025 per le Arti e la Filosofia.
Il Premio Kyoto, assegnato ogni anno dalla Fondazione Inamori, è il più importante riconoscimento del settore privato in Giappone. Viene conferito a tre personalità nei campi scientifico, tecnologico e culturale, il cui lavoro rappresenta un contributo fondamentale al progresso dell’umanità.
Gilligan è una delle più importanti e influenti pensatrici degli Stati Uniti. I suoi studi, frutto di una vita di ricerca, sono oggi più che mai indispensabili per portare alla luce e mettere in discussione le disuguaglianze di genere. L’assegnazione del premio Kyoto riconosce oggi il valore pionieristico del suo lavoro e ne celebra l’approccio rivoluzionario al crocevia tra psicologia, femminismo, filosofia e diritto.
Carol Gilligan si unisce a una lista di illustri vincitori, tra cui Jane Goodall, Akira Kurosawa, Pina Bausch e Renzo Piano.
Con voce di donna
A quarant’anni dall’uscita di Con voce di donna, il libro che diede il via a una rivoluzione, portando le voci delle donne alla ribalta e consentendo loro di essere ascoltate a pieno titolo, Gilligan ritorna sull’argomento di quel libro fondamentale riesaminandone le tesi centrali alla luce del presente e dei progressi della riflessione sul tema negli ultimi decenni. Oggi è possibile chiarire e articolare ciò che quarant’anni fa non si poteva vedere o dire: che la “voce diversa”, l’etica della cura, sebbene inizialmente percepita come una “voce femminile”, di donna, è in realtà una voce umana.
La voce da cui si differenzia è una voce patriarcale, legata al sistema binario e alle gerarchie di genere. Laddove il patriarcato è in vigore o viene imposto, la voce umana è una voce di resistenza e l’etica della cura è un’etica di liberazione.
«La voce dell’etica della cura è una voce umana e la designazione in termini di genere di una voce umana come “femminile” è un problema. Sentire la “voce differente” come voce umana significava liberarsi di una serie di ostacoli che impedivano di vedere che il sistema binario di genere – la costruzione delle capacità umane come “maschili” o “femminili” – non è solo una distorsione della realtà, ma anche una pietra miliare del patriarcato.» Un libro di psicologia alla portata di tutte/i che dice cose semplici ma importanti, che porge la mano e la voce a chiunque voglia ascoltare, donne e uomini.
La voce umana è la voce del ventunesimo secolo.
Carol Gilligan, Con voce umana, VandA edizioni 2024, € 20,00, è disponibile presso la Libreria delle donne di Milano.
(VandA.Edizioni, 27 novembre 2025)
da la Repubblica
È iniziata a Teheran, la capitale che per prima registra e accoglie i mutamenti sociali del Paese: sempre più donne vanno in giro in scooter, si fotografano e condividono, e le immagini galvanizzano l’internet iraniana per una prassi impensabile fino a qualche anno fa e ancora inaccettabile oggi per gli ultraconservatori che la considerano una offesa alla morale pubblica, un atteggiamento “non islamico” perché impedirebbe alle donne di indossare correttamente l’hijab ed esporrebbe troppo il loro corpo, come scrive l’agenzia di stampa vicina ai radicali Shabestan.
Repressione moderata sui costumi
Ma i grandi movimenti di protesta degli ultimi anni, come quello seguito alla morte di Mahsa Amini, stanno riscrivendo la grammatica sociale degli iraniani e delle iraniane. Nonostante la repressione nel Paese resti molto forte – in soli nove mesi dall’inizio del 2025 ci sono state più di mille esecuzioni capitali – l’atteggiamento del governo del riformista Pezeshkian è relativamente moderato per quanto riguarda i costumi sociali, una scelta dettata anche dalle circostanze esterne: con la crisi economica profonda e la pressione internazionale che ha isolato il Paese, spingere sulla repressione sociale aumenterebbe il rischio di rivolte interne.
Zahra Abedini, la pioniera
E così le iraniane conquistano nuovi spazi di libertà. Fino a sedici anni fa Zahra Abedini, una delle pioniere del motociclismo iraniano che oggi non solo guida la moto ma insegna ad altre donne come farlo, veniva presa in giro e doveva nascondersi per via della sua passione, ha raccontato a France24. «Trovai una pista fuori città che accettò di insegnarmi, e iniziai a fare motocross. All’epoca, conoscevo solo altre quattro donne che condividevano la mia passione per le moto. L’ho tenuto nascosto alla mia famiglia per sei mesi, ma alla fine mio padre lo ha scoperto. Quando mi vide guidare una moto da cross e saltare dalle rampe di terra rimase terrorizzato. Gli ci è voluto molto tempo per accettarlo». Oggi Abedini organizza tour e gite fuori porta.
Un piacere e un’esigenza
Ma se molte iraniane scelgono lo scooter non è solo per piacere. Il traffico congestionato della capitale, i costi sempre più alti della benzina e delle assicurazioni per l’auto, le enormi distanze e la necessità di fare più cose durante il giorno – dalla spesa all’andare al lavoro all’accompagnare i figli a scuola – spingono molte a preferire la moto. È segno, anche questo, di un cambiamento: un numero crescente di iraniane lavora, la disoccupazione femminile è scesa dal 20% al 15% negli ultimi sette anni.
Una pratica ancora illegale
Nel governo si dibatte se cambiare le norme per chiarire col diritto una realtà che è già del quotidiano. Il codice della strada non vieta esplicitamente alle donne di guidare, ma una lacuna normativa fa sì che non possano farlo in maniera legale: l’articolo 20 stabilisce infatti che la polizia possa rilasciare la patente agli uomini, ma non si pronuncia sulle ragazze. È una zona grigia dove si annidano abusi ma fioriscono anche opportunità, come spesso accade in Iran.
Il capo della polizia stradale, il generale di brigata Teymour Hosseini, ha dichiarato a settembre che la patente per le donne richiederebbe modifiche formali alla legge, e che le forze dell’ordine erano «in attesa di una notifica ufficiale sulla guida motociclistica femminile per poter procedere» visto che «la Costituzione non vieta alle donne di possedere motociclette. Possono detenere documenti di immatricolazione ufficiali a proprio nome, quindi logicamente dovrebbero anche poter ottenere la licenza».
La vicepresidente per le donne e gli affari della famiglia, Zahra Behrouz-Azar, tuttavia, sostiene che non sia necessaria alcuna legge: «Il motociclismo femminile non è diverso dal lavoro delle donne pilota o autiste. Vediamo già donne attive nel trasporto nazionale, internazionale e aereo, ed è naturale che abbiano bisogno di motociclette per la mobilità quotidiana», ha affermato, precisando che le normative esistenti sono sufficienti e che l’attuazione richiede solo la cooperazione tra le autorità.
La fotografa Maryam Saeedpoor intanto cattura il nuovo spirito dei tempi: le sue foto su Instagram sono un documento originale del nuovo Iran, con ragazze senza velo che guidano motociclette colorate, ma anche donne velate in sella. Viene in mente quella scena di Easy Rider quando Dennis Hopper, fumando una sigaretta intorno al fuoco, dice con intensità a Jack Nicholson: «Che male c’è nella libertà? La libertà è tutto».
da Il Fatto Quotidiano
Ancora non è dato sapere se gli Stati europei che minacciano di svuotare l’accordo di pace con la Russia riusciranno nel loro intento: bloccare il piano che Trump discute con Mosca perché le radici del conflitto siano infine sanate, spingere Kiev a ignorare quel che accade sul fronte, restare appesi al pensiero magico di una guerra giusta (quando si dice pace giusta s’intende guerra giusta).
Fin d’ora tuttavia è abbastanza chiaro che gli Stati in questione non riconosceranno facilmente di essersi sbagliati su quasi tutto, di non essere comunque affidabili militarmente, e di aver distrutto quel pochissimo che esisteva delle tradizioni diplomatiche europee, ben più antiche di quelle statunitensi e qualificabili come occidentali e atlantiste solo nello spazio temporale della Guerra Fredda.
