Da Concorso Lingua Madre
Pinuccia Corrias, docente, autrice e parte del Gruppo di studio del Concorso letterario nazionale Lingua Madre (CLM)
Pinuccia Corrias aveva appreso da Lia Cigarini l’importanza del “desiderio”, da Luisa Muraro di essere stata allevata secondo “l’ordine simbolico della madre”. Si è spenta oggi, 25 dicembre. Docente e anche amica, autrice e parte del Gruppo di Studio CLM non ha mai smesso di illuminare con il suo pensiero la politica delle donne anteponendo la relazione, l’ancoraggio alla genealogia femminile e fornendo pratiche di verità su di sé e sul mondo.
«Ottanta anni e sono insegnante. Sì, ne ho avuto la conferma da poco. Una mia ex-alunna ha denunciato il marito che l’aveva minacciata con una pistola, al giudice che le chiedeva dove avesse trovato il coraggio, ha risposto: Io ho avuto una docente che mi ha insegnato che una donna non deve mai accettare che qualcuno le manchi di rispetto. Mi pare che non serva scrivere “ex”». Così scriveva di sé.
E così sono nati i suoi libri Abbardente (Neos, 2016) e Rosario sardo, inedito. Ha contribuito a numerosi testi curati dal Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile. Suoi saggi sono contenuti in Il simbolico in gioco. Letture situate di scrittrici del Novecento (Il Poligrafo, 2011); L’alterità che ci abita. Donne migranti e percorsi di cambiamento (SEB27, 2015), Con forza e intelligenza. Aida Ribero 1935-2017 (Il Poligrafo, 2024).
Aveva ricevuto il premio Macopsissa, per le sue poesie giovanili. All’Università Cattolica di Milano ha vissuto il ’68, che ha dato un’impronta politica al suo insegnamento: a cominciare dalla gestione di un asilo con preti operai a Pomigliano d’Arco.
Viveva tra Torino, la Sicilia e la Sardegna, ma aveva vissuto anche a Milano, Roma e Napoli. Conosceva quindi l’esperienza della migrazione così ben rappresentata nel racconto Shalom Inshallah Amén con cui, nel 2014, ha vinto la sezione donne italiane del IX Concorso Lingua Madre.
Da femminista e come docente ha contribuito alla pedagogia della differenza e nella sua scrittura ha sempre messo in luce la presenza femminile nel mondo. Infatti, aveva fatto suo e praticato – soprattutto nella scuola, dove ha insegnato italiano e storia – il femminismo della differenza, che ha poi approfondito nella Libreria delle donne di Milano e nel Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile di Torino, nel Gruppo di ricerca teologica donne valdesi e della comunità di base e nel Gruppo intergenerazionale di Pensieri in piazza, a Pinerolo.
A Casa “Chantal” del Monastero della Visitazione di Pinerolo, ha seguito dal 2008 un percorso di spiritualità e di servizio con le monache e le volontarie e qui, nel 2015, ha accompagnato l’inserimento di una rifugiata di Bangui.
Viveva a Sciacca, di fronte al mar d’Africa, luogo amato dai suoi quattro figli e dai nipoti.
Nel suo saggio Itinerari d’esilio (in L’alterità che ci abita) scriveva che quando il mondo le aveva mostrato il suo volto più solo, più ferito, più fragile, aveva resistito «quel che mia madre mi aveva insegnato, questo solo mi ha aiutato a non perdermi. È qualcosa, io credo, che può servire, ancora nei nostri giorni brevi. Qualcuno la chiama più laicamente “cura del mondo” e una parte di essa spetta, di certo, da sempre a ciascuna di noi».
A lei va il nostro pensiero, il nostro affetto e la nostra gratitudine.
da il manifesto – La violenza subita per oltre dieci anni da Gisèle Pelicot non è risarcibile né riparabile. Bisogna sgomberare il campo, che non è morale e neppure giudiziario, per evitare che si immagini una restituzione o, peggio, un apparato giustificatorio per chi l’ha stuprata, con la connivenza del marito che la drogava per offrirne il corpo privo di sensi a chiunque si prenotasse via internet. Una prassi talmente ben collaudata da ispirare uno dei 50 stupratori che ha pensato di drogare la propria di moglie offrendola pure a Dominique Pelicot.
La violenza subita da Gisèle Pelicot, che oggi ha 72 anni, e che con il marito ha condiviso gran parte della sua vita, oltre a tre figli e sette nipoti, non è quantificabile. Anche se fa una certa impressione la totale liceità in cui decine di uomini, che hanno ricevuto pene dai 3 ai 15 anni, si siano serviti al banchetto domestico organizzato da Dominique Pelicot, che dopo i 20 anni che gli sono stati attribuiti nella sentenza di ieri per stupri aggravati, ha detto un laconico «ne prendo atto». Da come si sono svolti i fatti e dalla loro reiterazione, sembra che nessuno abbia mai inteso di essere fermato, o di fermarsi. Era tutto piuttosto regolare e accettabile nel suo automatismo.
Dagli scenari di guerra alle case perbene, questo patto patriarcale tra maschi che si scambiano dei corpi di donne cui danno al massimo la dignità di rifiuti, di cose, indica una sottile ossessione per l’inanimato. Nella cultura dello stupro si parla raramente di questo aspetto, un istinto primigenio di soppressione che il caso di Mazan chiarisce forse meglio di altri: la normalizzazione della violenza originaria è infatti nei confronti di un soggetto doppiamente prevaricato, vessato sessualmente e in uno stato di incoscienza. A leggere gli stralci delle dichiarazioni rilasciate dagli uomini che hanno abusato di lei, alcuni dei quali hanno detto di non essersi accorti di averla stuprata, ci si domanda quanto abbia contato la possibilità di eccitarsi assaltando un corpo non consenziente cui si aggiungeva la privazione di coscienza.
La ragione per cui Gisèle Pelicot ha scelto che il processo si svolgesse pubblicamente è di acquistare finalmente una voce. Per dire Io esisto.
Ha preso parola con tutta la forza, dopo aver guardato i video girati dal marito durante i suoi ripetuti stupri. Avrebbe potuto non farlo, avrebbe potuto trattare la questione come un fatto privato. Eppure ha sentito, dallo sprofondo in cui certamente ha vissuto e vive ancora, di riferirsi a tante altre sue simili affinché non si sentano sole e, nel non sentirsi sole, sottraggano dall’isolamento anche lei: ridiventare donna a sé stessa ed essere rimessa al mondo da chi la ascolta e le crede. È un cambiamento di segno, che è la rabbia amorosa delle proprie simili e di nessun altro. È insufficiente ma è la scelta di un inizio, di un cammino. Che non è privato ma politico e collettivo.
Non c’è guarigione e non c’è neppure vergogna, si devono vergognare loro, ha ripetuto Gisèle Pelicot. Che in questi mesi, dopo aver scoperto che suo marito la considerava carne da macello, oltre a essere sopravvissuta – non era scontato – lo ha ascoltato in un’aula di tribunale, senza battere ciglio, mentre le chiedeva perdono. Ci auguriamo non succeda. Noi non lo faremo. Ma la vorremmo abbracciare.
Da VanityFair.it
La parola scelta da Oxford a rappresentare il 2024 punta l’attenzione sull’impatto che Internet sta avendo sulla nostra materia grigia. Certo, dovremmo preoccuparci seriamente per certe evidenti conseguenze sulla salute mentale e cerebrale. Ma non prima di aver compreso alcuni concetti fondamentali. Perché la buona notizia c’è
La parola dell’anno suscita inquietudine. Brain rot, letteralmente «marciume cerebrale», termine eletto dall’Università di Oxford a rappresentare il 2024, fa quasi pensare a un popolo di zombie che si aggirano per le strade, lo sguardo fisso su di un punto preciso, orecchie tappate, reazione agli stimoli pressoché inesistente. Zombie come quelli creati dal Fentanyl, la droga più letale del momento, che sta strappando cervelli, speranze e vite a un numero sempre più elevato di giovani nel mondo. L’associazione sembra esagerata? Converrà allora ricordare che il meccanismo alla base dei due fenomeni è sostanzialmente il medesimo: la dipendenza.
In Italia, secondo il rapporto Digital 2024, passiamo in media 5 ore e 49 minuti connessi a Internet. Un tempo enorme, se consideriamo che durante lo stato di veglia dovremmo essere tendenzialmente impegnati tra scuola/studio/lavoro, pasti, sport e hobby, relazioni e varie altre attività. 5 ore e 49 minuti al cellulare come media significa rinunciare a una copiosa fetta di vita reale, esperienze, conoscenza, attività e contatto umano. Peggio ancora, significa che si usa lo smartphone mentre si sta facendo altro, distogliendo l’attenzione dalla realtà e facendosi catturare, ancora una volta, dallo schermo.
Ma che cosa guardano le persone? Contenuti virali e video divertenti, balletti, meme, battute, ma anche profili social di interesse pubblico e privato, talvolta video e articoli di carattere informativo (ma raramente con la capacità di distinguere le fake news) e molto probabilmente anche contenuti porno.
Secondo il dizionario inglese, per brain rot si intende «il presunto deterioramento dello stato mentale o intellettuale di una persona dovuto a un consumo eccessivo di materiale – nel caso specifico i contenuti online – definito banale o poco impegnativo».
Ma i primi “sintomi” di questo decadimento cerebrale potrebbero risalire addirittura a una ventina di anni fa, quando gli scienziati studiarono gli effetti di una nuova invenzione chiamata “e-mail” e l’impatto che un’incessante raffica di informazioni avrebbe avuto sul cervello. Ciò che emerse dal loro studio fu che il costante sovraccarico cognitivo portava a un effetto peggiore rispetto a quello generato dall’assunzione di cannabis: il quoziente intellettivo dei partecipanti scendeva in media di 10 punti. Che cosa è potuto accadere nell’arco di questi due decenni che hanno portato ad avere internet sempre a portata di mano sui cellulari?
Stiamo vivendo «una tempesta perfetta di degrado cognitivo» ha sentenziato in un’intervista rilasciata al The Guardian Earl Miller, neuroscienziato del MIT ed esperto mondiale di attenzione divisa. E non è stato l’unico a lanciare l’allarme. Gloria Mark, professoressa di informatica all’Università della California e autrice di Attention Span, ha trovato prove di quanto drasticamente stia diminuendo la nostra capacità di concentrazione. Nel 2004, il suo team di ricercatori ha scoperto che la capacità media di attenzione su qualsiasi schermo era di due minuti e mezzo. Nel 2012 erano 75 secondi. Sei anni fa l’attenzione era già scesa a 47 secondi. Tutto ciò rappresenta «qualcosa di cui penso che dovremmo preoccuparci molto come società», ha detto nel 2023 in un podcast dell’American Psychological Association.
Sono numerosissime le ricerche accademiche condotte negli ultimi anni a riprova di come un uso intenso e prolungato di internet stia riducendo la nostra materia grigia, accorciando la durata dell’attenzione, indebolendo la memoria e distorcendo i nostri processi cognitivi.
Sebbene agli occhi degli psicologi americani appaia ancora troppo presto per trarre delle conclusioni definitive, nel 2018, un report prodotto dalla Sandford University ha rilevato che secondo i dati degli ultimi dieci anni di ricerca, le persone che utilizzano frequentemente più tipi di media contemporaneamente ottengono risultati peggiori in semplici compiti legati alla memoria.
L’uso eccessivo di tecnologia durante gli anni di sviluppo cerebrale è stato persino definito da alcuni ricercatori canadesi come l’atteggiamento che può condurre allo sviluppo di una «demenza digitale». Il loro studio sulla Demenza digitale nella generazione di Internet spiega come un tempo eccessivo trascorso davanti allo schermo durante lo sviluppo del cervello aumenterà il rischio di malattia di Alzheimer e demenze correlate in età adulta.
Questo in aggiunta a tutta una serie di altri problemi psicologici legati allo sviluppo che di recente, nel nostro Paese, hanno indotto un gruppo di pedagogisti a lanciare un appello – sottoscritto anche da docenti ed esperti di educazione, medici, scrittori e personaggi del mondo della cultura e dello spettacolo – per chiedere al governo di vietare lo smartphone sotto i quattordici anni e il profilo social prima dei sedici.
Ma non è solo responsabilità nostra se la tecnologia ci rende meno intelligenti. La funzione dello “scrolling”, che induce a scorrere immagini e contenuti all’infinito – determinata da un feed on line che si ricarica incessantemente – manipola il sistema di ricompensa innescato dalla dopamina a livello cerebrale. E questo lasciarsi andare alla ricerca “infinita” di contenuti può creare dipendenza. È così che il brain rot diventa una minaccia reale.
Quante persone, in definitiva, sono davvero consapevoli di come la tecnologia stia letteralmente facendo marcire il nostro cervello e di come l’uso decisamente compulsivo di Internet stia distruggendo la nostra materia grigia?
È tutto vero, ma non tutto è perduto
La buona notizia è che il termine “marciume cerebrale” è stato reso popolare on line dai giovani che sono maggiormente a rischio dei suoi effetti. Il New York Times riporta che nell’arco di due anni c’è stato un incremento del 230% nell’uso del termine brain rot; un aumento sostenuto anche dalla crescente diffusione del concetto su piattaforme social come TikTok e X.
Il fatto che coloro che sono più a rischio siano anche quelli con la maggiore consapevolezza del problema è una notizia incoraggiante: per mettere in atto un qualsiasi cambiamento, il primo passo è la comprensione del problema. E c’è allora motivo di sperare, grazie anche ai movimenti anti-tecnologia sorti negli ultimi anni, alle leggi che puntano a vietare l’uso degli smartphone al di sotto di una determinata età (un caso fra tutti quello dell’Australia, che ha ufficialmente vietato l’uso dei social al di sotto dei sedici anni), alle campagne per un’infanzia senza smartphone, che sembrano trovare sempre più consenso persino fra gli stessi ragazzi: secondo un’indagine degli psicologi dell’Associazione Di.Te. – che si occupa di dipendenze tecnologiche e cyber bullismo – e del portale studentesco Skuola.net, quasi la metà dei giovani italiani tra i dieci e i venitquattro anni (47%) sarebbe d’accordo con questi divieti. Piccoli passi verso un futuro in cui saremo in grado di riappropriarci delle nostre menti.
