Sono soldi i soldi?
Anna Maria Piussi
23 Dicembre 2024
Ho partecipato da remoto all’incontro di VD3 Sono soldi i soldi? ma non sono intervenuta, sia perché troppi pensieri e ricordi si affastellavano nella mia mente in modo disordinato, sia perché il confronto, molto ricco, portava in diverse direzioni, non sempre facilmente riconoscibili e conciliabili. O forse avevo semplicemente bisogno di pensarci su.
E ci ho pensato, lasciando affiorare gli interventi che più mi avevano colpito. Molte delle donne intervenute, la maggior parte direi, ha collegato la propria attuale posizione rispetto al denaro all’ethos di famiglia, riconoscendo – direttamente o non – una sorta di genealogia di atteggiamenti e scelte. E più di una ha menzionato le condizioni economiche difficili della propria famiglia, un retroterra di sacrifici, vissuto con un disagio non solo materiale ma anche simbolico, quasi all’insegna della vergogna, che in molti casi peraltro è stato di stimolo all’emancipazione personale.
Io, al contrario, vengo da una famiglia dell’alta borghesia padovana. Ho avuto il classico padre-padrone, dominante su moglie e figli, che ha imposto una morale famigliare e sociale sulla misura dei soldi, fino ai titoli nobiliari. Come è stato detto nell’incontro, il denaro non solo come mezzo materiale di scambio, ma anche come codice simbolico. Fin da piccola ho respirato questa morale di dar valore a persone, amicizie, eventi, scelte di vita, in base alla capacità economica: i soldi come misura di tutto. Ho vissuto anche l’assurdità della dipendenza di mia madre – che pur proveniva da una famiglia facoltosa – da lui e dalla sua scarsa generosità (per non dire avarizia) nel privato del ménage familiare, mentre in tutto ciò che entrava nello scambio sociale visibile si poteva (si doveva?) esibire la nostra posizione economica previlegiata. Classico esempio di scissione tra privato e pubblico. Nella mia famiglia la cultura contava niente, o quel poco che mia madre riusciva a far circolare e trasmettere a noi figli.
Nell’adolescenza ho cominciato a riconoscere il mio disagio di fronte a questa doppia morale, come di fronte alla dipendenza economica, per nulla giustificata, di mia madre dal volere paterno. E ho maturato un forte desiderio di indipendenza oltre a costruirmi gradualmente una mia visione del mondo. Sono diventata una comunista (più tardi vicepresidente dell’Istituto Gramsci Veneto), ingenua, ma ostinata a tener testa a mio padre nelle pochissime occasioni in cui si parlava di politica in casa. E quando terminato il ciclo liceale con la maturità, mio padre decise che per me la continuazione degli studi era fuori gioco, tanto potevo aspettare il matrimonio, ho combattuto per fare l’università, con il sostegno seppur debole di mia madre. Avevo in mente l’indipendenza economica, il potermi creare una strada tutta mia, ma anche risuonava in me come un’attrazione l’esempio del mio bisnonno materno, uno scienziato – entomologo di fama – alcune scoperte del quale avevo studiato nei manuali del liceo. La cultura per me era un bene necessario, non sostituibile con succedanei quali il benessere economico e la rete delle amicizie che contavano agli occhi di mio padre. E quando ho portato a casa in dono ai miei il mio primo libro, pubblicato all’età di ventisei anni, quasi come ringraziamento per quanto avevo ricevuto da loro, credo avrebbero preferito la presentazione di un fidanzato benestante.
Ho avuto la fortuna (non senza qualche fatica e sacrificio) di entrare presto, appena laureata, all’università e il lavoro di docente universitaria, svolto fino alla pensione, mi ha dato oltre all’indipendenza economica molte soddisfazioni, la gioia di rapporti significativi con studenti e colleghe/i, molti scambi e viaggi all’estero, lotte e impegni condivisi per trasformare l’università, fino a incontrare le donne con cui sarebbe nata la comunità filosofica Diotima. In Diotima non abbiamo mai parlato di soldi, non perché fosse un tabù, ma perché di soldi non c’era e non c’è tuttora bisogno, essendo una comunità, eterogenea per età e provenienza sociale, che trova ospitalità (finora gratuita) nelle aule universitarie per gli incontri periodici e il grande seminario annuale. È stata una scelta politica fin dall’inizio.
Sono vissuta del mio stipendio fino alla morte dei miei genitori. Allora ho ereditato. Ma ho anche subito ceduto una parte dell’eredità al mio primogenito, sia per alleggerire il mio carico economico che sentivo eccessivo, fuori misura, sia per aiutarlo a costruirsi la sua strada.
Quando nell’incontro ho sentito alcune intervenute (poche per la verità) parlare di un sentimento di vergogna per le proprie umili origini, è affiorato alla mia coscienza un sentimento simile, ma in forma capovolta: ora so di aver sofferto una sorta di disagio, se non di vergogna, per la ricchezza di cui disponevo. Sono sempre stata sensibile alle disparità/disuguaglianze sociali e cercato forme, per lo più ingenue ma poi sempre più politiche nell’ambito della sinistra, per combatterle. Continuo a farlo, non più nell’area della sinistra ma ormai da molto tempo nell’orizzonte politico delle donne e della differenza sessuale. Ma non è facile, come è stato sottolineato più volte.