Chi grida contro la capitolazione farebbe bene ad ascoltare le parole di Iuliia Mendel, ex portavoce di Zelensky e convinta sostenitrice dell’Ucraina:
«Il mio Paese sta sanguinando. Molti di coloro che si oppongono istintivamente a ogni proposta di pace credono di difendere l’Ucraina. Con tutto il rispetto, questa è la prova più evidente che non hanno idea di cosa stia realmente accadendo in prima linea e all’interno del Paese in questo momento».
Il post verrà forse smentito, ma l’editorialista Wolfgang Münchau lo fa proprio e chiosa:
«I più accaniti sostenitori di Kiev in Europa sono coloro che non hanno la minima comprensione della realtà militare sul campo». Zelensky forse l’ha capita prima dei propri accaniti sostenitori, se è vero che ha accettato buona parte del piano Trump.
Oggi è difficilissimo dire quale sia l’Europa in cui i cittadini possano riconoscersi.
Non è l’Ue: i Ventisette sono divisi, e a guidare la Commissione c’è una persona – Ursula von der Leyen – che ha abbracciato l’antico disdegno della DC tedesca verso la politica di distensione.
Disdegno condiviso in Germania da Verdi, Liberali e Socialdemocratici, che della Ostpolitik di Willy Brandt non hanno più cognizione.
Né i cittadini possono riconoscersi in un’Unione che si fa rappresentare in politica estera da un’ex premier estone – Kaja Kallas – che in patria nega diritti sostanziali alla minoranza russa (20,9% della popolazione) e ha dimostrato di non sapere neanche lontanamente chi ha vinto la Seconda guerra mondiale e perché Russia e Cina siano tra i cinque membri permanenti nel Consiglio di sicurezza Onu.
Non godono di maggiore legittimità le più recenti e marziali configurazioni: i Volenterosi pronti a mandare soldati in Ucraina, o la Comunità politica europea inventata da Macron nel 2022 per aggirare i refrattari dell’Ue, reincorporare Londra in Europa e inglobare Stati ex sovietici affetti da russofobia acuta (Ucraina, Georgia, Moldavia).
Altro cascame del pensiero magico europeo: l’asse Berlino-Londra-Parigi, detto anche E3 perché ogni distopia ha bisogno dei suoi acronimi.
Alla sua testa, tre personaggi in cerca d’autore: Macron e Starmer sono sulla via del tramonto, Merz aspira alla metamorfosi regressiva della Germania e resuscita tradizioni militari che hanno devastato più volte il Paese. Nel loro contropiano si dice che la lingua delle minoranze russe e le libertà degli ortodossi russi saranno rispettate nel quadro dell’adesione di Kiev all’Ue. Promessa vana, visto come sono trattati i russi nei Baltici.
Da queste configurazioni è arduo uscire, perché la guerra è diventata non solo l’idea fissa, ma la ragion d’essere per gran parte degli Stati Ue.
Al posto della storia europea, dei suoi disastri e delle sue prese di coscienza, ci ritroviamo con l’illusoria “success story” dell’atlantismo e una diffusa allergia alla sovranità.
Trump è disposto ad assicurare la non adesione di Kiev alla Nato e il ritorno dell’Ucraina alla neutralità, ma i Volenterosi Ue recalcitrano, fingendo d’ignorare che la radice della guerra per Mosca è la Nato alle porte di casa. Buona parte d’Europa è in trasformazione, con Berlino all’avanguardia.
A parlare in suo nome non sono i diplomatici ma le industrie militari, i generali, i politici improvvisati, i giornali aizzatori. Sono gli accaldati tifosi descritti da Karl Kraus ne “Gli ultimi giorni dell’umanità”.
Più verosimilmente vicina è la guerra, più sono consentite menzogne, pensieri magici, poteri accentrati.
Militari e faccendieri non sono sotto i riflettori in tempi di pace, ma d’un tratto occupano il palcoscenico.
Il capo di Stato maggiore francese generale Fabien Mandon dichiara il 19 novembre, approvato da Macron: «Quel che ci manca […] è la forza d’animo di accettare di farci del male per proteggere quello che siamo. Se il nostro Paese vacilla e cede, è perché non è pronto ad accettare di sacrificare i propri figli – osiamo dire le cose come stanno! – e di soffrire economicamente quando le priorità andranno alla produzione di difesa. Se non siamo pronti a questo siamo a rischio» (aveva detto cose simili Antonio Scurati il 5 marzo scorso).
Prontezza è il motto iscritto sul frontone del Riarmo Europa annunciato il 4 marzo 2025 da Von der Leyen.
Credevano d’aver indorato la pillola evitando la parola riarmo. È molto peggio “prontezza”.
Nello stesso giorno, il 19 novembre, il presidente di Airbus, René Obermann, ha esortato gli europei a dotarsi di armi nucleari tattiche per contrastare l’espansionismo russo (oltre alle atomiche strategiche condivise con Washington).
Un’atomica tattica oscilla tra 1 e 50 chilotoni: non son bruscolini.
Hiroshima fu colpita da una bomba di 16 chilotoni, per Nagasaki si passò a 21.
Poco dopo Einstein disse: «Ora è venuto il momento in cui l’essere umano deve rinunciare alle guerre. Non è più razionale risolvere i problemi internazionali ricorrendo alla guerra».
Poi c’è il quando. Quando ci attaccherà Mosca?
Secondo il ministro tedesco della Difesa, Boris Pistorius, socialdemocratico, l’anno fatale è il 2029.
Nelle dispute internazionali la razionalità dovrebbe essere affidata alla diplomazia, arte inventata in Europa prima che negli Stati Uniti.
Non spetta ai capi di Stato maggiore, ai faccendieri, neanche ai giornalisti.
Al tempo stesso si può capire che Trump preferisca gli uomini d’affari, pur di tenere a bada i neoconservatori come il ministro degli Esteri Marco Rubio, che non solo ignorano la diplomazia ma la odiano. È comprensibile che mandi l’immobiliarista Steve Witkoff a parlare con Putin, e che Putin a questo punto mandi non Lavrov ma Kirill Dmitriev, capo del Fondo russo per gli investimenti diretti.
Gira voce che la bozza del piano di pace l’abbia scritta Dmitriev, e Trump l’abbia ingoiata sotto tortura. In Europa i pensieri da ombrellone sono per tutto l’anno, Natale compreso.
Chi non riconosce le disfatte ucraine guarda senza vedere.
Quanti ucraini devono morire perché l’Europa smetta i paramenti dell’Occidente atlantista e ricominci a parlare con Mosca?
Se nel marzo 2022 Kiev s’accontentò di un esercito di 80.000 uomini, come non vedere che Mosca gliene concede ora 600.000 (la metà delle truppe attuali) e chiederne 800.000?
Mosca è disposta a riparare l’Ucraina con 100 miliardi dei propri fondi congelati soprattutto in Belgio.
Gli europei s’offendono e replicano: su quei soldi decidiamo noi e basta.
Come sostengono Anatol Lieven e il Quincy Institute, un accordo che restituisce indipendenza ai tre quarti dell’Ucraina, che prevede l’ingresso nell’Ue e le riparazioni russe non è precisamente una capitolazione.