Da Marie Claire
Quanti di noi sanno che una donna di nome Giuseppina Re si è battuta per la legge che vieta il licenziamento per nozze?
Proviamo a iniziare questa storia leggendo attentamente qualche riga in “legalese”: «Le clausole di qualsiasi genere, contenute nei contratti individuali e collettivi, o in regolamenti, che prevedano comunque la risoluzione del rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio sono nulle e si hanno per non apposte. Del pari nulli sono i licenziamenti attuati a causa di matrimonio». Al primo impatto, quanto abbiamo letto sembra un estratto dalla sentenza di qualche assurda vertenza sindacale, intentata da una lavoratrice dopo che uno sconsiderato titolare l’ha licenziata per un motivo ingiustificato, ossia perché si è sposata. Chi mai licenzierebbe una donna solo perché si è sposata? Purtroppo (per allora) e per fortuna (per noi, oggi), un tempo invece era così. Quello riportato sopra è un estratto dalla Gazzetta Ufficiale che nel 1963 pubblicava il testo della legge n. 7 del 9 gennaio 1963 con cui veniva cancellato per sempre (si spera) il diritto del datore di lavoro, anche nella pubblica amministrazione, di licenziare una donna per il semplice motivo di essersi sposata. Si trattava di una facoltà discriminatoria del datore di lavoro di cui a distanza di oltre sessant’anni si è persa memoria, ma che al tempo non faceva indignare nessuno. Non è stata certo l’ultima ingiustizia subita dalle donne sul lavoro, tutte sempre in violazione dell’articolo 3 della Costituzione che dice «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso [etc.]»: proprio nel 2022 il ministero della Difesa, nei bandi di concorso, ha chiesto ancora alle donne il test di gravidanza.
Oggi i sindacati di categoria insorgono, ma prima del 1963 la motivazione del licenziamento per una donna andata a nozze sembrava legittima perché parlava di un ipotetico fine di «proteggere la funzione familiare della donna». In pratica, la si mandava a casa in modo che non trascurasse marito e figli, era un favore non chiesto a lei e alla società. Nella realtà sappiamo che le future gravidanze delle dipendenti sono da sempre uno spauracchio di molti datori di lavoro, e che al tempo sbarazzarsi di una futura mamma era molto più semplice di oggi. Poi è arrivata la legge 7/63 che ha stabilito dei paletti, monitorando il licenziamento e le dimissioni della dipendente nel periodo che va dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio a un anno dopo la celebrazione. Chi bisogna ringraziare per questa norma? Una deputata che sembra essere stata dimenticata dalla storia. Si chiamava Giuseppina Re, era di Pieve Porto Morone, in provincia di Pavia, e aveva il pallino dei diritti civili sin da quando da bambina il padre le raccontava la storia di Sacco e Vanzetti, i due italiani giustiziati innocenti in America. Durante la guerra Pina Re ha fatto la commessa nei grandi magazzini Duomo e nella drogheria di piazzale Lagosta a Milano, e nel capoluogo lombardo aveva conosciuto e iniziato a collaborare giovanissima con i partigiani, mentre cominciava coraggiosamente a fare attività ante litteram per le questioni femminili, un tema al quale al tempo stentavano a interessarsi persino le donne stesse, per non irritare padri e mariti. Nel 1948, Pina Re è stata una delle prime donne elette al Parlamento italiano, ma diede presto le dimissioni per problemi di salute. Fu rieletta nel 1958, si rimboccò le maniche e spinse alcune delle riforme più importanti della giustizia minorile e del diritto di famiglia di questo Paese. E ovviamente, è stata la prima firmataria della legge contro i licenziamenti delle donne per matrimonio. Anche dopo la fine del suo mandato, Giuseppina Re ha continuato a fare attività per una società migliore: è lei che ha fondato il Sunia, il sindacato degli inquilini, ed è lei ad aver lottato per l’istituzione del Parco Nord a Milano. Morta nel 2007 a 94 anni, è stata una grande politica e oggi è vittima della memoria corta dei nostri tempi, un personaggio di cui le nuove generazioni dovrebbero chiedere un monumento e studiare la biografia, per tenere sempre bene a mente che i diritti di cui godiamo non sono mai caduti dal cielo, e che la loro permanenza non va mai, mai data per scontata.
Da Leggendaria
Il volume del 2024 dei Quaderni di Via Dogana raccoglie in forma stampata quarantotto interventi, frutto di un dibattito aperto sulle pratiche femministe e la loro evoluzione svolto per mesi in presenza e online
Ci sono libri che aprono prospettive e permettono a donne e uomini di agire in modo imprevisto nel mondo. Lo fanno perché sono frutto del pensiero dell’esperienza che scaturisce da relazioni di stima coltivate nel tempo e di apertura attenta a sempre nuovi incontri. È quello che accade con Femminismo mon amour. Pratiche femministe per donne e uomini, nato nella Libreria delle donne di Milano, che nel 2025 compirà 50 anni.
Trentanove autrici e autori compongono un mosaico di quarantotto interventi, rivisti, ampliati e altri inediti, legati alla rivista Via Dogana 3. Via Dogana è la storica rivista della Libreria delle donne di Milano, che dal 2001 si è spostata dalla centralissima via Dogana 2 a via Pietro Calvi 29. Col numero 111, dal significativo titolo Le donne sono ovunque, la rivista cartacea ha chiuso e nel 2015 è diventata on line ad accesso libero nel sito della Libreria delle donne col nome di Via Dogana 3.
Oggi ogni numero nasce da una proposta, elaborata da una dozzina di donne della redazione ristretta che individua un tema e invita di volta in volta un paio di interlocutrici o interlocutori, i cui interventi iniziali avviano un libero confronto in presenza e in collegamento on line coinvolgendo più di un centinaio persone. L’invito alla redazione aperta è pubblicato sul sito e chiunque può partecipare, anche dall’estero. Al termine del confronto di circa tre ore viene richiesta la scrittura di alcune riflessioni che, vagliate dalla redazione ristretta, verranno via via pubblicate fino a quando il numero della rivista verrà chiuso con l’invito per la redazione successiva. La rivista da quest’anno ha una nuova veste grafica più leggibile che permette anche di consultarne l’archivio. (https://puntodivista.libreriadelledonne.it/via-dogana-3/).
La storica pratica femminista del partire da sé riconosce e scarta forme ideologiche precostituite e ripetizioni di formule che cancellano la singolarità e livellano lo sguardo: è fondamentale per questa impresa. Del resto la Libreria è un luogo di relazioni in cui, fin dalla sua nascita, si riflette sulle pratiche che le donne hanno inventato e inventano per stare nel mondo.
Nei quattro capitoli del libro si mettono appunto in luce pratiche politiche femminili con uno sguardo che rivisita quelle storiche, mostrandone alcune continuità e variazioni nel presente; si testimoniano pratiche messe in atto da giovani donne; si riconosce dove l’azione politica conta sulla potenza trasformatrice dell’esserci e dell’agire in relazione con altre e altri, come, ad esempio, quella della popolazione di Crotone dopo il tremendo naufragio del febbraio 2023 a Cutro.
Perché pubblicare un libro se gran parte dei testi sono consultabili in rete?
Esiste una politica che trasforma il mondo a partire dalla soggettività con innegabili risultati. Infatti la rivoluzione femminista continua ed è stata l’unica vincente e non cruenta del Novecento. Comunemente si intende per politica quella che coincide col potere e la lotta per la sua conquista, la politica di partiti, sindacati, elezioni, ecc., non basata sull’invenzione di pratiche ma su un’organizzazione gerarchica e sulla rappresentanza. Come scrive Vita Cosentino: «In questo momento non circola abbastanza, soprattutto tra le persone giovani, l’idea che le pratiche sono la strada maestra per fuoruscire da un regime simbolico e anche dalle forme politiche maschili. […] Quando ne abbiamo discusso nella nostra redazione ristretta, una giovane ha detto: “Solo ora con questa discussione ho capito cos’è una pratica”» (p. 65).
La scommessa del libro è quella di offrire uno strumento per aprire confronti pubblici che permettano di riconoscere la politicità delle pratiche già esistenti.
Nella prima parte Autocoscienza ancora, dopo lo sguardo di Linda Bertelli e Marta Equi, su cos’è l’autocoscienza per Carla Lonzi e Rivolta femminile, si mostrano attraverso racconti di esperienze personali gli elementi di continuità e di modificazione di questa pratica oggi, riconoscendoli, ad esempio, nel #MeToo, nei nuovi gruppi promossi da Daniela Pellegrini, nelle modalità del podcast A day in a Female Life-Racconti di ordinaria violenza, creato da Angelica Pirro e Silvia Protino, nel blog de Le Compromesse, nelle Comunità di storia vivente. Non vengono proposti modelli o tecniche, ma le pratiche femministe offrono l’opportunità di un’inestinguibile ricerca di senso e si modificano nel tempo.
Nella seconda parte Il senso della politica e l’efficacia delle pratiche si vedono i limiti sempre più evidenti della politica istituzionale, come dimostra il forte tasso di astensionismo e il diffuso senso di impotenza che genera la società della prestazione con la spinta a un individualistico autosfruttamento. Ma, come nota Lia Cigarini, la politica sta cambiando e, se i partiti, come li abbiamo conosciuti, mostrano uno scenario desolante, invece il movimento delle donne, quelli ecologisti, l’associazionismo attivo, il volontariato sono la nuova politica che trasforma e crea civiltà, a partire dai desideri, dalla messa in gioco soggettiva e dalla forza delle relazioni. Nel confronto/conflitto col potere se viene concesso uno spazio per attività come flash mob, manifestazioni, eventi culturali, è invece difficile contendere lo stesso spazio, lo stesso oggetto del desiderio di chi ha potere. Tuttavia, come suggerisce Maria Castiglioni delle Giardiniere di Milano riprendendo le figure di Antigone e Ismene, il potere non è un monolite, è possibile accerchiarlo, aprendo relazioni senza preconcetti, oltre gli schieramenti tradizionali, «un lavoro continuo di dilatazione e di esplorazione di reti, relazioni, prospettive […] che implica un di più di pensiero quando dall’altra parte c’è una donna» (p.74). Oppure, cogliendo le suggestioni di Sarah Polley nel film Women Talking, a volte occorre avere la forza e il coraggio di andare via insieme alle altre per non sprecare preziose energie «quando il contesto di vita e di lavoro si presenta refrattario a ogni ragione femminile» (p.70), come scrive Annarosa Buttarelli. Sono alcune tra le tante indicazioni che emergono dal libro.
Nella terza parte Orientarsi con l’amore si valorizzano pensieri ed esperienze presenti nel femminismo della differenza grazie soprattutto a Luisa Muraro, di cui è pubblicato Intelligenza dell’amore, un inedito in italiano, dove si mette in luce la condizione umana universale, segnata dalla mancanza, la cui accettazione ci apre agli scambi con l’altro, secondo un’economia centrata sulla relazione e sull’amore: «l’amore non teme di essere trovato mancante, poiché è la mancanza che gli dà nuova energia» (p. 108). Molte sono le indicazioni sull’amore come forza in grado di trasformare la dimensione politica. Indico solo le illuminanti riflessioni di Chiara Zamboni sulle differenze tra amicizia, amicizia politica e relazione politica, riprese anche in altri interventi, e l’importanza politica dell’amore di sé, proposta da Jennifer Guerra attraverso il racconto della sua esperienza.
Il libro si conclude con È ora di cambiare uno spazio rivolto soprattutto agli uomini in cui alcuni, in dialogo con le donne presenti, riflettono in modo sincero e profondo sulle difficoltà che molti incontrano nel dissociarsi dalla violenza. Una presa di parola suscitata dal momento aperto da Elena Cecchettin e suo padre, dopo l’uccisione di Giulia, momento di svolta nella consapevolezza che la struttura patriarcale, anche interiorizzata, sostiene i femminicidi.
Ad esempio, Marco Deriu sottolinea il legame fra le varie forme distruttive della cultura maschile e dell’idea di potenza e virilità, come l’invasione russa dell’Ucraina e la guerra di posizione, l’attacco di Hamas e l’invasione/distruzione israeliana di Gaza, i femminicidi. Si interroga su che cosa significa oggi per gli uomini stare di fronte alla libertà delle donne, come non sentirsi sminuiti o minacciati, ma «fare di questa libertà un’esperienza di apprendimento, […] anche per il proprio modo di amare, sentire, stare nel mondo» (p.132). E testimonia come nella sua vita la libertà femminile sia libertà per tutti. Massimo Lizzi riflette, a partire dalla propria interiorità e dall’osservazione di comportamenti di altri uomini, su Gli ostacoli interiori ed esteriori della dissociazione maschile dalla violenza, come dice il titolo del suo intervento.
Tra i molti contributi, segnalo l’inedito Domande per il presente in cui Ida Dominijanni argomenta con la sua consueta precisione come la violenza misogina, il virilismo bellico, le politiche di attacco alla libertà femminile «sono sintomatiche non di un rinnovato vigore ma di una destabilizzazione del patriarcato, che reagisce violentemente alla ferita che gli è stata inferta dalla libertà e dall’indipendenza simbolica femminile» (p.167).
È questo un libro indispensabile per donne e uomini in cerca di parole e forme politiche fuori dalle narrazioni e dalle modalità correnti per trovare energia e invenzioni trasformatrici del presente.
Redazione di Via Dogana 3 (a cura di), Femminismo mon amour. Pratiche femministe per donne e uomini, Quaderni di Via Dogana,Libreria delle donne di Milano, 2024, 173 pagine, 12,00 euro.