È la sconfitta di Zelensky e dell’idea di Kiev come baluardo, non dell’Ucraina. È la presa d’atto che Mosca non ha in mente di invadere l’Europa e neanche vuole “incamerare” l’Ucraina, ma non vuole la Nato e le atomiche schierate alle proprie porte.
da RivistaStudio
Qualche anno fa ho preso una gatta e l’ho chiamata Olivia. «Non l’hai ancora superata, eh», ha commentato mia madre con l’aria di chi la sa lunga. «È solo un nome», ho ribattuto stizzita. Mia madre alludeva a quella che, per quattro anni, era stata la mia migliore amica, e che avevo trovato seduta accanto a me in prima media, fra i banchi dell’ultima fila. Sono lenta ad affezionarmi alle persone e i colpi di fulmine rappresentano un’eccezione all’interno della mia grammatica emotiva, eppure non trovo altra categoria per descrivere la fascinazione che mi calamitò verso di lei appena la conobbi. Ascoltavamo la stessa musica, eravamo alte uguali e, scoprimmo presto, nate lo stesso giorno – tanto bastò per sentirci destinate a un’amicizia che, ne eravamo sicure, sarebbe durata per sempre, e che per un po’ ha avuto i tratti idilliaci, vagamente simbiotici, delle storie d’amore ai loro inizi. Io ero timida, lei esuberante; lei sboccata, io in punta di forchetta; io piuttosto distaccata, lei piena di entusiasmo; lei disobbediva all’autorità con piacere e disinvoltura, io volevo solo sentirmi dire “brava”. Olivia corrispondeva perfettamente allo stereotipo della cattiva compagnia, e i miei genitori provavano sentimenti ambigui nei suoi confronti: un po’ la trovavano divertente, un po’ temevano che avrebbe distrutto anni di educazione borghese per condurmi sulla cattiva strada. A distanza di venticinque anni da quell’incontro mi rendo conto che, se non l’avessi mai conosciuta, oggi sarei una persona diversa – e sicuramente più noiosa.
Buone amiche, cattive influenze
«Queste cattive influenze aiutano le eroine a sfuggire ai mondi domestici che le soffocano e non hanno nessuna aspettativa per il loro futuro. Le conducono nel territorio oscuro e pericoloso dell’aldilà. Le aiutano a dimenticare le prudenti lezioni che sono state loro impartite. Questi rischi sono essenziali. In quale altro modo l’eroina potrà mai scoprire chi è e chi dovrebbe diventare?», scrive Tiffany Watt Smith in Pessima amica (pubblicato da UTET con traduzione di Chiara Baffa), un saggio dove l’autrice, storica della cultura, esplora l’amicizia femminile intrecciando l’analisi di aneddoti personali e storiografici a fonti teoriche. Queste ultime, a eccezione delle filosofie femministe, hanno sempre espresso notevole scetticismo nei confronti dei rapporti fra donne. A partire da Aristotele passando da Montaigne, che elogiava le relazioni amicali sopra tutte le altre ma credeva che le donne non fossero in grado di instaurare rapporti paritari di affetto e cura, fino ad arrivare ai numerosi luoghi comuni che screditano sistematicamente la possibilità di una complicità fra donne, le comunità femminili non hanno mai goduto di buona fama.
Quando, una decina d’anni fa, cominciai a scrivere per una piccola agenzia di comunicazione dove lavoravano solo donne, tutti mi dissero “sarà tosta”, e quasi mi sorpresi quando mi accorsi che il clima era invece collaborativo e rilassato, a tratti giocoso, niente affatto attraversato dalle invidie e dai pettegolezzi che sempre si ascrivono ai rapporti femminili. Sebbene lavorassimo parecchio e a ritmi sostenuti, l’atmosfera era amichevole, come in ogni altro gineceo di cui abbia fatto parte – quando fanno le cose insieme, le donne diventano subito amiche, e se è vero che «non dobbiamo per forza diventare amiche per essere alleate», bisogna riconoscere che «anche la storia dell’attivismo femminile degli anni Sessanta è impossibile da raccontare senza parlare di amicizia».
Watt Smith rintraccia numerosi esempi storici a sostegno di questa tesi, dalle beghine che, nel nord dell’Europa, formavano comunità autonome, solidali e svincolate dall’egida ecclesiastica, ai gruppi di donne non sposate, impiegate nell’industria della seta, che nella Parigi del XIII secolo si stringevano in nuclei di sostegno economico e abitativo, assimilabili a vere e proprie famiglie, fino ai gruppi di amiche che, in epoca più recente, decidono di andare a vivere insieme per garantirsi supporto reciproco e compagnia durante la vecchiaia. In ogni fase della vita le amiche rappresentano sì un luogo di conforto, svago e sostegno, ma anche uno specchio che ci aiuta, niccianamente, a diventare quello che siamo, a corrispondere alla versione più autentica di noi stesse – una versione che non si dà una volta per tutte ma che si costruisce nello scambio con le altre, e che va incontro a una evoluzione continua. È in questa dimensione dialettica e formativa che si annidano, però, anche i rischi maggiori.
Un confronto continuo
Non posso sapere con esattezza cosa significhi, per un maschio, essere amico di un altro maschio, ma so che da femmina, durante l’adolescenza e non solo, è pressoché impossibile non fissarsi, con un filo di inquietudine, su quello che fa la nostra amica. Sul suo corpo, che già da ragazzine ci insegnano a misurare per valutarne l’attrattività, sul modo in cui parla, ride, gesticola e si rapporta ai ragazzi, sulla popolarità di cui gode e che a noi magari manca, sul suo riflesso che può nobilitarci o farci crollare, sul matrimonio che ha appena contratto o su quello che ha deciso di mandare a monte. Sulla sua vita, il suo lavoro e il suo carattere che, se da un lato possono esserci d’ispirazione, dall’altro rischiano di sembrarci sempre, e tristemente, migliori dei nostri. Serve una lunga pratica di decostruzione per smetterla di osservare le nostre amiche solo per paragonarci a loro, e cominciare invece a farlo per il puro piacere di guardarle. È in questo rimando di riflessi continuo, a tratti sfiancante, che si costruisce il delicato equilibrio fra rivalità e complicità, fra confronto e sorellanza. È su questo terreno che molti rapporti capitolano, esasperati dall’emulazione o scossi da scelte di vita che vengono vissute come veri e propri tradimenti. Come scrive la psicoterapeuta Susie Orbach, la cosa più difficile è legarsi senza cercare di clonarsi.
In Pessima amica torna spesso una domanda: se, da un lato, sono piuttosto chiari i tratti di una sodale mediocre, come si fa a essere una buona amica? A partire dal Novecento l’amicizia femminile è stata parzialmente riabilitata, si è diffusa l’idea che le donne siano naturalmente brave a stringere e mantenere rapporti – forse perché si crede che siano naturalmente portate al lavoro di cura, o che abbiano una sensibilità più spiccata e attenta rispetto ai maschi – e con essa anche nuove aspettative sulla forma che questi legami dovrebbero assumere per essere giudicati sani, utili, felici. Per ciascuna fase della vita si cerca di codificare quali siano le responsabilità e i limiti di una buona amica, che cosa è lecito aspettarsi e che cosa no, e tutto ciò che esula da questa definizione va incontro a un generico biasimo sociale: non è auspicabile, per esempio, scegliere di vivere vicino alle amiche piuttosto che accanto alla propria famiglia, e confessare a un’amica una certa perplessità nei confronti dell’uomo che ha scelto come sposo potrebbe sembrare un’indebita invasione di campo.
Simone Weil ha scritto che l’amicizia «non la si cerca, non la si sogna, non la si desidera; la si esercita», ed è piuttosto condivisibile: al pari dei nostri rapporti amorosi, ha bisogno di tempo, cura e impegno per essere mantenuta. Forse, però, Weil voleva dire anche qualcosa in più, ovvero che l’amicizia è una relazione che non si può mai dare in forma teorica e per cui è forse ozioso cercare di stabilire regole a priori, perché ha senso solo nel momento in cui si pratica, in cui diventa realtà. Ogni tentativo rappresenta un pezzo unico: segue le proprie leggi e ha una traiettoria tutta sua.
Avevo quindici anni quando Olivia cambiò scuola senza farmene parola e, da un giorno all’altro, scomparve dalla mia vita. Per un po’ smisi di mangiare, e a lungo le ho portato rancore per quella che ricordo come una delle rotture più dolorose della mia vita. Per molto tempo non l’ho più rivista, ogni tanto mi arrivavano sue notizie che però non cercavo mai di approfondire – non volevo sapere cosa facesse, né chi le stirasse i capelli ora che non ero più io a pettinarglieli, o chi chiamasse ogni sera per confidarsi. Qualche anno fa sono andata a cena in quello che, nel frattempo, era diventato il suo ristorante. Ci siamo abbracciate e ho pensato che il suo corpo era più o meno sempre lo stesso di quando lo vivevo come un’estensione del mio, abbiamo bevuto e fumato, siamo rimaste a parlare fino all’alba, ubriache ed entusiaste della fortuna che avevamo avuto a conoscerci e a godere, per qualche anno, di un’amicizia così. Per alcune settimane, dopo quell’incontro, fantasticai pigramente che il secondo atto della nostra amicizia stesse per cominciare, ma poi non tornai mai al suo ristorante, non le chiesi di vederci, né lei a me, e infine smisi di pensarci. Le quattro di Sex and The City esistono solo grazie a Hbo e anche le Spice Girls dopo due album si sono sciolte: come per gli amori, ci sono amiche fatte per restare e costruire un mondo insieme, e altre, non meno importanti, che ti intercettano a un bivio, ti sconvolgono un po’ la vita, ti fanno capire qualcosa di quello che sei, e poi vanno via.
da Pressenza
Napoli-Barra, 24 novembre 2025 – In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne
La memoria non è solo ricordo: è voce che resiste al silenzio, è ponte tra vite lontane, è responsabilità. A Barra, periferia orientale di Napoli, questa voce si è trasformata in un incontro pubblico, in un’esperienza condivisa e in un ascolto reciproco. Non in un’aula istituzionale, ma in una biblioteca sociale nata per custodire storie e restituire dignità: La Casa di Francesca.
Uno spazio speciale, perché nato dal dolore trasformato in impegno civile. Lo hanno fondato due insegnanti in pensione, Mariarosaria Izzo e Matteo Speraddio, per dare continuità all’idea della figlia Francesca, scomparsa dieci anni fa. Francesca immaginava una biblioteca come luogo capace di accogliere, di ascoltare, di mettere in relazione. Non come servizio, ma come presenza. Oggi quello spazio è realtà: libero, aperto, abitato da bambini, studenti, famiglie, migranti, cittadini del quartiere in cerca di un luogo dove sentirsi parte.
Il 24 novembre, proprio in questa biblioteca, si è tenuto l’incontro pubblico “Dialogo con Conny Del Monaco sulla condizione delle donne afghane”. A moderare, Matteo Speraddio. Non una presentazione formale, ma un dialogo che ha trasformato una tesi universitaria in strumento collettivo, vivo, civile.
Conny Del Monaco ha presentato alcuni passaggi del suo lavoro di laurea, “Donne Afghane tra resistenza e memoria: i racconti di Homeira Qaderi e Fawzia Koofi”, discusso all’Università Federico II di Napoli. Una tesi che non nasce solo da studio, ma da un’urgenza: restituire spazio a voci che non hanno spazio; far emergere vite raccontate dall’esilio che, senza narrazione, rischiano di essere dimenticate.
Protagoniste dei memoir analizzati sono due donne afghane: Homeira Qaderi, autrice di Dancing in the Mosque, e Fawzia Koofi, autrice di The Favored Daughter e prima vicepresidente del Parlamento afghano. Entrambe hanno scritto in inglese, non per allontanarsi dalla propria cultura, ma per renderla visibile al mondo. La scrittura diventa per loro un modo per attraversare i confini e opporsi alla cancellazione.
Nei loro testi, non si racconta solo l’oppressione, ma anche la contraddizione. Quando i talebani presero il potere negli anni ’90, molti li accolsero come portatori di ordine dopo il caos della guerra civile. Solo in seguito emerse che quell’ordine si fondava su rigide restrizioni, soprattutto per le donne: istruzione vietata, lavoro e movimento limitati, parola negata nello spazio pubblico. Ma anche in quel contesto alcune donne resistettero. Qaderi, appena tredicenne, organizzava scuole clandestine per bambine. Koofi, contro ogni aspettativa familiare e sociale, portava la propria voce fino al Parlamento. Per entrambe, scrivere è diventato un modo per non scomparire.
Un punto centrale affrontato durante l’incontro riguarda l’origine dell’oppressione. Non è la religione, ha spiegato Conny, ma una tradizione culturale patriarcale che usa la religione come giustificazione. Esiste infatti un femminismo islamico che interpreta i testi sacri come luogo di dignità, giustizia e responsabilità reciproca, e non come strumento di subordinazione.
Da questo sono nate domande e riflessioni, non solo per comprendere meglio la condizione delle donne afghane, ma per misurare quanto siamo disposti a riconoscere quelle storie come parte della nostra storia. Quanto siamo disposti a considerarle presenti, e non lontane.
L’incontro non si è limitato a trasmettere informazioni, ma ha sollecitato un modo diverso di stare dentro le storie: non solo ascoltarle, ma farsene carico. Non soltanto comprenderle, ma riconoscerle.
Luoghi come La Casa di Francesca ricordano che la cultura non è un ornamento ma un gesto di responsabilità. Mettere in circolo storie, ascoltarle, riconoscerle significa restituire volto e dignità a chi rischia di essere dimenticato. Non basta leggerle: bisogna farle vivere.
da La Stampa
Per tanti anni ho creduto che essere un uomo significasse una cosa sola: non cedere mai. Non mostrare paura. Non chiedere aiuto. Essere quello che decide, che regge tutto, che ha sempre ragione. Era un modello che non avevo scelto. Semplicemente ci ero cresciuto dentro. Il mio cambiamento non è iniziato quando la mia vita è crollata. È iniziato molto prima, quando mi sono innamorato di Monica. Anzi, non subito: è iniziato quando ho cominciato a vivere con lei, con una donna. È lì che ho capito, giorno dopo giorno, che quel modello non funzionava nelle relazioni vere. Che non puoi amare davvero qualcuno e allo stesso tempo voler vincere sempre. Che la forza non è nel dominare il confronto da soli, ma nel saperlo attraversare insieme. Eppure quel vecchio modello di “maschio alfa” era duro da lasciare. Mi ha fatto perdere tanti secondi, tante ore di vita con la persona che amavo. Quando c’erano attriti, quando si discuteva, io non riuscivo a vedere chiaramente: volevo solo avere ragione. Non scendevo a compromessi, restavo rigido, chiuso, convinto che cedere avrebbe significato essere debole. Quei minuti, quelle ore, quei giorni passati con il muso duro e la rabbia dentro… Li ho rimpianti tutti, ma proprio tutti, quando, a causa del cancro, il tempo ha cominciato a mancarci davvero. Quando la vita ti mette davanti a un limite così grande, capisci in un attimo quanto sia stupido difendere l’orgoglio invece dell’amore. E poi è arrivato un altro colpo, più grande di quanto potessi immaginare: Giulia non c’era più. Giulia era amore, era semplicità, era lontana da quell’orgoglio che complica la vita. E solo allora ho avuto la piena consapevolezza che anch’io potevo cambiare. Ho capito che quella trasformazione iniziata anni prima poteva diventare la mia salvezza. Che se fossi rimasto l’uomo che non cede mai, che trattiene tutto, che non ascolta, mi sarei spezzato completamente. Ho compreso che essere un uomo non significa resistere a tutto. Significa permettersi di sentire. Non significa controllare. Significa accogliere. Non significa trattenere. Significa lasciare spazio alla verità, anche quando fa male. E significa anche porre attenzione al linguaggio che usiamo. Le parole che scegliamo, spesso senza pensarci, sono anch’esse figlie del modello culturale che abbiamo ereditato: parole dure, assolutiste, parole che dividono, che etichettano, che feriscono senza che ce ne accorgiamo. Siamo una società narrante che comunica attraverso una lingua, e la lingua crea, plasma, definisce. E il cambiamento passa anche da qui, dal modo in cui nominiamo il mondo e chi ci sta accanto. Perché le parole – tutte le parole – possono creare empatia o distacco, comprensione o pregiudizio, gioia o dolore, amore o odio, violenza o pace. E scegliere parole diverse, più gentili, più vere, più libere dall’orgoglio, è già un modo per trasformare le relazioni e la società in cui viviamo. Oggi posso dirlo con sincerità: quel modello di maschio che vive per dimostrare qualcosa non ci rende più forti: ci rende solo più soli, più arrabbiati, più lontani da chi amiamo. La mia forza è arrivata quando ho accettato di essere vulnerabile. Quando ho smesso ogni maschera. Quando ho iniziato a vedere davvero le donne non come un esame da superare o un terreno da conquistare, ma come un dono da ricevere – così come io avrei voluto essere il più bel dono per Monica e per Giulia. Da allora vivo meglio. Sono più leggero. Meno teso. Meno arrabbiato. Più presente. Per questo oggi mi rivolgo agli uomini che fanno fatica, che hanno paura di cambiare, che pensano che mettere da parte l’orgoglio significhi perdere terreno. Non è così. Cambiare non toglie forza: la libera. Io non posso recuperare il tempo che ho perso. Ma posso cercare di vivere diversamente il tempo che mi resta. E so che questo cambiamento – dolce, profondo, liberatorio – inizia da noi uomini. Dalla scelta, finalmente, di essere veri.