(Leggendaria n.167, settembre 2024)
Da Erbacce
Da il manifesto – Sono passati cinquantacinque anni dalla strage di piazza Fontana e questo anniversario sarà il primo che vivremo senza Licia. Lei, peraltro, le ricorrenze le ha sempre vissute male: pensava che fare della memoria una commemorazione non avesse senso, perché ricordare non è mettere una corona di fiori su una lapide ma uno sforzo costante. La sua storia, del resto, è lì a testimoniarlo. Quando alla fine della guerra Licia venne mandata nella Roma liberata dagli Alleati, decise di iscriversi al Pci.
Tornata a Milano, però, una volta il partito le chiese di andare in giro a vendere mimose. Lei disse di no perché riteneva la cosa poco dignitosa, le fu dato della reazionaria e così decise di stracciare la tessera. Era un fatto di coerenza, e il punto lo avrebbe tenuto per tutto il resto della sua vita, anche rifiutando le tante offerte di candidatura che sarebbero arrivate in seguito.
Noi figlie viviamo questo anniversario in maniera più dolorosa del solito, ma non possiamo che portare avanti le battaglie di Pino e Licia. Nostra madre ci ha dato la possibilità di scegliere cosa fare, e noi scegliamo di continuare a ricordare. Non è scontato né facile. Solo due anni fa siamo state costrette a denunciare un ex questore che era andato in televisione a raccontare vecchie menzogne su Pino e su quello che gli è accaduto.
Significa che non c’è niente di acquisito e che bisogna lottare ogni giorno: la memoria è una scelta che va fatta quotidianamente, perché non c’è niente di acquisito e la riscrittura della storia rientra all’interno di una strategia precisa. Non è un caso che molti diritti che davamo per certi adesso li stiamo via via perdendo. Nel 1969 si discuteva per esempio di disarmare le forze di polizia e il dibattito era arrivato a una fase molto avanzata, mentre oggi non si riesce nemmeno a introdurre un elemento di civiltà come quello dei numeri identificativi sulle divise di chi dovrebbe mantenere l’ordine nelle piazze. E tante battaglie che sono state vinte sul fronte della sanità pubblica, della scuola pubblica, delle tutele dei lavoratori e dei diritti di tutti adesso sono tornate in discussione.
Anche qui ritorna un po’ il senso di quella strage e di quella che chiamiamo “strategia della tensione”: fermare un forte movimento sociale e culturale che stava ottenendo consenso e vittorie. Viviamo in un paese in cui la verità è sempre a metà, però: sappiamo dalle sentenze che la manovalanza delle stragi fu di stampo fascista, ma, almeno a livello giudiziario, tante complicità non sono mai venute fuori.
Da qui il nostro impegno per la memoria: come facevano i partigiani, continueremo a incontrare i ragazzi e le ragazze per raccontare loro la nostra parte della storia. In queste circostanze conosciamo tanti giovani che, tra tante difficoltà, lottano per delle istanze sociali e collettive, senza personalismi, con coraggio e impegno. A volte ci chiedono cosa si può fare. La risposta è che bisogna sempre andare avanti a chiedere libertà e giustizia, continuando a coltivare una speranza che serve a tutti quanti.
Da Il Quotidiano del Sud – In un villaggio della Sierra Leone, in Africa, viveva una bambina di undici anni con il padre e tre fratelli più grandi di lei. La madre (forse) era morta. Un giorno il padre decise di lasciare la propria casa con tutta la sua famiglia. Sognavano di andare in Italia, in Europa, ma avrebbero dovuto attraversare il deserto, arrivare in Tunisia e da lì affrontare la traversata di quel mare che ormai faceva paura. Un mare, il Mediterraneo, divenuto un cimitero che accoglie nei suoi abissi migliaia di esseri umani come loro (1.600 nel 2024, 20.894 i riportati indietro con la forza nei lager libici). A ucciderli è la disumanità, crudeltà e ferocia di chi li vuole fermare, respingere, e ostacola in ogni modo chi, invece, vuole soccorrerli e salvarli. Costruisce prigioni, come quella in Albania, per rinchiuderli e respingerli più velocemente in quanto non degni di vivere in un paese europeo. L’Europa tutta, dopo la Shoah, si sta macchiando di crimini contro l’umanità. Nel cuore di quel padre e dei suoi figli il desiderio di partire era più forte della paura del viaggio. Volevano lasciarsi alle spalle miseria, fame, disperazione. Attraversarono a piedi il deserto, arrivarono in Tunisia ma quando venne il momento d’imbarcarsi, dopo aver pagato uno scafista, sul barchino di ferro non c’era posto per tutti. Il padre volle che a partire per primi fossero la figlia e il figlio maggiore, li avrebbero poi raggiunti.
Maria, Maryam, è questo il nome della bambina. Un nome che, in prossimità del Natale, non può non fare pensare a quella giovinetta di Nazareth che, duemila anni fa con il suo sì, rese possibile quell’evento straordinario, che si ripete ogni anno, dell’irrompere di Dio nella storia umana. Maryam parte col fratello che doveva proteggerla. Partono l’8 dicembre. Il mare è agitato, il barchino scivola tra le acque ma ben presto si scatena una tempesta. «Sulla barca di ferro eravamo in 45. Ma a un certo punto il mare – racconta Maryam – è diventato troppo più grande di noi. La barca si è riempita d’acqua ed è andata a fondo. Per un po’ siamo rimasti in tre», lei il fratello e il cugino, «tutti attaccati a quel salvagente», una camera d’aria che il fratello era riuscito ad afferrare prima del naufragio. «Eravamo vicini nel mare. Ci tenevamo. Pregavamo. Ma poi non li ho più visti. Sono rimasta sola». Unica sopravvissuta al naufragio. Non oso nemmeno immaginare cosa abbia provato in quelle ore, forse giorni, notti, albe rimasta da sola aggrappata disperatamente alla camera d’aria. Sola, in preda alla paura, immersa nell’acqua a soffrire il freddo, la fame, la sete e a pregare il suo Dio. Nessuna bambina o bambino, in ogni parte del mondo, dovrebbe mai provare quello che ha provato lei. Non c’è crimine più grande di questo. L’11 dicembre, in una notte senza stelle e senza luna, la bambina sente in lontananza il rumore del motore di una barca. È il veliero Trotamar III di una Ong tedesca. Raccoglie tutte le sue forze e si mette a urlare «Help!», Aiuto. Il suo grido arriva fino al veliero. «È stata una coincidenza incredibile, noi eravamo in mare a cercare altre persone che avevano lanciato Sos. Ma dopo una tempesta durata giorni non c’era speranza. Solo per caso, alle 3,20 del mattino, il nostro equipaggio – racconta il capitano – ha sentito le urla della bambina nell’oscurità e ha avviato immediatamente una manovra di salvataggio». «Incredibile, pazzesco, un miracolo aver sentito la sua voce», dice la vice-capitana, Ina Fien. Maryam è a Lampedusa, «le sue condizioni sono abbastanza buone, a parte il trauma di quello che ha vissuto e che è inimmaginabile». Il Natale di quest’anno avrà il volto della bambina di undici anni salvata dalla strage degli innocenti di Erode del nostro tempo.
Da Rivista Studio
Ho approfondito davvero l’affaire Leonardo Caffo soltanto qualche giorno fa, quando è stata emessa la sentenza di condanna di primo grado a quattro anni per lesioni alla sua ex compagna. Non per entrare nella faccenda da amante del torbido, ma perché volevo capire meglio la reazione che io stessa avevo avuto di fronte alla notizia.
Dopo aver letto qualche breve articolo che riportava i fatti, sono incappata in alcune frasi tratte dalle deposizioni della ex riguardo i maltrattamenti ricevuti, di carattere verbale e fisico. Tralasciando la seconda tipologia – non per sminuirla, al contrario: un maltrattamento fisico come un dito rotto o delle percosse sono autoevidenti e per questo condannate immediatamente da tutti – la mia riflessione si è concentrata soprattutto sulle violenze verbali. «Devi morire», «Sei un’idiota, un’incapace», insulti a lei, alla famiglia, agli amici. Leggendole, la reazione che ho avuto è stata qualcosa del tipo: vabbè, può succedere quando si litiga. Dopo un attimo, mi sono soffermata su questa mia reazione. Cosa significa “succede”? Significa che per me tutto questo è lecito in determinati contesti? Che non è violenza? Che augurare la morte, essere sviliti in quello che si è, si fa, le relazioni che si hanno, può essere considerato normale, ogni tanto? Mi sono resa conto che sì, la mia prima reazione intendeva dire questo. Che stavo, parzialmente, giustificando l’accaduto. Come me, molte altre persone avranno pensato la stessa cosa. Poi mi sono resa conto sminuivo la gravità della violenza perché, per un certo periodo della mia vita, la ho sminuita mentre la subivo.
È successo non molti anni fa. Accettavo che quando si litigava volassero parole pesanti, che il modo in cui conducevo la mia vita diventasse un’accusa, che mi venissero rimproverate le mie amicizie, cosa e come postavo sui social. Ho sminuito l’essere colpevolizzata se alcuni comportamenti non mi andavano bene e la mia reazione a tutto questo diventava poi un motivo di senso di colpa e di denigrazione da parte sua. Ho accettato che dopo un litigio il mio desiderio di allontanarmi venisse frustrato, che ci si avvicinasse di nuovo perché aveva capito, sarebbe stato tutto diverso e dopotutto lo era già: non lo vedevo come era mogio e accorato nel dirmelo?
Quando ho letto la lista delle accuse a Leonardo Caffo mi sono ricordata di quanto è facile entrare in un vortice di debolezza e di risposta anticipata, nel tentativo di evitare tutte quelle situazioni che potrebbero portare a parole di quel tipo, a situazioni di quel tipo. E di quanto, una volta entrati nel vortice, sia difficile uscirne. Anche se ti rendi conto che lo stai vivendo, che stai mettendo in atto un meccanismo di difesa che però non equivale ad andarsene, ma di base ad accettare che le nuove regole del gioco siano quelle, anche se la prima volta che ti vengono presentate sembrano da subito assurde e fuori fuoco rispetto a come sei, a come ti definiresti, a come hai sempre pensato di essere. Credo di essere una persona piuttosto solida, femminista, razionale, con dei valori e una discreta dose di autostima. Tutte caratteristiche che avevo sempre pensato mi avrebbero messo al riparo da situazioni come quelle di cui si legge sui giornali, che qualche conoscente ti racconta. Quelle emerse nella vicenda di Leonardo Caffo.
Non è così. Non sono sempre sufficienti, e l’amore e le relazioni amorose non sono sempre un terreno di parità e comprensione, di raziocinio dove se le regole comuni non sono condivise allora salta il banco. Le regole invece si inventano, si modulano, si adattano di volta in volta. E ogni giorno si piegano e piegano le persone che le accettano.
Al di là dell’opinione generalizzata su questi temi, sulle prese di posizione aprioristiche, al di là di un certo malsano silenzio attorno alla questione di Leonardo Caffo e anche alla sua difesa in occasione della sua presenza a Più Libri Più Liberi (quest’anno dedicata alla memoria di Giulia Cecchettin), dove l’amica e direttrice del festival Chiara Valerio ha comunque deciso di stare dalla sua parte, quello che mi ha fatto riflettere è che su questi temi troppo spesso la reazione è quella di una scrollata di spalle, di un ridimensionamento del danno, di un ridimensionamento della colpa e della responsabilità del colpevole. Deriva dal patriarcato o, se vogliamo dirla meglio, dal modo in cui per secoli si sono accettate consuetudini e modi di ragionare, ma anche dalla fatica di separare i fatti da chi quei fatti li compie.
Un nostro amico non lo potrebbe mai fare. Una persona acculturata, un filosofo, non lo potrebbe mai fare. Una persona con un’aria rispettabile, bonaria, non lo potrebbe mai fare. E invece possono farlo in tanti, possono farlo tutti. Tanti, tutti, possono ritrovarsi nella situazione di accettarlo. E quando lo si fa non si torna più indietro. Ieri sera, mentre parlavo della vicenda Caffo, ho realizzato che non sono più quella di prima. Mi metto in guardia, certo, so bene cosa significano le vicende che ho vissuto e quanto fossero tossiche, come si dice. Lo sapevo anche mentre le vivevo. Ma sono entrate dentro di me, hanno provocato dei cambiamenti impercettibili: oggi, anche se sto con una persona completamente diversa e so di non voler più accettare certi comportamenti, capita che la prima reazione che sento sia quella di una colpa. Voglio prevenire, percepisco già il timore delle conseguenze. Come un virus che, anche se si debella, in qualche modo ha modificato l’organismo in maniera irreparabile. Come una violenza.
A queste cose, quando accade quello che è successo tra Caffo e la sua ex compagna, non si pensa granché, si è troppo occupati ad approfondire il gossip, a schierarsi da una parte o dall’altra, a interpretare tutto secondo l’etica corrente. Per alcuni può essere quella aprioristica del «sorella io ti credo», per altri quella altrettanto aprioristica dell’“Ormai non si può più dire niente”. Per qualcuno, “quando capisci che uno è così te ne devi andare”; “sei troppo debole”; “se ci rimani significa che ti sta bene”. Nel frattempo però si perde il filo del discorso.
Approfondendo la vicenda di Leonardo Caffo ho sentito un ulteriore strato di tristezza, che non nasce soltanto dal realizzare l’incoerenza di chi, avendo sempre difeso le vittime – le donne in questo caso – non l’ha fatto soltanto per questa volta (come ha anche scritto Simonetta Sciandivasci su La Stampa). Viene piuttosto dall’arroganza serpeggiante nel comportamento di Caffo, dall’irrisione delle accuse e di chi lo accusa. Una specie di martirio portato avanti come esempio, lo stoico capro espiatorio che con il suo corpo risponde della sete di sangue di un supposto clima da caccia alle streghe («Ne hanno colpito uno per educarne mille», ha dichiarato quando è stata emessa la sentenza). Solo chi custodisce la verità, il filosofo, può sopportare tutto questo perché può andare oltre le mere questioni umane, anzi da queste può trarre linfa per il suo lavoro, per poter elaborare più alte e universali teorie perché perfetto conoscitore delle bassezze umane. Può «leggere Spinoza» mentre fuori si scatena la shitstorm, come dice nel passaggio di un podcast dove è stato ospite sette mesi fa. La sua esperienza vissuta al limite per poterla rendere testimonianza. La vita come un romanzo russo.
Leonardo Caffo è stato condannato in primo grado e ha due altri gradi di giudizio per cercare di dimostrare la sua innocenza. Nel frattempo e a prescindere dall’esito, potremmo utilizzare questo tempo per imparare a ragionare meno per assiomi, soprattutto se basta un conoscente per spazzarli via, soprattutto se chiunque, anche quelli che credono di esserne immuni, possono fare esperienza di violenza e rimanerne toccati per sempre.
Da il manifesto
«Più in là sugli scogli ricoperti di alghe che con la bassa marea sembravano animali dal pelo ispido che s’erano avvicinati all’acqua per bere, la luce del sole pareva facesse le piroette come una moneta d’argento buttata nelle diverse piccole pozze»: il mare ondeggia pigro mentre leggiamo righe di puro incanto, una scrittura che palpita tutta di una lingua lieve e precisa ad illuminare la natura di parole trasparenti.
È Katherine Mansfield, straordinaria scrittrice, la cui parabola intensa e troppo rapida ha occupato la scena del primo Novecento con l’inquietudine della sua enigmatica figura e con i suoi racconti, brevi e brevissimi, lievi e tragici, musicali e visivi, festa completa di ogni minima sensazione, di cui arriva ora in libreria una nuova raccolta, dal titolo perfetto: Pura felicità (Feltrinelli, pp. 336, euro 14). A restituire quel bliss inglese che è diverso da felicità e si fa parola di suono e colore: stringe a sé tutti i sensi, come raccontano in una loro nota Sara De Simone, che cura e introduce il libro, e Nadia Fusini che con lei traduce e ci accompagna nella lettura con un saggio che svela, in un mirabile arco, il cuore mitico e antico che questi racconti percorrono, da Freud fin dentro la modernità. Scrivere è «un’avventura dell’anima» dice KM. Ma lo è anche leggere, tradurre, commentare, e ne abbiamo prova nel lavoro appassionato e appassionante che ha legato di desideri due donne e la loro entusiasta editor, Anita Pietra, «in una fredda mattina d’autunno di due anni fa», intorno a lei, la scrittrice «nomade», quarta necessaria presenza d’amore per la scrittura del mondo, la sua rappresentazione artistica. «Tre donne intorno al cor mi son venute» ha cantato il poeta e non si può che essere felici che ora si tratti di tutte donne.
Nuove traduzioni di un classico, dunque, che non dimentica la qualità di altre traduzioni, come quella di Franca Cavagnoli, ma che ora propone nel suo indice una leggibilità che, saltando l’abituale cronologia, si dà subito come forma dell’interpretazione, guida nel labirinto affollato di «evocazioni visive» di una «incomparabile bambina», una «scrittrice eccezionalmente istintiva, fiorita» secondo Anna Banti, «una mente terribilmente ricettiva», secondo Virginia Woolf. La raccolta ora in libreria accoglie e va ben oltre queste parole, per i lunghi e diversi studi che entrambe le nostre autrici hanno alle spalle (per Fusini ricordo La figlia del sole: vita ardente di Katherine Mansfield, e Viaggio in Urewera, per De Simone la curatela di La vita della vita. Diari 1903-1923 e Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf: storia di un’amicizia) e permettono loro di presentare diversamente questa «prosa speciale», scarna e asciutta.
I racconti sono qui raggruppati in quattro sezioni, Il romanzo familiare; Amanti, amiche, sorelle; Donne sole; La vita, la morte: non «sovrastrutture tematiche» «ma tracce», che però indicano uno scenario in cui possiamo vedere meglio, o vedere differentemente. Sara De Simone nella sua introduzione ci fa conoscere l’essenziale della vita di KM, ne tratteggia un ritratto intenso, mai banale, ne disegna il coraggio nella ricerca della «vita nella vita», ci insegna a decifrare una poetica che vuole creare e non «rappresentare», fino al punto che «scrivere la cosa» sia «diventare la cosa», questo il «fremito di libertà» che KM assapora guardando i postimpressionisti, in particolare Van Gogh, e che la porterà a scrivere non del «bambino che giocava, ma la sua mano roteante nell’aria della sera», non di un albero, ma del «palpitare degli uccelli dentro la sua chioma». È con queste notazioni fra le dita che possiamo avvicinarci con più chiara consapevolezza a tutte le pagine di questi racconti, che stupiscono non per qualche effetto ricercato ma, al contrario, per quanto naturale appare, di colpo, l’inaspettato.
Nadia Fusini ci accompagna invece, con traduzione sapiente, nella lettura della prima sezione, legando tre racconti (scritti fra il 1917 e il 1922, Preludio, Alla baia e La casa delle bambole) a quel «romanzo familiare» che muove da Freud per dire della «delusione», del «trauma» che ne sono «il cuore», ma dire poi, ed è questa l’essenziale originalità trovata, di come la capacità «di stare nella lingua, di giocare con le parole, di usare la fantasia», rendono sopportabile il dolore, fino ad oltrepassarlo in creazioni meravigliose, che rielaborano la realtà in «mito». Tutto è trasformato in emozione estetica, emozione universale e catartica, è questo il miracolo che si compie nei racconti di KM., per questo ci scuotono e sorprendono e inquietano.
Ora abbiamo dunque due guide per inoltrarci nell’universo di Mansfield e affrontare, ad esempio, la potenza vertiginosa dei suoi finali, in cui precipita sempre il delicato e complesso montaggio di un insieme trasparente di dettagli, invisibili e numerosi, così che questa scrittrice sembra conoscere i segreti più nascosti della realtà, che riesca a bucare in una riga la ragnatela dell’apparenza dentro la quale siamo tutti catturati.
I suoi personaggi sono spesso voce, questo sono spesso le sue donne, ombre leggere ma potenti, «voce fioca dal pozzo profondo» di Linda con Stanley, il marito, o «voce speciale» se parla con la madre, o voce «che le donne usano tra di loro di notte», o ancora «voci calde e amorevoli come se condividessero un segreto» quando non c’è un uomo per casa, o sussurri spaventati, ammutoliti, dalla semplice ombra paterna. Le sue donne sono sguardo che tutto così racconta, come lo sguardo «fisso e scialbo» di Constantia, o quello della bambina Else, che vede «la piccola lampada» prima di sorridere tacendo, e straordinari sono bambine e bambini ogni volta che attraversano la pagina con grazia raramente raggiunta in altre scritture.
Si potrebbero ritagliare intarsi che raccontano di madri che non amano i loro figli, di nonne che lavorano a maglia e insegnano tranquille la vita e la morte a una piccola nipote, Kezia, che le si aggrappa al collo e la bacia «sotto il mento e dietro l’orecchio e a soffiarle sul collo».
Ogni donna da lei creata è differente, non dagli uomini, il che è ovvio, ma dalle tante rappresentazioni che affollano la nostra mente, la occupano, spesso la colonizzano con il già pensato, e KM, sottovoce, come è la sua scrittura, fa vedere quanto altro è reale e vero e bello, per lei che insegue bellezza e verità per vocazione.
Si sente ovunque in questa scrittura veloce, a volte febbrile, un temperamento letterario di raro valore, sempre bruciante, a volte quasi noncurante, come se a guidarlo fosse una stella polare che abita il cielo solo per lei, che lei segue da un margine che non possiamo vedere e che la rende unica. Unica nel creare una natura selvaggia che è solo ricordo di fiori e alberi che non vede più, ma nomina insistente a renderli sempre presenti, come l’eucalipto che appare «immenso: un enorme gigante con i capelli dritti in testa e le braccia spalancate», o nel colorare di rosa un cielo con «grandi masse di nuvole accartocciate» mentre in alto «l’azzurro sbiadiva; diventava oro pallido». Unica nella descrizione della morte per crudeltà di una mosca, che si batte, misera, contro una goccia d’inchiostro, o del gelo che accompagna l’affrettata simpatia di una signora verso il parrucchiere che ha perso la sua bambina, o della crudeltà di classe verso due bambine, le figlie di una lavandaia. Unica a farci intuire quello che della vita, di ciò che è o non è la vita, in un rapido balbettio possono comprendere un fratello e una sorella alla fine di una festa.
Nel non detto, nell’ellissi, KM mostra il meraviglioso nel quotidiano, che sia una festa in giardino, un canarino perfetto compagno di vita, la ritrovata giovinezza nella passione fra due donne, in un movimento incessante che cuce l’essere con il non essere, e travolge una ragazza e i suoi sogni di libertà, o «una donna raggiante, con le labbra frementi, sorridenti, e grandi occhi neri e l’aria di chi è in ascolto, in attesa di qualcosa di… divino che accada… che sapeva sarebbe accaduto… immancabilmente»: pura felicità. Pura e indimenticabile, come ogni pagina di questa maestra del racconto.
Dal Corriere della Sera – Negli Stati Uniti il solo fatto di rimanere incinta o di avere da poco dato alla luce un bambino aumenta del 20% la probabilità di una donna di essere uccisa. Nel caso delle ragazze con meno di 25 anni addirittura lo raddoppia. È un dato impressionante a cui il New York Times dedica un lungo articolo. La causa di questo aumento drastico del rischio di morte legato alla maternità sono i femminicidi, cioè la violenza maschile sulle donne. Nella maggior parte di questi omicidi, infatti, l’assassino è il partner o l’ex partner.
«I decessi per omicidio – scrive il New York Times – vengono solitamente omessi dalle statistiche sulla mortalità materna perché non sono considerati sufficientemente correlati alla gravidanza stessa. Ma l’omicidio non è un’anomalia rara per le donne incinte e post-parto: è una delle principali cause di morte. Questo rende gli omicidi associati alla gravidanza, come vengono chiamati dagli epidemiologi e dai ricercatori sanitari, un vero e proprio problema di salute pubblica». La violenza maschile è la seconda causa di morte per le donne incinte o neo-madri (il primo sono le overdosi da droga) e il rischio aumenta per tutte le donne, ma è particolarmente alto per le madri nere.
«Lo stress e le turbolenze emotive di una gravidanza, soprattutto se inaspettata, possono esacerbare una relazione già violenta. Secondo gli esperti di violenza domestica, l’abuso precede quasi sempre la gravidanza. La violenza domestica è radicata nel potere e nel controllo e la gravidanza è un vincolo che può cambiare la dinamica di una relazione. Una volta che i partner sono legati da un bambino all’orizzonte, i maltrattanti possono sentirsi più impuniti ed esacerbare il loro comportamento. Improvvisamente, non ci sono solo legami emotivi, ma anche legali e finanziari. E altrettanto improvvisamente, per una donna incinta, diventa molto più difficile andarsene» spiega ancora il New York Times, che racconta la storia di una vittima ventenne, Markitha Sinegal, neomamma di due gemelle di nove mesi, uccisa dal padre delle bambine che lei voleva lasciare perché era violento e controllante.
In questo aumento del rischio di femminicidio ci sono alcuni fattori prettamente americani, come la diffusione delle armi da fuoco: circa tre quarti degli omicidi rilevati da questa statistica sono compiuti a colpi di pistola o fucile. È noto che se gli uomini maltrattanti hanno una maggiore disponibilità di armi letali è più probabile che le usino. E questo, a parità di violenza nella relazione di coppia, aumenta il numero di femminicidi. Una delle forme di prevenzione raccomandate dal quotidiano americano è quindi diffondere e applicare meglio le leggi, già presenti in alcuni Stati americani, che permettono di togliere le armi a chi ha precedenti di qualsiasi tipo per violenza domestica o lesioni personali. Un altro strumento di prevenzione consigliato è migliorare le informazioni sulla contraccezione e l’accesso all’aborto per far sì che le donne che non vogliono portare avanti una gravidanza possano scegliere di non farlo (negli ultimi due anni però l’accesso all’aborto è stato fortemente limitato se non eliminato del tutto in molti Stati americani).
Sarebbe importante anche includere nelle visite pre- e post-parto degli screening per la violenza di genere, a cominciare dai cosiddetti test Isa per la valutazione del rischio di femminicidio (si può fare anche online qui) e formare le forze dell’ordine e i medici in modo che sappiano rilevare e segnalare meglio i rischi connessi alla violenza domestica. In Italia in parte si è fatto con alcune sperimentazioni (come il codice rosa negli ospedali), ma dovrebbe diventare un approccio sistematico: la carenza di risorse nei pronto soccorso e nella medicina territoriale non aiuta nemmeno per questo aspetto.
Tra gli strumenti di prevenzione segnalati dal New York Times ce n’è infine uno molto complesso e importante: «Insegnare ai giovani come si presentano le relazioni pericolose. Le bandiere rosse di una relazione che tende all’abuso possono essere difficili da vedere se non si sa cosa cercare. L’apprendimento di ciò che è sano può iniziare in classe con i bambini piccoli». È quello che in Italia sta cercando di fare anche Gino Cecchettin con la Fondazione intitolata a sua figlia Giulia.