da il manifesto
Nella contemplazione di un paesaggio urbano a lei straniero, la narratrice del “Libro bianco” trova i moventi per tornare a ricordi luttuosi: da Adelphi, un racconto del 2016 in cui la prosa esibisce una manifesta tensione verso la lirica
I lettori di Han Kang sanno già che la neve, fenomeno atmosferico per il quale questa misteriosa paesaggista dell’animo umano esibisce una predilezione quasi ossessiva, si posa sullo sfondo delle sue narrazioni con una frequenza insolita. E se in letteratura le coincidenze non esistono, allora non è forse un caso che un intero suo libro si sia cristallizzato sotto i cieli (per lei) remoti di Varsavia – dove la scrittrice coreana aveva preso temporaneamente residenza alcuni anni fa – le cui strade innevate riecheggiano tanti grandi versi “invernali”, da quelli di Wisława Szymborska (per esempio nella vividissima “Nel sonno”, che comincia con «Ho sognato che cercavo una cosa» e prosegue più avanti: «Correvo trafelata/per ansie e stanze/mie e non mie./Mi impantanavo in gallerie/di neve e nell’oblio») alle liriche del sommo Czesław Miłosz, nelle quali spesso la neve appare recando con sé un ambiguo sentimento di sospensione del tempo – velo di oblìo ma anche preziosa occasione meditativa.
Il risultato di questo spaesamento è Il libro bianco (ora nella traduzione di Lia Iovenitti da Adelphi, con una nota finale dell’autrice, pp. 163, € 19,00), titolo che è innanzitutto un’ottima descrizione del contenuto: in esso il bianco della carta è infatti predominante rispetto al nero dell’inchiostro, disteso con calibratissima parsimonia tra le pagine. La densità estrema della prosa, oltre a una peculiare spaziatura del foglio, lavorano a un processo di intensificazione della scrittura che rende manifesta quella tensione verso la poesia già presente altrove, dai bellissimi “Non dico addio” e “L’ora di greco” a “Convalescenza”, fino alla “Vegetarian” (la versione inglese di “The White Book”, che ha avuto grande risonanza nel mondo anglosassone, valorizza questa tensione attraverso una disposizione del testo più spregiudicata, nella quale le righe di alcuni brani vengono interrotte da armoniosi accapo che fanno assomigliare l’opera a un vero e proprio prosimetro).
Che il luogo dal quale prende la parola la narratrice del racconto sia Varsavia, peraltro, non è specificato, anche se, da dettagli topografici e storici, per il lettore europeo non è difficile riconoscere la capitale della Polonia, martoriata da guerre e occupazioni, dalle cui finestre esala un’aria triste evidentemente affine alla sensibilità della straniera che, appena arrivata, si chiede «Perché in questa città sconosciuta mi riaffiorano alla mente vecchi ricordi?».
Rispetto agli altri libri di Han, che restavano fedeli a un impianto romanzesco, Il libro bianco è, da un punto di vista formale, un testo atipico, e persino eccentrico, in cui compaiono elenchi di oggetti, e una manciata di fotografie d’arte a dialogare con la scrittura. Bianche, naturalmente, sono tanto le cose che vengono descritte quanto quelle che vengono ritratte. Da principio vaga, questa “necessità” cromatica va precisandosi via via nei suoi moventi, mentre emerge al proscenio, già nella prima delle tre parti in cui è diviso il testo, la vicenda di una sorella maggiore nata prematura e morta dopo sole due ore di vita (il suo volto di neonata era, come tutto il resto, bianco).
Il desiderio – tramato, nella prosa della scrittrice coreana, da richiami alla metafisica buddhista – di incarnarsi nello sguardo dell’altro, di sentirne la sofferenza attraverso una compenetrazione che ha qualcosa di mistico, si materializza qui nel modesto miracolo che solo la letteratura può compiere: nella seconda parte la scrittura restituisce alla vita la sorella mai vissuta, espande quelle due ore – in cui sua madre la implorava di non morire – in un esserci, nel quale lei può correre tra le betulle (bianche), avvolgersi voluttuosamente fra lenzuola (bianche), scrutare il volo dei gabbiani (bianchi), raccogliere sassi bianchi e curare una magnolia yulan (dai fiori bianchi).
Un temerario, quasi anacronistico ricorso alla metafora rende Han una autrice che non somiglia a nessun’altra, oggi. Man mano che scorrono le istantanee di una esistenza ipotetica, il colore bianco assume il compito di fare da reagente per renderle visibili. “Bianco”, riflette la narratrice, è una parola dentro la cui radice, nelle lingue indoeuropee, convivono blanc, il colore, ma anche blank, il vuoto. Bianco può essere dunque l’indicatore di una soglia, quella da varcare per i vivi che cercano il dialogo con l’altra parte: bianco è il colore delle tenebre serene, non luogo ostile di cui avere paura, ma ponte gettato in cerca di senso.
Tornano i motivi del corpo come ambiente estraneo, del tempo diacronico come apparenza, della risignificazione del patimento. Sarebbe congeniale a una certa sensibilità dei nostri tempi, spedire Han Kang zaino in spalla nella terra incognita del dolore psichico, sperando che ne faccia ritorno con una cura ai mali invisibili dell’anima, ciò che a ben vedere la ridurrebbe a una versione letteraria delle profilassi del bio, del fitness, e di tutte le pratiche volte a rimuovere il terrore dell’insensato e della morte. Nelle pagine dei suoi libri, però, non ci sono ricette mediche, né consigli per il buon vivere. Via via che i suoi personaggi si addentrano come speleologi “nel bianco”, diventa sempre più esplicito che faranno ritorno a mani vuote, e che la cura sospirata non esiste. Le sue voci si dissolvono progressivamente nel paesaggio, bianco su bianco: «Quando grossi fiocchi di neve si posano sulla manica di un cappotto nero, i cristalli più grandi sono visibili anche a occhio nudo. Ci vogliono appena uno o due secondi perché quelle misteriose forme esagonali si dissolvano. È a quel breve istante di contemplazione silenziosa che lei sta pensando. Nell’attimo in cui inizia a cadere la neve, la gente si ferma, qualunque cosa stia facendo, e rimane a guardarla per un po’. I passeggeri sugli autobus alzano la testa e fissano fuori dal finestrino. E quando i fiocchi si disperdono senza rumore, senza gioia né tristezza, e poco dopo migliaia di altri cancellano silenziosamente le strade, alcuni smettono di osservare volgendo lo sguardo altrove». Alcuni smettono di guardare. Non tutti. Senza paura, altri continuano ostinatamente, «senza gioia né tristezza», a tenere gli occhi fissi sulla neve che si dissolve, sull’impermanenza di tutte le cose che però non è un vuoto: blanc, blank.
da Facebook
Tre giorni di laboratorio sull’archivio politico della Libreria delle Donne alla (e con) Fondazione Badaracco.
Mi sono iscritta perché ho sempre vissuto l’archivio come un luogo speciale e prezioso ma anche quasi irraggiungibile, spazio sacro solo di chi poteva vantare un livello intellettuale raffinato e avanzato. Così, l’idea di poterci mettere un piede e il naso era praticamente irresistibile, di più alla luce della mia tesi magistrale a cui sto cominciando a pensare.
Ma come spesso succede, le possibilità trovate e vissute davvero sono state molte di più di quelle che avevo messo in conto o anche solo intuito.
Prima di tutto, come sempre, lo stare insieme fra donne, in questo caso donne interessate, intelligenti, appassionate, a tratti anche commoventi (per me, che mi emozionano il valore umano, la capacità di gentilezza e di ascolto, il pensiero che respira e si stimola e soprattutto cresce attraverso lo scambio con quello altrui).
E poi l’effetto di uscire dal mio guscio nel quale mi ritiro tanto spesso e tanto volentieri, perché nel mondo orribile non ci voglio stare e mi sembra che mi faccia male tutto, ma così anche mi perdo e dimentico la parte bella e vitale, quella che dà speranza, forza e senso al nostro continuare a stare qui, giorno dopo giorno, nutrendo la consapevolezza che nessuna è la sola o da sola.
In tal senso, questi giorni sono stati un bel promemoria, direi felice.
Abbiamo letto dei documenti più o meno vecchi, ci siamo confrontate su esperienze di oggi e di ieri che hanno le radici in comune ma i rami in mondi completamente diversi, abbiamo parlato di cose alte e di cose piccole, sempre mischiando un po’ di cultura e politica e un po’ di vissuto e di personale, alla buona, vecchia e infallibile maniera, sempre sedute in cerchio, sempre disponibili a turno a dirci, a capirci, o almeno a interrogarci, mi pare.
Me ne torno a casa con nomi e cognomi che si sono riempiti di senso, voglia di fare cose, un appuntamento per un convegno, una visione più ampia della mia tesi, un blocchetto pieno di appunti, alcune donne che prima nemmeno conoscevo e ora vorrei rivedere, la consapevolezza che a furia di stare zitta la mia capacità di parlare spontaneamente è diventata un po’ timida (ma ci lavorerò), la voglia di approfondire ma anche di farlo condividendo, un’idea di “stanza della tessitura” che cambia tutto, una calamita con un gatto rosso, e un’enorme gratitudine per aver potuto esserci e per le donne che hanno organizzato e contribuito alla possibilità di questo laboratorio.
Grazie di cuore, perciò e prima di tutto a Chiara Martuccci, Fondazione Elvira Baradacco, Libreria delle donne di Milano e a Giordana Masotto.
E poi alle mie compagne di banco e di viaggio: Valentina, Fosca, Michela, Silvia, Anita, e tutte le altre con le quali magari ho parlato meno ma dalle quali ho ascoltato tutto.
E come ha detto sul (gran) finale una di noi: sapremo ritrovarci!
da Sinistra Sindacale
Il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, ricorda l’assassinio a bastonate delle tre sorelle Mirabal da parte dei sicari del dittatore domenicano Trujillo nel 1960 perché oppositrici del regime. Da diversi anni è diventata una giornata che dovrebbe ricordare a noi uomini la nostra responsabilità nella violenza contro le donne.
Ogni giorno milioni di donne in tutto il mondo sono sottoposte a violenza fisica, sessuale e psicologica da parte di uomini; diverse di loro vengono anche uccise. Secondo una ricerca dell’Unione europea del 2021, circa il 30% delle donne nell’Ue ha subito violenza fisica o minacce e/o violenza sessuale nel corso della propria vita. Questa violenza è spesso esercitata fra le pareti domestiche da parte del partner o da un familiare maschio. Secondo altre ricerche il comportamento maschile è la prima causa di morte violenta e invalidità permanente per le donne fra i 16 e i 44 anni in tutto il mondo.
Violenze di ogni tipo avvengono anche nei luoghi di lavoro: le tante donne che lavorano lo sanno benissimo, e non hanno bisogno di ricerche sociologiche per riconoscere la verità di questa affermazione.
Senza dubbio sono cambiate le nostre vite, le relazioni familiari, l’amicizia e l’amore tra uomini e donne, il rapporto con figlie e figli. Consuetudini e modi di sentire sono mutati e le forme della convivenza sociale registrano, sia pure a fatica, questo cambiamento. Ma le violenze persistono.
La violenza non è una devianza. È parte della nostra storia personale, del nostro modo di essere uomini. E soprattutto, non è mai solo quella che si vede, ma è anche quella che attraversa il linguaggio, il modo in cui pensiamo la forza, il potere, perfino l’amore.
Che cosa possiamo fare, noi uomini, della violenza che ci abita? Non solo quella eclatante, ma anche quella sottile, quella che si nasconde nelle battute e anche nella paura di sembrare deboli. Non si tratta solo di violenze messe in atto: il punto di vista maschile non riesce ancora a vedere chiaramente la grande trasformazione delle nostre società prodotta negli ultimi decenni dal massiccio ingresso delle donne nel mercato del lavoro, e dai mutamenti che sono stati sollecitati dai movimenti femministi e delle donne.
Non voglio parlare in nome di nessuno, e neppure allontanare da me la responsabilità di questa situazione, che è principalmente individuale. Non voglio neppure dire che tutti gli uomini siano attori di violenze e soprusi. Nessuno di noi uomini può ergersi a giudice o fare la predica a qualcuno, ma tutti noi uomini abbiamo la responsabilità di quello che accade.
La violenza sulle donne è esercitata da uomini: è quindi necessario, anzitutto come uomini, prenderne coscienza e poi impegnarsi in tutti gli ambiti per cambiare questa situazione, a partire dall’interrompere la tacita solidarietà maschile con chi agisce la violenza. Perché la giornata del 25 novembre non diventi una vuota ritualità che, dopo essere stata celebrata, venga dal giorno successivo dimenticata.
dal Corriere della Sera
Socialista, femminista, si unì alla Resistenza. All’Assemblea costituente e poi al Senato sfidò un mondo che ancora non contemplava la parola “uguaglianza” e portò avanti la sua lunga battaglia: abolire la prostituzione regolata dallo Stato. Oggi libri e teatro ripropongono la forza della sua modernità
«Questo Paese di viriloni che passano per gli uomini più dotati del mondo e poi non riescono a conquistare una donna da soli! Inoltre, che giovani sono questi che per avere una donna devono farsela servire su un vassoio come un fagiano?». Quando Angelina Merlin, detta Lina, pronunciava queste parole in Senato, molti colleghi distoglievano lo sguardo. Era il prezzo da pagare per chi aveva osato sfidare uno dei tabù più radicati dell’Italia postbellica: affrontare il tema delle case di tolleranza. A lei si deve la legge n. 75 del 20 febbraio 1958, quella che chiuse i bordelli e abolì la regolamentazione pubblica della prostituzione, sancendo per la prima volta che lo sfruttamento non poteva avere il sigillo della legalità.
La battaglia di Lina Merlin
La battaglia durò dieci anni. In Parlamento la chiamavano con ironia “la senatrice delle case chiuse”, ma lei accettava il soprannome come una medaglia: «Non chiudo le case» rispondeva, «apro la coscienza di un Paese». Con quella legge furono eliminati circa seicento bordelli ufficiali, e con loro un’intera struttura amministrativa che regolava, controllava e umiliava migliaia di donne. Le condizioni erano drammatiche: orari massacranti, controlli medici invasivi, nessuna tutela legale. La miseria, l’isolamento sociale e la violenza erano quotidiani. Le malattie sessualmente trasmissibili, la coercizione e lo sfruttamento fisico e psicologico erano all’ordine del giorno.