In Italia non ci sono dati statistici sul legame tra maternità e rischio femminicidio, ma è noto che le donne vengono uccise soprattutto nell’ambito delle relazioni di coppia. Nel 2023 il tasso delle donne uccise da un partner o un ex partner – sia esso un coniuge, un convivente o un fidanzato o un amante – è stato dello 0,21 per 100mila donne (del tutto simile a quello del 2022, che era stato dello 0,20). È un tasso più basso di quello medio europeo (in Germania per esempio è dello 0,32 per 100 mila) e questo fatto viene spesso usato per dire che in Italia i femminicidi non sono un vero problema. Ma è un uso strumentale dei dati, perché prescinde da un fatto fondamentale: l’Italia ha il tasso di omicidi più basso d’Europa. Per valutare l’incidenza dei femminicidi basta confrontare il tasso delle donne uccise da partner o ex (0,21 ogni 100mila) con quello degli uomini uccisi da un/a partner o ex, che è dello 0,02 ogni 100mila uomini. Dieci volte di meno.
Da Pagine Esteri – Era rimasta solo questa possibilità alle donne afghane per studiare e avere un lavoro: diventare ostetriche o infermiere. Il nuovo decreto del governo de facto dei talebani nei giorni scorsi ha strappato alle ragazze anche quest’ultima speranza. Il divieto ha sospeso tutti i corsi di studio in ostetricia e infermieristica per le donne.
È stato il Ministero della Salute Pubblica afghano tre giorni fa a rilasciare il comunicato che tutti i corsi di formazione in ambito sanitario per le donne sarebbero stati «sospesi in tutto l’Afghanistan fino a nuovo avviso».
Circa 17.000 ragazze studiavano per diplomarsi come ostetriche o infermiere. Erano ormai le uniche studentesse nel Paese. L’emirato talebano ha, infatti, progressivamente escluso le donne dalla vita pubblica e dall’istruzione: una progressiva stretta che nel marzo 2023 aveva chiuso persino le scuole alle bambine oltre l’ottavo grado scolastico.
Era rimasta soltanto un’eccezione che permetteva alle ragazze di continuare a sognare un futuro diverso che non fosse soltanto quello di diventare mogli e madri recluse in casa. Potevano, infatti, ancora frequentare i corsi sanitari di ostetricia e infermieristica. Molte ex studentesse di medicina o aspiranti tali così come molte ragazze iscritte ad altri corsi universitari non più accessibili alle donne si erano spostate tra i banchi delle professioni sanitarie. Solo a loro, oltre che alle bambine non più grandi dei dodici anni, era permesso di studiare. E di andare in ospedale e imparare sul campo il mestiere.
Un mestiere, tra l’altro, necessariamente femminile: in Afghanistan un uomo non può visitare una donna in assenza di un tutore e le sale parto sono bandite al personale maschile. Il lavoro delle ostetriche è un’esclusiva delle donne. Era, pare, perché se non potranno formarsi nuove ostetriche questa figura rischierà di scomparire dalle corsie dei già pochi e carenti ospedali afghani.
Il decreto non colpisce “soltanto” le studentesse. L’Afghanistan detiene uno dei più alti tassi di mortalità da parto al mondo: secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), 620 donne afghane su 100.000 muoiono nel tentativo di dare alla luce un bambino. Un numero altissimo che dimostra quanto fosse necessario migliorare proprio l’assistenza alla gravidanza e al parto, piuttosto che infliggervi un ulteriore danno tanto miope e violento. Proprio pochi mesi fa l’Agenzia Onu per la salute riproduttiva (Unfpa) dichiarava «l’urgente bisogno di altre 18.000 ostetriche qualificate per soddisfare la domanda di assistenza al parto» in Afghanistan. Migliaia di studentesse sono, invece, adesso rispedite in casa, e la vita di migliaia di donne e neonati viene messa ulteriormente a repentaglio.
La Missione Onu di Assistenza all’Afghanistan (UNAMA) ha osservato come tale restrizione «alla fine avrà un impatto dannoso sul sistema sanitario in Afghanistan e sullo sviluppo del Paese». Anche Richard Bennett, osservatore speciale Onu sui diritti umani nel Paese, ha commentato che un decreto del genere «avrà un impatto devastante sull’intera popolazione».
Da il manifesto – Lo scorso mese, su un grattacielo alla periferia di Kharkiv, in Ucraina orientale, è improvvisamente comparso uno strano slogan: «I fucili – diceva – puntateli contro coloro che ve li hanno messi in mano». La frase, dal gradevole retrogusto eversivo, sarebbe certamente piaciuta agli ex soldati russi Vyacheslav Trutnev e Dmitry Ostrovsky, che dopo aver disertato dall’esercito di Putin, a inizio ottobre, hanno scritto e diffuso via social la seguente canzone rap: «Me ne frego se mi chiamano traditore/ non ho perso la mia dignità/ Aiutiamo le nostre madri/ mettiamolo in culo ai nostri comandanti».
E poi, c’è chi è già passato dalle parole ai fatti, come il disertore pietroburghese Alexander Igumenov, che la sera del 30 ottobre scorso ha accolto il capo della pattuglia venuta ad arrestarlo puntandogli direttamente una pistola in mezzo agli occhi: «O ti levi di torno – gli avrebbe detto -, oppure al ministero della Difesa avranno bisogno di un ufficiale in più». Una scena non molto dissimile si è verificata la settimana successiva sull’altro versante del confine, nel villaggio ucraino di Lykhivka, dove un anonimo camionista si è smarcato da un gruppo di reclutatori dell’esercito minacciandoli con un fucile e una bottiglia Molotov. Non sappiamo se l’uomo avesse ascoltato le rime di Trutnev e Ostrovsky, ma è certo è che il clima di mobilitazione patriottica, tra la Moscova e il Dnipro, ultimamente sembra essersi parecchio guastato.
Per sincerarsene, basta consultare i recenti report pubblicati dal collettivo anarchico “Assembly” di Kharkiv (assembly.org.ua), che dal febbraio del 2022 si sforza di censire ogni singolo episodio di ribellione antimilitarista su entrambi i lati del fronte. «La fuga del personale delle Forze Armate – scrivono gli attivisti nel loro ultimo rapporto, datato novembre 2024 – ha ormai assunto il carattere di una valanga». E in effetti i numeri parlano piuttosto chiaro. Dall’inizio dell’invasione a oggi, secondo i dati della Procura generale, circa 95mila soldati ucraini sarebbero stati incriminati per aver abbandonato i propri reparti senza autorizzazione. Di questi, circa 60mila uomini avrebbero gettato la divisa nel corso del 2024, e ben 9.500 nel solo mese di ottobre.
Ma è probabile che il fenomeno sia ancora più vasto: «Di sicuro il numero dei nostri disertori ha già superato i 150mila e si avvicina a 200mila – ha scritto il giornalista di Kiev Volodymyr Boiko, che attualmente presta servizio nella 101ª Brigata delle Forze armate ucraine – Se le cose vanno avanti così, arriveremo a 200mila entro fine dicembre».
Anche sul fronte russo la gente sembra ormai stanca di combattere: è degli scorsi giorni la notizia che circa mille uomini avrebbero disertato in massa dalla 20a Divisione fucilieri motorizzata, trascinando con sé persino 26 ufficiali, un maggiore e un colonnello. «I militari che si danno alla macchia sono sempre più numerosi – si legge in un messaggio che gli attivisti di “Assembly” hanno recentemente ricevuto da Horlivka, nella repubblica filorussa di Donetsk – Qualcuno va ripetendo in giro che i nostri soldati dovrebbero smetterla di sparare agli ucraini, e che piuttosto bisognerebbe aprire il fuoco contro chi ci governa. Ma la gente ha ancora paura di questi discorsi, e in molti si fanno prendere dal panico: “Volete tornare al 1917?”, chiedono, “Volete la guerra civile?”».
Un altro messaggio proviene da un giovane coscritto dell’esercito di Putin dislocato sul fronte di Kursk: «Molti dei nostri ufficiali sono dei veri nazisti – dice. Ho parlato con il capo delle comunicazioni della Divisione mortai, il quale senza troppi giri di parole mi ha esortato a leggere “i pensatori tedeschi degli anni Trenta”. D’altro canto, gli uomini della truppa appartengono quasi tutti alla classe operaia, e in generale non hanno nessuna voglia di combattere. Perciò quando spiego ai miei compagni che questa è una guerra ingiusta, di padroni contro altri padroni, in tanti si dicono d’accordo con me».
È uno scenario che stride non poco con quello insistentemente magnificato dagli uffici di propaganda, che a Mosca come a Kiev continuano a battere sulla grancassa dell’“armatevi e partite”. La musica al fronte è un po’ diversa.
Il 3 ottobre a Voznesensk, nella regione di Mykolaiv, circa cento soldati della 123ª Brigata di difesa territoriale ucraina hanno dato vita a una improvvisa manifestazione di dissenso e si sono rifiutati di andare in trincea, protestando per la mancanza di armi ed equipaggiamento adeguato. La stessa cosa era accaduta appena il giorno prima a Vuhledar, sul fronte di Donetsk, dove un altro battaglione della 123ª Brigata, il numero 86, aveva voltato le spalle al nemico e si era dato alla fuga, permettendo peraltro alle truppe russe di conquistare la città. L’unica vittima dell’ammutinamento era stato il comandante in capo del reparto, il trentatreenne Igor Hryb, che secondo alcune fonti sarebbe stato giustiziato dai suoi stessi uomini dopo che, invano, aveva cercato di fermarli.
Gli ufficiali, del resto, hanno vita difficile anche sull’altro versante del fronte, dove le possibilità che vengano abbattuti dal fuoco amico sono forse ancora più numerose. Solo negli ultimi mesi, infatti – sempre secondo “Assembly” – i casi di comandanti moscoviti fatti fuori dai propri soldati sarebbero stati almeno tre. L’ultimo episodio risale al maggio scorso, quando i militari dell’unità 52892 dell’esercito di Putin, «portati alla follia» dagli sfiancanti turni di guardia, hanno deciso di aprire il fuoco contro il proprio capo-brigata, ammazzandolo sul colpo. Perché i fucili – come sostengono i writer di Kharkiv – bisogna saperli puntare nella direzione giusta.
Da l’Unità – Un’iniziativa, riscoperta dal romanzo di Viola Ardone, che portò migliaia di bambini dalle zone più colpite dalla guerra a famiglie più al sicuro. «Non esiste Nord e Sud, esiste l’Italia», recitava uno degli slogan.
Come se fosse un Erasmus per bambini, un progetto di scambio e solidarietà per riparare alla devastazione della II Guerra Mondiale. Li chiamavano “treni della felicità” quei vagoni che portarono migliaia di bambini dalle zone più colpite dalle bombe a famiglie che dal conflitto erano state meno danneggiate. Un’esperienza riscoperta grazie al romanzo di Viola Ardone, Il treno dei bambini, un grande successo tradotto in decine di lingue diventato un film presentato al Festival del Cinema di Roma in uscita il 4 dicembre sulla piattaforma Netflix, diretto dalla regista Cristina Comencini e interpretato da Serena Rossi, Christian Cervone, Barbara Ronchi e Stefano Accorsi.
Il progetto dei “treni della felicità” fu assemblato dall’Unione Donne Italiane (Udi) e dal Partito Comunista Italiano, partì alla fine della II Guerra Mondiale e andò avanti fino al 1952. Dalle città più colpite come Milano, Napoli o Roma, o da zone come Puglia, Sicilia, Polesine e Cassinate, bambini di famiglie poco abbienti o molto colpite dalla guerra e dalle sue conseguenze venivano assegnate ad altre famiglie in minore difficoltà, presso le quali restavano per il tempo di un anno scolastico o più. A offrire ospitalità non erano soltanto militanti del Pci o famiglie abbienti, spesso erano famiglie di contadini che figli già ne avevano. Di solito le destinazioni erano Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Liguria.
Il progetto di Pci e Udi: l’idea di Teresa Noce
Ideatrice del progetto fu Teresa Noce, partigiana che aveva preso parte alla Guerra Civile in Spagna con il nome di battaglia Estella, imprigionata dai nazisti, tra le fondatrici dell’Unione Donne Italiane, organizzazione nata a Napoli di donne antifasciste che avevano partecipato alla Resistenza con l’obiettivo di inserire i diritti delle donne nella Costituzione Italiana. Il progetto partì con le famiglie di “compagni” tra Bologna, Modena e Parma. Si trattava di sfamare, curare, vaccinare, pulire, educare, formare, istruire migliaia di bambini in condizioni di disagio. Molti erano figli di operai e contadini arrestati nelle manifestazioni represse con violenza dal ministro dell’Interno Scelba all’inizio degli anni ’50.
Se a partire erano fratelli, poteva capitare che venissero divisi tra più famiglie: un altro shock dopo l’iniziale separazione dalle famiglie di origine che poteva essere anche drammatico. «Non esiste Nord e Sud, esiste l’Italia», recitava uno degli slogan dell’iniziativa. Il divario era già evidente e cominciava ad allargarsi. Se decenni prima l’Italia si era unita nelle trincee, con i soldati fianco a fianco in guerra, quelli della Sicilia come quelli della Lombardia, i “treni della felicità” unirono l’Italia nella solidarietà.
Non mancava la propaganda dei partiti di destra o della Democrazia Cristiana che spaventava piccoli e grandi con la puntuale e immancabile leggenda dei comunisti che mangiano i bambini o con la minaccia della spedizione dritti dritti in Unione Sovietica. Quando arrivavano a destinazione e sentivano parlare nei dialetti del nord, alcuni davvero pensavano di essere arrivati a Mosca o in Siberia. E si rifiutavano perfino di scendere dal treno. Alcuni di quei bambini, orfani della loro famiglia, arrivati con i treni della felicità non tornarono mai più indietro. Altri tornarono per continuare il percorso scolastico.
Ardone ha preso questa esperienza dimenticata ed emozionante della storia della Repubblica e ne ha fatto un romanzo di grande successo, tradotto in decine di Paesi. Il protagonista è Amerigo, il bambino che parte da Napoli, lascia la madre nei Quartieri Spagnoli per il Nord, è lui a dare il punto di vista alla narrazione, l’io narrante. Circa 20mila bambini partirono da Napoli.
Pubblicato nel 2019 da Einaudi, 200mila copie vendute, tradotto in 35 lingue, Il treno dei bambini è stato un successo enorme che ha riportato alla luce un capitolo bellissimo, struggente ed emozionante, oltre che dimenticato, della storia italiana del dopoguerra. «A volte dobbiamo rinunciare a tutto, persino all’amore di una madre, per scoprire il nostro destino. Nessun romanzo lo aveva mai raccontato con tanto ostinato candore», recitava la quarta di copertina del libro alla sua uscita, un caso editoriale.
(unita.it 4 dicembre 2024, con il titolo: Il treno dei bambini: che cos’erano i “treni della felicità”, la storia vera del film, l’idea di Pci e Unione delle Donne nel dopoguerra)
Da Fanpage – La giustizia, scriveva la teorica femminista statunitense bell hooks, non è né violenza né retribuzione, ma integrità: è «avere un universo morale, non è sapere soltanto cos’è giusto o sbagliato, ma mettere le cose in prospettiva, soppesarle». Questo universo morale, nel luogo in cui la giustizia si manifesta nella sua forma più istituzionale, viene ridotto a due possibilità: una assoluzione o una condanna. Ma spesso nessuna di queste due possibilità riesce a farci sentire che “giustizia è stata fatta”.
Filippo Turetta è stato condannato in primo grado all’ergastolo per omicidio volontario per aver ucciso la sua ex fidanzata Giulia Cecchettin l’11 novembre del 2023. Anche se gli è stato dato il massimo della pena, i giudici hanno riconosciuto l’aggravante della premeditazione ma non quelle della crudeltà e degli atti persecutori. Questo nonostante la perizia abbia stabilito che Cecchettin è stata uccisa con 75 coltellate e nonostante in aula siano stati letti i messaggi che Turetta le inviava in continuazione, in cui pretendeva di essere aggiornato su ogni momento della sua vita.
Ma non è tanto il mancato riconoscimento delle aggravanti, che è stato definito dall’avvocato di parte civile per Elena Cecchettin “un passo indietro”, a non riuscire a dare alla conclusione del processo un vero senso di giustizia, bensì il concetto che ha espresso Gino Cecchettin dopo la lettura della sentenza: «Abbiamo perso tutti come società. Nessuno mi ridarà indietro Giulia, non sono né più sollevato né più triste rispetto a ieri. È chiaro che è stata fatta giustizia, ma dovremmo fare di più come esseri umani, la violenza di genere va combattuta con la prevenzione, non con le pene. Come essere umano mi sento sconfitto, come papà non è cambiato niente rispetto a ieri o a un anno fa». Parole che ricordano quelle pronunciate solo pochi giorni fa da Chiara, la sorella di Giulia Tramontano, uccisa dal compagno Alessandro Impagnatiello, anche lui condannato all’ergastolo il 25 novembre scorso: «Nessuna donna ha vinto in quest’aula: oggi è arrivato l’ergastolo, ma dopo la morte».
Come ha ricordato in tante occasioni lo stesso Gino, la violenza di genere non riguarda solo due individui, chi ha ucciso e chi è stata uccisa. Tante altre cose sarebbero potute succedere senza che un tribunale dovesse arrivare a pronunciare una sentenza per omicidio: una richiesta di aiuto, un percorso terapeutico, una denuncia, magari un corso di educazione affettiva. Queste mancanze sono responsabilità di tutta la società, dalla famiglia alla scuola, passando per la cultura in cui tutti e tutte siamo immersi e il fallimento non può che essere collettivo. Il padre di Giulia lo ha riconosciuto subito, tanto da dedicarvi l’orazione al funerale della figlia: anziché chiedere una pena esemplare, anziché attribuire colpe, ha chiesto cosa possiamo fare come società per essere migliori.
E proprio perché la violenza di genere e il femminicidio in particolare sono così radicati in un tessuto culturale che normalizza, se non addirittura celebra, la cultura del dominio e della violenza, è logico che non può essere la cultura del dominio e della violenza a porvi rimedio. La punizione severa, allontanando “il mostro” dalla collettività, ci può dare l’illusione che il problema sia risolto, anche se evidentemente non è così: dal 2009 a oggi le pene previste per i reati di genere, dai maltrattamenti in famiglia all’introduzione dell’aggravante del femminicidio (inteso come omicidio di una persona con cui si ha o si è avuta una relazione affettiva, indipendentemente dal genere), sono state aumentate più volte. Da quando è stato introdotto il reato di stalking si è passati dalle 169 condanne del 2009 alle 2.402 del 2018, sebbene ci siano stati ben quattro interventi del legislatore per incrementare le pene previste per questo reato. Secondo l’Istat sono 2 milioni 229mila le donne ad aver subito atti persecutori almeno una volta nella vita da un uomo, di cui 2 milioni 151mila da parte di un ex partner.
Il processo ha dimostrato che Turetta aveva ben chiaro cosa stava facendo, così come aveva ben chiaro che sarebbe stato punito severamente se scoperto, tanto da aver architettato in modo dettagliato un piano di fuga. La prospettiva di passare il resto della sua vita in carcere non lo ha fatto desistere dall’uccidere Giulia Cecchettin; lo ha soltanto spronato a scappare in Germania.
Non sarà questa sentenza, di cui non conosciamo ancora le motivazioni e che non sappiamo ancora se verrà impugnata, a fare giustizia. Sarà fatta giustizia solo quando sarà ricucito quell’universo morale di cui parlava bell hooks: quando sapremo non solo che il femminicidio è sbagliato (lo sappiamo già), ma quando non dovremo più arrivare a pronunciare una sentenza simile. E per farlo, come ha detto Gino, abbiamo bisogno di prevenzione, non di pene.
Da GenovaToday – «Non dico di essere sollevata, ma non mi importa neanche tanto, il punto non è punire il singolo, se avessi voluto punire il singolo mi sarei mossa in altre direzioni». Così Francesca Ghio commenta l’eventuale e probabile archiviazione dell’inchiesta da parte della procura di Genova. La consigliera comunale che ha denunciato in aula consiliare di avere subito uno stupro a dodici anni, ieri è stata ospite del programma condotto da Massimo Gramellini “In altre parole”, su La7, dove ha raccontato la sua storia, ma soprattutto l’importanza del gesto politico che l’ha portata a parlarne in pubblico.
«Quel testo – ha detto riferendosi al testo letto in aula – l’ho scritto la mattina sapendo che in consiglio comunale ci sarebbe stato un documento che avrebbe parlato di violenza di genere. Mi sono accorta che tutti i discorsi che vengono fatti nelle aule, e nel mio caso nell’aula consiliare del Comune di Genova, sono discorsi vuoti e pieni di apatia. Portare un pezzo di me, metterlo al centro della sala, è stato per me un atto politico. Riportare quel dolore come responsabilità delle istituzioni. L’ho fatto per le figlie e i figli di tutti, è stato difficile. Avevo bisogno di togliermi dalla mia esperienza per non emozionarmi, non è stato semplicissimo frantumarmi davanti a tutti. Un mio amico che ha esperienza nel teatro mi ha detto: “Vai decisa fino in fondo, leggi bene e fatti capire”».
Com’è noto, dopo l’intervento di Ghio non c’è stata una reazione immediata da parte del consiglio comunale, ma lei racconta di non esserne stupita: «Forse lo eravate voi, ma per me era la normalità. È il silenzio che fa sì che le istituzioni non abbiano nessun peso risolutivo sulla realtà». Poi: «Mi rendo conto della forza comunicativa, da giorni ricevo centinaia di messaggi, ma la mia è una delle tante storie».
Tra i messaggi e le telefonate c’è anche quella di Giorgia Meloni: «Prendevo una tisana con mia mamma, ho ricevuto una chiamata da un numero sconosciuto, poi un messaggio, ho richiamato e mi è stato passato il telefono: “Pronto, sono Giorgia Meloni”. Ero molto stanca, alienata, ma ho scelto di non sottomettermi alla strumentalizzazione, ringrazio per la vicinanza che però non posso accettare da chi ha la responsabilità istituzionale di risolvere i problemi. Non ho mollato il punto sul ribadire l’importanza di non scaricare la responsabilità sul singolo, ma capire che se abbiamo problemi il primo passo è guardarli negli occhi, deresponsabilizzare non risolve i problemi».
«Lei – continua – rispondeva in romanaccio, come poteva. Diceva che sta facendo tanto per quello che ha la possibilità di fare, ma se siamo a questo punto la responsabilità è di tutti, non accetto la strumentalizzazione del dolore della mia storia».
Ghio ha dribblato la domanda di Gramellini su cosa provi per il suo stupratore: «I miei sentimenti personali non sono il punto della questione, la mia scelta è stata portare la mia storia nelle istituzioni perché la soluzione deve arrivare da lì, non possiamo chiedere soluzione ai centri antiviolenza o alle famiglie».
Centri antiviolenza che, come ha ricordato Fiorella Mannoia, presidente onoraria del centro Una Nessuna Centomila e anche lei ospite di Gramellini, soffrono per il precariato: «Le operatrici sono precarie. Non sanno se riusciranno a prendere lo stipendio il mese dopo. Sono eccellenze nei loro campi, avvocate, psicologhe, in parte volontarie e in parte abbandonano perché non hanno uno stipendio. Lo vogliamo mettere in finanziaria questo come problema?».
«Avrei accettato una consapevolezza del problema. – ha aggiunto Ghio – L’educazione sessuo-affettiva e sul consenso nelle scuole non solo è la prima cosa da cui dobbiamo partire, è un investimento per tutti, ci dobbiamo trovare tutti d’accordo, mettere strumenti in mano ai bambini vuol dire evitare carnefice e vittima. Siamo immersi nella violenza e non se ne esce. Il primo passo politico è applicare in Italia modelli che già esistono, per portare ai nostri bambini la speranza che nel futuro questo modello di violenza non si debba replicare. Alla presidente del consiglio ho chiesto di ricordarsi che siamo tutti fratelli e sorelle in questo pianeta. Continuare a dividerci è tragico al punto della storia in cui siamo, noi che ci candidiamo ad amministrare abbiamo il dovere morale nei confronti della collettività di fare meglio. Sapere che siamo rappresentati da persone che non riescono ad assumersi la responsabilità e si dichiarano intimamente contenti se qualcuno soffre ci dimostra che siamo a un punto agghiacciante».
«Ho un’enorme speranza per la mia generazione, voglio lavorare, continuare a impegnarmi non per mia figlia, ma per tutti i figli di tutti», ha concluso la consigliera.
Da Il Fatto Quotidiano – «Mi è sembrato evidentemente inopportuno invitare a una fiera dedicata a Giulia Cecchettin un uomo (confesso che non sapevo manco chi fosse…) accusato di violenza ai danni della sua compagna. Mi è sembrato sbagliato invocare il garantismo (che pure è un tema che mi sta molto a cuore in questo tempo di barbarie) per troncare una discussione sulla violenza di genere, senza problematizzare il calvario che tante donne incontrano nel denunciare gli abusi, la difficoltà di essere credute, di vedere riconosciuta la propria verità. Una discussione complessa che afferisce più alla cultura che alle procedure penali». Con una lunga riflessione, pubblicata attraverso una serie di storie Instagram, il disegnatore Michele Rech, in arte Zerocalcare, annuncia di aver annullato l’incontro previsto il 6 dicembre a Più libri più liberi, la fiera della piccola e media editoria di Roma, a cui avrebbe dovuto partecipare insieme alla scrittrice Chiara Valerio, curatrice della manifestazione. Il motivo sta nella scelta di Valerio di invitare alla fiera, dedicata quest’anno alla memoria di Giulia Cecchettin (la ventiduenne veneta uccisa dall’ex fidanzato a novembre 2023) lo scrittore e opinionista Leonardo Caffo, imputato a Milano per maltrattamenti e lesioni ai danni dell’ex compagna (a ottobre il pm ha chiesto quattro anni e mezzo di reclusione).
Dopo una valanga di polemiche Caffo ha ritirato la partecipazione. Valerio, però, ha difeso in un primo momento la scelta di invitarlo, appellandosi alla presunzione d’innocenza e annunciando di voler presentare lei stessa il suo libro sull’anarchia. Solo in seguito l’organizzazione della kermesse ha diffuso un messaggio di scuse, comunicando che la sala destinata alla presentazione sarebbe stata messa a disposizione della «discussione contro la violenza di genere».
«Credo che tutto, compresi i video, le comparsate televisive, letteralmente tutto almeno fino all’ultimo messaggio di scuse sia stato sbagliato; per come conosco Chiara Valerio, ci credo che sia mossa da fedeltà a un principio e non da altro; ma quando quello che facciamo si presta a così tante strumentalizzazioni, quando diventiamo utili agli articoli della Verità, quando i nostri nemici ci prendono a simbolo, è il momento di fermarci a riflettere pure se siamo in buona fede», scrive Zerocalcare. E definisce l’incontro «oggettivamente impossibile da tenere» perché, scrive, «mi pare impossibile glissare su questo tema e parlare d’editoria come se niente fosse; e al tempo stesso mi pare grottesco pensare che un maschio tenga un incontro in cui spiega a una donna come avrebbe dovuto comportarsi in termini di femminismo». Anche se non parteciperà all’incontro, Zerocalcare sarà presente in fiera presso lo stand della sua casa editrice, Bao Publishing, per i firmacopie.