Da allora la legge Merlin è rimasta un punto di equilibrio instabile.
C’è chi la considera superata, chi la difende come presidio di civiltà, chi ne invoca un aggiornamento. Negli ultimi anni c’è chi ha persino proposto la riapertura delle case di tolleranza, parlando di una presunta “regolamentazione sicura”. Ma l’eredità di Merlin resta chiara: la dignità non è materia negoziabile.
Come lei stessa ricordava in un celebre intervento: «Onorevoli colleghi, molti di voi sono insigni giuristi e io no, ma conosco la storia. Nel 1789 furono proclamati in Francia i diritti dell’uomo… e le costituzioni degli altri Paesi si uniformarono a quella proclamazione che in pratica fu solo platonica, perché cittadino fu considerato solo l’uomo con i calzoni e non le donne». Questa frase sintetizza il filo conduttore del suo impegno: portare la coscienza storica dentro le aule parlamentari e trasformare la critica in azione concreta.
Lina Merlin, ritratto di un’antifascista
Una donna minuta, dallo sguardo fermo e la voce chiara, capace di sfidare un mondo che non contemplava ancora la parola “uguaglianza”. Nata nel 1887 a Pozzonovo, nel Padovano, in una famiglia numerosa e borghese, crebbe tra libri e ideali. Fin da giovane mostrò un senso istintivo di giustizia: non sopportava la prepotenza, né quella domestica né quella dei potenti.
Quando nel 1919 decise di iscriversi al Partito Socialista, fu una scelta di campo e di vita. In casa la chiamavano “pacefondaia”, un nomignolo affettuoso e pungente per la sua ostinata fede pacifista, che la portò a opporsi all’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Una guerra che le portò via due fratelli, e rafforzò in lei l’idea che nessuna causa potesse valere tanto dolore. Negli anni successivi, la parola diventò la sua arma.
Collaborò a La difesa delle lavoratrici, la rivista simbolo del socialismo femminile, fondata da Anna Kuliscioff, di cui divenne direttrice, e al settimanale padovano L’eco dei lavoratori. Fu in quell’ambiente di militanza e carta stampata che incontrò Dante Gallani, medico e deputato socialista: tra i due nacque un’intesa profonda, di idee e di sentimenti. Nelle riunioni del partito, Lina si faceva notare per la tenacia e la lucidità. Nel 1924 le affidarono un compito straordinario per una donna dell’epoca:guidare la campagna elettorale socialista in Veneto. In quei mesi raccolse e documentò le violenze degli squadristi fascisti, un dossier che consegnò a Giacomo Matteotti, poco prima del suo celebre discorso contro il regime.
Dopo il rapimento e l’assassinio del deputato,la giovane militante venne schedata come sovversiva, e in meno di ventiquattro mesi licenziata dal suo impiego di insegnante perché rifiutatasi di prestare il giuramento di fedeltà al regime, obbligatorio per gli impiegati pubblici, e arrestata cinque volte: nel 1926, nel pieno della repressione fascista, tentò di riparare a Milano, ma finì in carcere e poi al confino in Sardegna. Tornò in libertà in un Paese ormai piegato dal fascismo, sposò Gallani, rimasto vedovo e padre di due figli, ma la loro felicità fu breve: lui morì dopo quattro anni.
All’indomani dell’8 settembre 1943, Lina era di nuovo in prima linea. Partecipò alla Resistenza organizzando, con Ada Gobetti e altre antifasciste, i Gruppi di Difesa della Donna: una rete di coraggio, sostegno e azione. Dopo la Liberazione, il Partito Socialista la chiamò a far parte della direzione e del governo regionale lombardo del Cln (Comitato Liberazione Nazionale) Alta Italia, dove si occupò della riorganizzazione delle scuole come vicecommissaria all’Istruzione.
Nel 1946 divenne una delle 21 donne elette all’Assemblea costituente. A lei si deve l’inserimento delle parole “distinzione di sesso” nell’articolo 3 della Costituzione, tra i criteri che non possono determinare discriminazioni: un parametro fondamentale per impedire leggi dal carattere discriminatorio nei confronti delle donne. Due anni dopo fu eletta senatrice e, nel 1953, restò l’unica donna in Senato. «Si diceva che il Senato avesse una donna sola, ma una di troppo» raccontava, con un sorriso che non mascherava l’amarezza.
Nel 1958 fu eletta alla Camera e partecipò alla Commissione antimafia. Ma la sua coerenza, spesso scomoda, le costò isolamento e critiche anche dentro il suo partito. Nel 1961 lasciò il Psi, delusa ma mai domata. Negli anni seguenti si ritirò dalla vita politica attiva, respingendo ogni invito a candidarsi di nuovo. Si dedicò invece a scrivere la propria storia, sollecitata dalla figlia adottiva. Le sue memorie, pubblicate postume nel 1989 per iniziativa della senatrice Elena Marinucci, restituiscono il ritratto di una donna che non cercò mai il consenso, ma la coerenza.
La memoria prende voce
Per le studiose contemporanee di storia delle donne, Lina Merlin è una figura chiave della modernità italiana. Luciana Percovich, docente e ricercatrice della Libera Università delle Donne di Milano, ne ha letto il profilo in chiave di “femminismo delle origini”. La scrittrice e saggista Elisabetta Rasy ha raccontato la sua capacità di coniugare etica e politica, intelligenza e concretezza, dentro un mondo ancora ostile alle donne.
Lina Merlin, morta nel 1979 a novantadue anni, socialista, era tra gli autori della Costituzione.
La memoria, però, non vive solo nei libri: torna anche nei teatri, dove la vita e l’impegno di Lina Merlin vengono restituiti attraverso la voce e il corpo degli attori. Tra gli spettacoli più recenti: Una delle tante di Nicole De Leo, che fa rivivere le lettere delle donne delle case chiuse in dialogo con la senatrice; Donne perdute di Daria Martelli, che ripropone le testimonianze degli anni Cinquanta; e la recente lettura scenica Maestre di vita e pensiero – Lina Merlin curata da Ombretta De Biase, che ha avuto luogo alla Libreria delle Donne di Milano e che riporta in vita il suo pensiero politico e l’impegno concreto.
La sua memoria si intreccia anche con lo spazio urbano: diverse città italiane l’hanno ricordata attraverso strade, piazze, targhe e un giardino a Padova. Ogni intitolazione è un segno tangibile del riconoscimento del suo impegno e un invito a non dimenticare le battaglie per la dignità e la parità. Il giardino, in particolare, diventa una metafora potente: come Merlin ha aperto spazi di libertà dove prima regnavano sfruttamento e silenzio, cosìi luoghi che la ricordano raccontano oggi un’Italia diversa, fatta di scelte coraggiose.
La senatrice si spense a Padova nel 1979 e riposa nel Cimitero Monumentale di Milano: la sua sepoltura fa parte di un percorso dedicato alle grandi donne.
da ActionAid
ActionAid con l’Osservatorio di Pavia presenta la ricerca su come si percepiscono in Italia la violenza e le diseguaglianze di genere e come prevenirle
La violenza economica è considerata accettabile da un uomo su tre, e lo è per quasi la metà dei maschi Millennial e quelli della Gen Z. Per uno su quattro la violenza verbale e quella psicologica sono ampiamente motivate da provocazioni e comportamenti “scorretti” delle donne. La maggioranza (55%) dei Millennials ritiene legittimo il controllo sulla partner, soprattutto in caso di tradimento o di mancata cura della casa e dei figli. Anche la violenza fisica è giustificabile per quasi 2 maschi adulti su 10. La violenza è così interiorizzata e normalizzata nelle relazioni affettive e familiari. Molte delle sue manifestazioni sono reinterpretate dalla popolazione maschile come reazioni “comprensibili” a conflitti o comportamenti delle donne percepiti come provocatori. Un quadro che va dalla generazione over 60 dei Boomer, che nega la violenza di genere e non sa vederne le diverse forme, agli uomini più giovani, che pur riconoscendola, la legittimano. Sono le facce dello stesso fenomeno: l’inadeguata prevenzione primaria della violenza nelle scelte politiche italiane, a fronte di annunci e buoni propositi degli anni passati.