Dal Corriere della Sera – «La violenza sulle donne è in aumento, anche il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, ha detto che siamo ai livelli di una pandemia». Reem Alsalem, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze, parla con il Corriere della Sera alla vigilia dell’incontro “Violenza contro le donne e prostituzione: quale relazione?”, organizzato il 23 novembre a Milano dalla Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate e Resistenza Femminista, in collaborazione con Anteo e lo storico quotidiano milanese. Lo fa tenendo il punto su argomenti scottanti come la pornografia che considera «una forma di prostituzione cinematografica» e gli sport femminili che, afferma con convinzione, «devono essere riservati solo alle donne». Alsalem individua nel patriarcato «una delle maggiori cause della violenza contro le donne, degli abusi e del desiderio di dominare». Un sistema, dice, «che danneggia anche gli uomini, perché si aspetta che aderiscano ai modelli di mascolinità aggressivi, dominanti e violenti che vengono loro proposti». E spera di portare l’attuale governo dell’Afghanistan davanti alla Corte Internazionale di Giustizia: «Incriminare i talebani per aver violato i propri obblighi nei confronti delle proprie donne ai sensi del diritto internazionale avrebbe un forte potere simbolico».
La violenza contro le donne è in costante aumento in tutto il mondo, secondo lei cosa possiamo fare per fermarla?
«I dati che abbiamo dipingono un quadro molto allarmante. Oltre alle forme tradizionali di violenza, ne esistono di nuove che si generano grazie alla tecnologia digitale, penso ai deepfake [montaggi di immagini realizzati con l’intelligenza artificiale, Ndr] e alla crescente commercializzazione e mercificazione delle donne, delle loro capacità riproduttive e sessuali, come è il caso della prostituzione e della maternità surrogata. Per combattere la violenza sappiamo quello che dobbiamo fare, gli Stati hanno leggi chiare in proposito così come il diritto internazionale. Quello che serve è l’impegno politico. Le autorità devono dare priorità a questo problema e dire: “Faremo in modo che metà della nostra società sia al sicuro, sia trattata con pari dignità”».
E perché non c’è quest’impegno?
«Per attuare le leggi servono risorse e il mio timore è che in un periodo di austerità, anche in Europa, dove i servizi e l’attenzione per i più vulnerabili e per coloro che sono più a rischio vengono tagliati o declassati, temo che non vengano stanziati fondi e risorse sufficienti allo scopo. È davvero importante continuare a finanziare e sostenere le organizzazioni di difensori dei diritti umani e coinvolgerli in modo davvero significativo. Un’altra cosa che mi preoccupa è che parliamo molto della necessità di far partecipare le donne a tutti i processi che le riguardano, ma quando le donne dicono qualcosa che non piace ai governi o che non corrisponde alle loro priorità, le loro voci vengono messe da parte e questo accade ovunque nel mondo. Anche in Occidente le organizzazioni femminili vengono messe da parte, le voci delle donne vengono eclissate, le donne vengono vilipese e questo ovviamente va contro i principi dei diritti umani. Poi ci sono le guerre. Sappiamo che la violenza sessuale contro donne e ragazze nei conflitti è stata usata come strumento di guerra, ed è un problema preoccupante e allarmante, ma direi che, con l’accresciuta eradicazione della credibilità dell’ordine basato sul diritto internazionale e del rispetto del diritto internazionale e del diritto umanitario e delle leggi sui conflitti armati, stiamo assistendo anche a un’erosione della protezione di donne e ragazze contro tale violenza nei conflitti».
In un rapporto lei ha definito la prostituzione un sistema di violenza contro le donne e le ragazze. Qual è il modello migliore per porvi fine?
«È molto importante pensare all’immenso danno che viene inflitto alle donne nella prostituzione, inclusa la sofferenza psicologica, un trauma che può anche causare la dissociazione delle vittime e persino lo sviluppo di una relazione di dipendenza e attaccamento agli aggressori. Il modo miglior per affrontare questo sistema di violenza è il modello nordico o abolizionista, che si propone di sradicare la prostituzione ponendo alcuni punti fermi. Prima di tutto le donne nella prostituzione vanno considerate vittime e sopravvissute alla violenza. Quindi se le forze dell’ordine si imbattono in una donna nella prostituzione, lei non dovrebbe essere punita, criminalizzata, giudicata, vilipesa. In secondo luogo va affrontata la questione della domanda, che è al centro di questo sistema di sfruttamento. L’unico attore che ha davvero la possibilità di scegliere è l’acquirente: ogni volta che esce per acquistare un atto sessuale prende una decisione consapevole e ha la libertà di dire di no. E quindi dobbiamo iniziare a rendere più difficile e più inaccettabile, sia socialmente che legalmente, per uomini e ragazzi comprare corpi di donne. La domanda va criminalizzata, comminando multe considerevoli o condanne penali. E questo è cruciale perché finché non diventerà più difficile e punibile per gli uomini acquistare atti sessuali, non saremo mai in grado di affrontare davvero questo problema. La terza cosa è offrire strategie di uscita. Le donne nella prostituzione devono avere accesso a un supporto immediato alle cure per affrontare le conseguenze della prostituzione sui loro corpi e sulle loro menti, a un alloggio, a percorsi di formazione per ricominciare la loro vita in una situazione di sicurezza, dignità e protezione».
Lei ha chiesto che un test obbligatorio sul sesso venga introdotto negli eventi sportivi. Alle ultime Olimpiadi, però, ci si basava solo sul sesso presente sul passaporto. Come pensa di raggiungere questo obiettivo? Qual è la sua posizione sul caso di Imane Khelif?
«Sono stata chiara su questo. Il responsabile di ciò che è successo alle Olimpiadi di Parigi è il Comitato Olimpico. Il Cio deve proteggere gli sport femminili limitandone l’accesso alle donne. Non ci si può basare sul passaporto perché si sa che un certo numero di Paesi metteranno l’identità di genere della persona che può non corrispondere con il sesso biologico. Spero che il Cio abbia imparato la lezione da quello che è successo a Parigi e dal fatto che le giocatrici sono state messe in pericolo ed esposte ad attacchi. I test sul sesso erano stati scoraggiati negli anni ’80 perché erano invasivi e usati solo su certi gruppi di persone ma oggi sono economici ed efficienti oltre ad essere assolutamente necessari per determinare il sesso biologico di un partecipante. È quello che chiedono le atlete e noi dobbiamo ascoltarle».
In uno dei suoi ultimi rapporti al Consiglio per i diritti umani ha sottolineato il tremendo danno che la pornografia crea alle società e i chiari legami che ha con l’aumento e il mantenimento della violenza contro le donne. Come è possibile che la Commissione Europea abbia inviato un relatore al Pornfilmfestival di Berlino? E cosa si può fare per combattere l’industria del porno?
«Nel mio rapporto sulla prostituzione e la violenza contro le donne e le ragazze parlo della pornografia come prostituzione cinematografica. È un fenomeno che produce danni duraturi sulla parità di genere e anche sulla salute mentale e fisica di tutti, compresi adolescenti, ragazzi e ragazze, bambini e bambine. La mia raccomandazione finale è che la pornografia sia messa fuori legge. Nel frattempo dovremmo limitarne la visione ai maggiorenni e rafforzare i metodi di verifica dell’età. Ci vogliono norme serve per chi possiede, promuove o dà spazio a materiale che promuove la violenza. Quanto alla Commissione Europea, penso che sia giunto il momento che gli Stati smettano di trattare i produttori di pornografia e coloro che ospitano pornografia sui loro siti web come imprese senza responsabilità. Devono esserci delle conseguenze. Devono essere chiusi i siti se non rispettano le norme e i regolamenti. Mi preoccupa che la Commissione Europea abbia inviato un relatore al festival del porno perché dà l’impressione che tolleri gli aspetti dannosi e negativi di quell’industria».
In Iraq, Iran e Afghanistan, per citare alcuni Paesi, le donne sono sempre più messe in un angolo, i loro diritti cancellati. Sembra che la reazione delle Nazioni Unite non sia così netta soprattutto nel caso dei talebani a Kabul. Perché?
«Il problema della violenza contro le donne e le ragazze o la regressione nei diritti delle donne non è limitato a certi paesi o a una certa regione perché questa è una pandemia a livello globale. Certo ci sono Paesi che hanno fatto enormi progressi ma tutti devono affrontare questo problema. Se guardiamo all’Iran e all’Iraq, le donne e le ragazze godono ancora di diritti in una serie di aree importanti. Allo stesso tempo in Iraq c’è una bozza di legge per legalizzare il matrimonio delle bambine ma sta incontrando una feroce opposizione da parte di molte parti della società, di donne e di organizzazioni della società civili. Faccio notare che il matrimonio infantile esiste in una serie di Paesi tra cui 37 Stati americani. Quindi è qualcosa su cui dobbiamo lavorare. In una sorta di categoria a sé stante è l’Afghanistan, dove abbiamo assistito alla cancellazione più grave dei diritti delle donne nella vita pubblica e privata. Ma ancora una volta questa regressione non riflette le opinioni o le posizioni della società afghana ma di un gruppo armato che è salito al potere e ne sta abusando».
Non pensa che qualsiasi negoziato con i talebani, a qualunque tavolo, debba essere escluso finché loro non ammettono le donne nelle loro delegazioni? Come si può avere un dialogo o riconoscere l’autorità di queste persone?
«Ovvio che debbano esserci delle conseguenze per il modo in cui i talebani trattano le donne e le ragazze. Dobbiamo esplorare tutte le strade per ritenerli responsabili di ciò. E per questo sostengo l’iniziativa di quei Paesi che vogliono portare i talebani davanti alla Corte internazionale di giustizia. Perché l’Afghanistan è firmatario, ad esempio, della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Incriminare i talebani per aver violato i propri obblighi nei confronti delle proprie donne ai sensi del diritto internazionale avrebbe un forte potere simbolico. Ho anche, tra l’altro, sostenuto il fatto che dobbiamo rendere più difficile per l’Afghanistan normalizzare questo tipo di esclusione, repressione e discriminazione in campo culturale. Per esempio non far partecipare alle competizioni internazionali le squadre sportive maschili dell’Afghanistan, in qualsiasi disciplina, finché alle donne non sarà permesso di partecipare agli sport. Il discorso è diverso in campo umanitario perché la popolazione ha bisogno di assistenza. Ed è sottinteso che per promuovere i diritti umani e l’accesso all’assistenza umanitaria bisogna interfacciarsi con i poteri che hanno il controllo. E questo non significa dar loro un riconoscimento. Questo è quello che ha fatto l’Onu e che ho fatto anch’io, che sono andata in Afghanistan sei mesi dopo la presa del potere dei talebani. Ho anche chiesto all’OIC, l’Organizzazione della Conferenza Islamica, di essere più severa e più esplicita nel comunicare ai talebani che non possono nascondersi dietro l’Islam o la loro interpretazione dell’Islam. L’Islam non tollera, non supporta questo trattamento esclusivo, discriminatorio e invisibilizzante delle donne. Non dobbiamo far sì che il trattamento delle afgane venga normalizzato altrove, come stanno per esempio provando a fare gli Houthi in Yemen».
Contro le madri viene spesso usata nei tribunali la sindrome di alienazione parentale, che non ha basi scientifiche. Quali armi abbiamo contro questo fenomeno?
«Nel mio rapporto sulla custodia dei figli e la violenza contro le donne e le ragazze, che ho presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite lo scorso anno, ho formulato una raccomandazione molto forte: dobbiamo mettere al bando l’uso di questo concetto, l’alienazione parentale. Innanzitutto non è un concetto scientifico, è uno pseudo-concetto. In secondo luogo viene utilizzata nei procedimenti giudiziari come un’arma contro le donne dagli autori di violenza che, odio dirlo, sono soprattutto uomini, per distrarre l’attenzione dai loro misfatti. La usano come forma di punizione. Dobbiamo togliere dalla scena questo concetto e prestare attenzione alle storie di violenza precedenti nella famiglia».
In Italia è stata appena introdotta una legge contro la maternità surrogata che punisce le coppie che vanno all’estero per accedere alla pratica. Qual è il suo punto di vista?
«Penso in generale che la pratica rappresenti la mercificazione della donna da un punto di vista riproduttivo e sessuale. Non posso però dare una posizione precisa sulle leggi in proposito perché non rientra nel mio mandato. Tuttavia ho inviato una lettera al governo della Grecia sulla mancanza di garanzie per prevenire lo sfruttamento delle donne, ma anche perché garantisca il miglior interesse del bambino nella sua legge sulla maternità surrogata. Ho intenzione, in futuro, di concentrarmi su questo. Nel frattempo accolgo con favore gli sforzi degli Stati che si battono contro lo sfruttamento».
Le faccio una domanda provocatoria: visto che sono gli uomini i maggiori responsabili dei comportamenti antisociali e violenti, oltreché delle guerre, non sarebbe ora che facessero un passo indietro e cedessero il passo alle donne? Come sarebbe un mondo in cui il potere è in mano alle donne?
«Penso che la causa della violenza contro le donne, degli abusi e del desiderio di dominare sia il patriarcato. E penso anche che il patriarcato danneggi anche gli uomini, perché si aspetta che aderiscano ai modelli di mascolinità aggressivi, dominanti e violenti che vengono loro proposti. Quindi, in realtà, credo che anche gli uomini e i ragazzi siano vittime ma in un modo diverso, perché se non aderiscano a questi modelli soffrono anche loro. E penso, ad esempio, che la pornografia danneggi anche chi la usa. Provoca disfunzioni sessuali, distrugge le famiglie. Ma, naturalmente, sono le donne e le ragazze a soffrire di più perché sono oggetto di questa dominazione. Ed è sicuramente vero che se coinvolgiamo le donne e le ragazze nella costruzione della pace, nella risoluzione dei conflitti, le possibilità di successo saranno maggiori. I dati dimostrano anche che si ridurrebbe la probabilità di una guerra».
Da Marea
Nel 2017 la rivista Marea ha inaugurato, su proposta di Rossana Piredda, una nuova e originale serie di numeri speciali, “Grazie a lei”. Un esperimento ben riuscito che ha contribuito a preservare la memoria del femminismo, offrendo uno spazio alle autrici per celebrare le donne che le hanno ispirate. Attraverso i loro racconti personali, abbiamo potuto conoscere donne che hanno lasciato un’impronta indelebile nella loro vita e nella società, infondendo forza e autorevolezza. Otto numeri speciali, 76 storie nate dalla gioia della riconoscenza, che rendono omaggio a donne che ci hanno precedute o ancora in vita. Un invito a ringraziarle per il loro contributo, mantenendo viva la loro eredità.
Quante donne dovrei ringraziare per essere quella che sono? Una donna che ama la vita e accetta di attraversarla nella sua complessità.
Primo fra tutti un grazie va a mia madre, Giuseppina Operti, che mi ha messo al mondo a venticinque anni. Desiderava tanto una femmina e sono arrivata io. Negli ultimi anni della sua vita, lasciandosi alle spalle i tratti un po’ severi e riservati della sua piemontesità, mi ha rivelato: «Quando la levatrice ti ha messo tra le mie braccia mi sembrava di sognare!». In quel momento ho percepito quale fosse l’origine del mio amore per me stessa, della mia preferenza per l’amicizia femminile, della fiducia e ammirazione che nutrivo per le maestre. Quando ogni cellula del tuo corpo sprigiona il desiderio e la gioia di tua madre per averti generato, le fate madrine depongono quel brillio nello scrigno del tuo essere, la stanza segreta che è dentro ognuna di noi. E così porto in me una sorgente di desiderio e di amore che illumina i miei passi, orientandomi principalmente verso il mondo delle donne con gratitudine.
Nel femminismo ho ritrovato questo sentimento di valore, ammirazione e fiducia, molto diverso dal fascino provato in gioventù per gli uomini che mi seducevano mettendomi in scacco, come una replicante di mondi estranei oppure silente e alienata in un limbo d’inconsistenza.
Se penso alle donne della mia vita si fa avanti un corteo in cui sfilano, al seguito di mia madre, le nonne e le zie che mi hanno coccolato da bambina, le mie maestre di scuola. E poi Anna Garelli, Pinuccia Corrias, Elena Fogarolo, Aida Ribero, Adriana Sbrogiò che mi hanno introdotto alle pratiche del femminismo fin dagli anni Ottanta; Luisa Muraro che mi ha insegnato l’autorità femminile nell’agire politico; le tante donne dei Gruppi donne delle Comunità cristiane di base e le molte altre con cui ho condiviso il percorso di ricerca di un divino leggero, liberato dalle gabbie patriarcali; le mie migliori amiche Grazia Villa e Carla Galetto, sorelle d’anima; Maura e Simona le mie sorelle di sangue e la bella matrioska creata con le mie figlie Valeria e Francesca da cui è nata Virginia, l’ultima arrivata. Ma in questa occasione desidero dedicare il mio “grazie a lei” alla donna che in ordine di tempo e solo momentaneamente chiude il corteo: Luciana Tavernini.
L’ho incontrata la prima volta l’8 giugno 2014 durante la redazione allargata di Via Dogana, storica rivista della Libreria delle donne di Milano. Carla Galetto e io eravamo state invitate dalla filosofa Luisa Muraro a raccontare la nostra storia nei Gruppi donne delle Comunità cristiane di base, in quelli che non sapevamo ancora sarebbero stati gli ultimi due numeri della rivista nella sua forma cartacea. La redazione si teneva di domenica mattina mentre il sabato sera era dedicato agli incontri in libreria. In quell’occasione tra le donne presenti, per noi ancora in gran parte sconosciute, si fece avanti Luciana, determinata, sguardo attento e concentrato, molto diretta che, con gentilezza, andò subito al sodo: «Ho una casa molto spaziosa e ora che mia madre non c’è più e i figli hanno preso la loro strada, se le prossime volte volete venire il sabato, potete dormire da me». Aveva pronunciato quelle parole con la naturalezza di chi mantiene salda la dimensione umana dell’ospitalità. Ma c’era qualcosa di più. Questa prima mossa di Luciana mi ha toccata a un livello profondo. Esprimeva un grande amore per la pratica politica delle relazioni tra donne, il desiderio di generare insieme qualcosa di bello e di grande e la consapevolezza che il pensiero trae energia dal fare insieme. Perché questo accadesse, sapeva creare agio attraverso la concreta cura dei corpi, degli spazi e dei tempi necessari per l’incontro, mostrando sapienza nell’arte di tessere relazioni.
Non la conoscevo ancora, anche se avevo letto alcuni suoi interventi nelle pubblicazioni dell’associazione Melusine, di cui aveva fatto parte negli anni ’90, e in quelle della Pedagogia della differenza a cui aveva partecipato fin dall’inizio, della Comunità di pratica e riflessione pedagogica e ricerca storica, confluita nella Comunità di storia vivente. Scriveva su alcune riviste come Via Dogana, Duoda, Legendaria e con Marina Santini aveva pubblicato Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova 2015), una narrazione storica e dialogica del femminismo intrecciata a 58 testimonianze delle protagoniste dei fatti narrati e a un centinaio di fotografie.
Ho capito, leggendo il suo primo racconto di storia vivente, Gli oscuri grumi del disordine simbolico (La pratica della storia vivente DWF n. 3, 2012, pp. 35-45), da dove venisse la sua munificenza. Come lei scrive è «la capacità di capire cosa far circolare in un’abbondanza sotterranea che lega le vite e le rende degne di essere vissute». È un’eredità ricevuta dalla sua genealogia materna. Sua nonna e sua madre che, nonostante le ristrettezze economiche, «avevano sempre qualcosa da offrire a chiunque passasse da casa» e sapevano anche vedere le situazioni difficili inventando modi per «tendere la mano senza farsi travolgere e riuscendo a riportare a galla chi stava per essere sommerso». Anche Luciana sa donare ciò che è necessario e offrirlo generosamente, non per aver qualcosa in cambio ma per nutrire e far crescere «in una circolarità di attenzione, di gratuità e di parola».
L’occasione per iniziare a fare amicizia si presentò più avanti quando Carla Galetto e io le rivolgemmo una richiesta specifica. Nel Collegamento dei gruppi donne delle Comunità cristiane di base italiane e delle molte altre era nata l’esigenza di raccontare il nostro percorso trentennale fatto di ricerca teologica, politica, riappropriazione di espressioni liturgiche, coinvolgimento dei corpi, avendo come punto fermo la coscienza dell’essere sessuate e il partire da sé. Volevamo raccontare l’intreccio tra la storia personale di ciascuna nel proprio contesto e l’eccezionale esperienza comune nata da quelle singole storie.
Alcune di noi avevano sentito vicina alla propria ricerca la pratica sperimentata dalla Comunità di storia vivente di Milano, nata da un’invenzione di Marirì Martinengo. Una pratica di donne in relazione che si erano autorizzate a narrare la storia, partendo dal loro sentire profondo per indagare nella loro vita i nodi che non avevano ancora trovato parole corrispondenti alla propria verità soggettiva e rendere così visibile nel mondo l’esperienza femminile. Luciana era una delle iniziatrici di questa esperienza. Accettò subito la nostra richiesta e iniziò con noi un proficuo confronto, sfociato in un incontro alla Libreria delle donne di Milano tra una parte del Collegamento donne CDB e le molte altre e la Comunità di storia vivente di Milano, e successivamente nella nascita della nostra Comunità di storia vivente in faccia al Monviso. Ci ha accompagnate mentre muovevamo i primi passi, assicurandoci con Marina Santini una presenza costante.
Ho ancora in mente i mantra delle sue esortazioni, delle sue domande incalzanti per approfondire i nostri racconti. «Non stare in un recinto! Tieni sempre tutto aperto finché arrivi a un nucleo. Domandati se ciò che fai è un atto di libertà o ti incatena. Quanto gioca il voler essere perfetta e rassicurante? Dove va la libertà femminile? Dove è il tuo godimento? Ciò che fai non diventa in qualche modo un rafforzamento del patriarcato? Stai ai limiti che ti vengono imposti o li forzi?»
Per Luciana districare i nodi del nostro vissuto significa liberare soggettività femminile e mostrare altre possibilità di leggere il mondo. In questo impegno di creare simbolico femminile inventava pratiche in cui far circolare in abbondanza la valorizzazione di ciascuna e far nascere scoperte impreviste, rendendo vive le pratiche politiche del femminismo.
Uno dei doni racchiusi nel mio scrigno segreto è lo stupore che provo di fronte alla bellezza e alla grazia che mi vengono incontro nel presente, nel qui e ora. La “meraviglia” che genera gratitudine e fiducia, dando origine a potenti alchimie relazionali.
Così è nato il mio desiderio di affidarmi a lei per un pezzo di strada.
Con Luciana ho sperimentato la “pratica di scrittura relazionale generativa”, come lei la nomina, una pratica in cui una donna elabora il suo scritto in una relazione duale con un’altra a cui riconosce autorità che l’aiuta a chiarire il suo pensiero e dargli forma. «Una relazione simile a quella della partoriente e della levatrice, che permette di dare alla luce qualcosa di nuovo per entrambe». Una pratica che non crea dipendenza ma crescita e libertà.
Tra noi due ci sono stati incontri, anche virtuali, mail, lunghe telefonate, in un confronto serrato sui miei testi da lei discussi e rivisti più e più volte e da me riscritti più e più volte, e un coinvolgimento in azioni pubbliche su temi politici condivisi, per esempio l’abolizione della prostituzione, raccontata dalle sopravvissute al mercato del sesso, come stupro a pagamento.
Le sue parole, i suoi pensieri mi hanno aperto spazi inediti, mi hanno dato fiducia. Con lei ho imparato che è importante andare oltre il linguaggio ideologico, che può essere anche femminista, cercando parole più chiare per dire ciò che illumina la mia esperienza; ho approfondito il valore simbolico del linguaggio e l’effetto liberante che possono avere le parole quando riesco a esprimere pubblicamente la mia verità.
Per tutto questo desidero ringraziarla.
Cara Luciana, mi hai aiutato a ritrovare le parole in lingua materna, che volano alto restando ancorate all’esperienza concreta. Sono ammirata dalla tua generosità, dall’efficacia del tuo fare che realizza idee e progetti, trovando però sempre il tempo e il modo per far crescere le relazioni. Più passa il tempo e più la nostra amicizia mi appare come un dono prezioso.
Da la Repubblica
Ha molte forme, può essere fisica, sessuale, psicologica, economica.
È trasversale ai territori, alle classi sociali, alle nazionalità e alle età. È la violenza con cui l’uomo esercita la volontà di possesso e di prevaricazione sulla donna. E non dipende solo dagli uomini che la praticano, ma anche dal contesto economico e sociale che la perpetua motu proprio da lungo tempo, durante il quale il dominio maschile si è articolato e stratificato e la discriminazione femminile non è stata sradicata. Il contesto socio-economico è rappresentato, innanzitutto, dal lavoro. La situazione di metà delle donne del nostro Paese che è senza lavoro (la peggiore in Europa) è grave. Perché significa che metà delle donne non è autonoma, non è indipendente economicamente.
E ciò rappresenta un vulnus, non solo perché è messo in discussione il diritto a un lavoro dignitoso, ma perché le donne, così, sono oggettivamente limitate nelle loro libertà. Provate a mettervi nei panni di queste donne che non lavorano. In molti casi sono obbligate a chiedere denaro al proprio partner, anche per il minimo indispensabile, non possono scegliere autonomamente come spenderlo, sono tenute sotto controllo o comunque devono giustificare, in una perenne condizione di subordinazione e dipendenza. Ciò crea un humus culturale in cui il controllo maschile sulle donne è di fatto legittimato e risulta assolutamente facilitato. E, se protratto nel tempo, cristallizza ruoli asimmetrici che favoriscono lo sviluppo di violenza nella coppia, o perlomeno l’enorme difficoltà delle donne a sottrarvisi.
La vulnerabilità socio-economica non solo espone maggiormente le donne al rischio di violenza domestica, ma ne limita anche la possibilità di allontanarsi e di rompere una storia tossica. È già difficile per una donna che dispone di reddito fare il passo di denunciare il partner violento, oppure di rivolgersi a un centro antiviolenza o a chiunque altro per chiedere aiuto. Solo il 15% delle vittime di femminicidio ha denunciato. La dipendenza economica può trasformarsi in un ostacolo insormontabile alla rottura di una relazione con un partner violento. Come ci si mantiene dopo averlo lasciato? Certo esiste un contributo economico da parte dello Stato ma l’importo è talmente basso che difficilmente può rappresentare una copertura adeguata.
La violenza contro le donne non si combatte solo con provvedimenti specifici sulla violenza. Una volta per tutte in questo Paese bisogna adottare una strategia globale che metta al centro le donne. Lo sviluppo della loro indipendenza economica, l’eliminazione dei gap e delle discriminazioni. Possibile che non si promuovano politiche per abbattere gli ostacoli alla valorizzazione delle risorse femminili, come recita l’articolo 3 della Costituzione? Possibile che si vada alla ricerca di diversivi sugli immigrati, come responsabili di violenze, e non si vedano le gravi emergenze sociali ed economiche che riguardano le donne e che determinano ruoli asimmetrici nel Paese? Abbiamo bisogno di una strategia globale per un lavoro dignitoso e di qualità per le donne, per una formazione non stereotipata, per lo sviluppo di servizi di cura e congedi parentali e di paternità adeguati, per l’abbattimento della cultura del possesso del corpo e dell’anima delle donne.
I piccoli passi e le mezze misure sono pannicelli caldi che mantengono immutata la condizione di diseguaglianza delle cittadine del nostro Paese e creano le condizioni dell’esercizio della violenza. Mai come oggi appare evidente come tale condizione sia non solo anacronistica, ma il principale ostacolo al pieno dispiegamento delle risorse umane e creative che blocca lo sviluppo
economico del Paese. Giochiamo una partita economica globale con le mani legate dietro la schiena, non potendo avvalerci appieno del fondamentale apporto femminile. C’è bisogno di un contrattacco da parte delle donne. Solo la forza e l’unità delle donne, la sorellanza, possono innescare il cambiamento epocale di cui c’è bisogno.