È quanto rivela PERCHÉ NON ACCADA. La prevenzione primaria come politica di cambiamento strutturale, ricerca di ActionAid con Osservatorio di Pavia e B2Research su percezioni della violenza e discriminazioni in Italia e come prevenirli. Un viaggio nella vita quotidiana delle donne, dalla casa agli spazi pubblici, dai trasporti alla cultura e al digitale per indagare come disuguaglianze e stereotipi di genere si riproducano in ogni ambito della società, contribuendo a ricreare e legittimare la violenza.
«Non si può prevenire la violenza senza promuovere uguaglianza, e non si può costruire uguaglianza senza assumere la prospettiva di genere in ogni politica pubblica. Significa intervenire sulle cause profonde, non solo sugli effetti. ActionAid chiede al Governo e al Parlamento che almeno il 40% delle risorse annuali del Piano antiviolenza sia vincolato alla prevenzione primaria insieme all’adozione di un piano strategico e operativo ad hoc, con risorse certe, obiettivi verificabili e responsabilità condivise. La prevenzione primaria non si può fermare alla necessaria educazione nelle scuole, ma deve coinvolgere le persone di ogni età, con azioni dirette a tutti gli ambiti della vita quotidiana, perché solo un cambiamento culturale può fermare la violenza maschile contro le donne» dichiara Katia Scannavini, co-segretaria generale ActionAid Italia.
Disparità, sessismo e mancate responsabilità. la frattura delle diseguaglianze.
Ogni spazio, ruolo sociale e privato che le donne vivono è attraversato da disuguaglianze di genere, dove si riproducono ruoli tradizionali e squilibri di potere che limitano l’autonomia delle donne. A casa per esempio: il 74% delle donne si occupa da sola dei lavori domestici, contro il 40% degli uomini, con divari ancora più ampi tra le generazioni più anziane (80% delle Boomer e 83% delle donne della Gen X). Anche nella genitorialità il carico resta sbilanciato: il 41% delle madri si occupa da sola dei figli e delle figlie, contro appena il 10% dei padri. Se si esce dalla propria sfera privata si sperimenta che gli spazi pubblici sono “a misura d’uomo”, le città sono meno accessibili e sicure per le donne: il 52% delle donne ha provato paura negli spazi pubblici (contro il 35% degli uomini), una quota che sale al 79% tra le più giovani e resta alta anche tra le Boomers (55%). L’uso dei mezzi pubblici per le donne spesso significa “mobilità della cura”: alta frequenza, con spostamenti più brevi e frammentati legati al lavoro, alla cura e alla gestione familiare. Questo modello, le espone a maggiori disagi e insicurezze: il 38% delle persone ha avuto paura almeno una volta di viaggiare sui mezzi pubblici, ma tra le giovani donne della Gen Z il dato sale al 65,5%. Solo il 13% ritiene i mezzi sempre sicuri, mentre il 40% pensa che una donna sia al sicuro solo di giorno e un quarto solo se accompagnata. Quando si passa a confrontarsi con il mondo della cultura e i suoi prodotti come film, serie tv, spettacoli dal vivo si comprendono gli stereotipi che ne sono alla base: il 55% delle donne si è sentita svalutata nei contenuti culturali, questa percezione sale al 70% tra le giovani donne della Gen Z. Anche online quattro donne su dieci (40%) dichiarano infatti di aver avuto “spesso” o “a volte” timore di ricevere reazioni sessiste ai propri contenuti online. La paura è più alta tra le ragazze della Gen Z (59,3%), mentre scende al 29,1% tra le Boomer. Le più giovani, più presenti nei social, sono più esposte sia agli attacchi sia alla consapevolezza del sessismo digitale.
Politiche di uguaglianza e prevenzione: la svolta che non c’è.
Le scelte del governo, finora, non hanno segnato alcuna svolta. Sebbene l’applicazione del gender mainstreaming – la prospettiva di genere trasversale a ogni politica – sia indicata come una delle priorità trasversali della Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, questo principio non è mai stato attuato. Il PNRR avrebbe dovuto rappresentare un’occasione concreta per integrare la prospettiva di genere in tutte le politiche pubbliche, inclusa la mobilità, ma ciò non è avvenuto. Infatti, quest’anno l’European Institute for Gender Equality (EIGE) evidenzia come in Italia i meccanismi istituzionali messi in atto dagli organismi nazionali incaricati di attuare e promuovere le politiche di uguaglianza di genere e d’integrazione della prospettiva di genere non siano efficaci. Questi procedimenti ottengono nel 2025 un punteggio del 41.1 %, inferiore alla media dell’Unione europea che è del 50.8%. La Spagna invece ha totalizzato 86,2% di efficacia. Per questo ActionAid ribadisce che la responsabilità di trasformare le parole in politiche concrete riguarda tutto il Governo e il Parlamento – nessuno escluso. Le tappe necessarie sono: 1) applicare la prospettiva di genere in tutte le politiche pubbliche; 2) mettere in campo un piano strategico e operativo ad hoc sulla prevenzione primaria, con risorse certe e obiettivi misurabili. Un primo impegno che ActionAid chiede al Governo è quello di agire subito vincolando almeno il 40% dei fondi dell’attuale Piano nazionale antiviolenza alla prevenzione primaria. Questo permetterebbe all’Italia di avvicinarsi a proprio a paesi come la Spagna, dove oltre il 50% dei fondi è destinato ad azioni che promuovono l’uguaglianza di genere, con risultati tangibili: dal 2003 al 2024 i femminicidi sono diminuiti di oltre il 30% e lo scorso anno si è registrato il numero più basso di donne uccise da quando esistono dati ufficiali.
ActionAid, come si realizza la prevenzione.
ActionAid è impegnata in Italia per affrontare le cause strutturali e culturali della violenza maschile contro le donne. L’organizzazione coinvolge scuole, servizi sociali e sanitari, istituzioni locali e nazionali, comunità, media, imprese, associazioni di categoria e organizzazioni della società civile, creando alleanze concrete per il cambiamento. Con gli interventi europei Nora against GBV e The Care, ActionAid supporta 30 progetti di prevenzione primaria in tutto il Paese, tra cui campagne di sensibilizzazione comunitaria su stereotipi e violenza; linee guida per un linguaggio inclusivo e non sessista nei media; monitoraggio delle politiche; creazione di spazi pubblici e comunitari sicuri per donne, ragazze e ragazzi. Nel solo ultimo anno, oltre 800 studenti, 130 docenti e 75 genitori hanno partecipato a formazione e coprogettazione territoriale. Più di 1.500 dirigenti scolastici, insegnanti, educatrici e educatori hanno seguito il corso “Youth for Love. Prevenire e contrastare la violenza tra pari e di genere a partire dalla scuola”, mentre 60 istituzioni e associazioni sono dentro le attività di advocacy. La ricerca sull’affettività e la percezione della violenza lanciata insieme a Sylla/Webooh, ha coinvolto 15.000 adolescenti e 1.000 adulti. Per prevenire pratiche lesive come le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni precoci o forzati, dal 2018 ad oggi, ActionAid ha raggiunto oltre 2.200 persone appartenenti alle comunità straniere colpite con azioni di sensibilizzazione ed empowerment. Da anni l’organizzazione porta avanti un lavoro di analisi e advocacy, con l’obiettivo di migliorare le politiche pubbliche di prevenzione e contrasto della violenza.
Scarica il Report – INFOGRAFICHE DEI DATI