Alla domanda rilanciata da Laura Colombo, «come guardare al denaro in modo libero e creativo?», risponderei dicendo che conosco il valore del denaro, credo di saperlo amministrare bene, senza (eccessiva) subalternità a istituti finanziari con cui mio malgrado ho rapporti, ma lo ritengo un semplice mezzo per la vita propria e altrui, compresa la vita dell’ambiente e del pianeta, cosa che sempre più mi sta a cuore. Mi sottraggo al consumismo nelle sue varie forme, sono attenta agli sprechi (e sostengo e pratico come posso l’economia circolare) e personalmente non amo fare shopping. Gli unici beni eccedenti i bisogni della vita quotidiana a cui non rinuncio sono i libri, e tutto ciò che mi nutre l’anima e mi fa star bene come spettacoli teatrali, mostre, concerti, cene con le amiche, ecc. E ricorro a cure private a pagamento quando proprio è indispensabile, non smettendo di denunciare il disfacimento del Servizio Sanitario Nazionale e di sostenere in vari modi le giuste richieste delle sue operatrici e dei suoi operatori, il cui lavoro, come ha ricordato Buttarelli, è inestimabile e andrebbe pagato più di quello dei manager.
Da anni ho una pratica, che chiamerei pratica del dono. Non certo in senso filantropico, bensì relazionale e politico. Ho la propensione a soddisfare con i miei soldi desideri di giovani amiche, anche se non sempre li condivido ma so che per loro sono importanti. Forse in qualche modo ammiro il loro stare sopra le righe quando coltivano un desiderio che sanno di non poter esaudire per mancanza di soldi, ma a cui tengono. E per me è una gioia vedere la loro gioia, scambiare con loro tempo, passioni, relazioni. Anche se non sempre accade quella dinamica propria dell’economia del dono, che è il dare, ricevere, ricambiare (v. Giannina Longobardi, Sono soldi i soldi? In Aa.Vv., La Rivoluzione inattesa, 1997), e la relazione con l’altra non prende (o non mantiene) la piega che mi aspettavo e in alcuni (rari) casi si dissolve.
Nell’economia del dono mediato dal denaro stanno anche le mie pratiche di sostegno finanziario ad associazioni, imprese sociali e cooperative, di volontariato, che da anni seguo per il loro impegno politico di cambiamento dell’esistente in vari e diversi ambiti. Le scelgo (e le seguo) accuratamente, escludendo quelle che si ispirano alla filantropia, all’assistenzialismo, all’opportunismo, restando subalterne all’economia neoliberista anzi confermandola.
Mi sono esposta finanziariamente anche in modo importante per sostenere alcune imprese femminili cultural-politiche di cui ho condiviso finalità e senso, avendo fiducia nelle relazioni con le donne che le promuovevano, perché sentivo che il mio previlegio economico poteva contribuire a mettere in moto cambiamenti significativi, a tagliare l’ordine esistente aprendo altre prospettive di rapporti umani e sociali, di formae mentis, di circolazione non individualistica ma comunitaria di beni. Senza sicurezza del loro esito, dunque una scommessa politica.
Il nostro mondo attuale è dominato sempre più dal denaro come forma diretta e “sublimata” del potere, anche politico, e il denaro detta ormai le regole della convivenza. Penso a Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, che si appresta a governare con – o al posto di – Trump la cosiddetta maggior democrazia del mondo, e condiziona con i suoi innumerevoli satelliti e invenzioni tecnologiche le sorti di interi popoli in guerra. Penso alla mole di denaro investita in armamenti sempre più sofisticati e costosi. E penso alla compravendita di beni essenziali come l’acqua e l’aria pulite, ormai ridotte a merci investite in borsa, o al mercato di corpi umani o di parte di essi, messi sul mercato come prodotti qualsiasi, alle agenzie internazionali che si arricchiscono per esempio con la gestazione per altri, sfruttando a senso unico l’integrità umana, senza la quale alla convivenza non resta che il baratro della disumanità.
E penso agli enormi interessi economici che muovono multinazionali, banche, assicurazioni alla ricerca/accaparramento di materie prime, depredando soprattutto paesi poveri, e al loro sostegno finanziario dell’agro-business che devasta foreste e aumenta la distruzione della vita sul pianeta: sostegno finanziario a cui non è certo estranea la politica dell’UE. E i soldi per i soldi (l’accumulazione di denaro per sé come imprenditori e per i propri azionisti), con l’impresa che si occupa di comprare e vendere capitale e molto meno di produrre beni, sembrano diventare il criterio primo dell’imprenditoria di un paese, e non solo in Italia, a scapito degli investimenti industriali utili alla crescita economica del paese e al benessere di tutti e nel calcolato disinteresse per la sorte dei lavoratori. Un fenomeno questo ormai riconoscibile, ma il cui carattere sistemico viene ignorato anche da una parte della sinistra, poco efficace nel prendere le distanze dal capitalismo neoliberista e individualista. E uno degli effetti è la povertà dilagante, oltre alla disoccupazione delle giovani generazioni, delle loro vite allo sbaraglio o in fuga verso paesi più promettenti. Come quella del mio secondogenito e della sua compagna, espatriati in Belgio da anni (dove sono riusciti a guadagnarsi da vivere e hanno messo al mondo il loro primo figlio) a scapito delle relazioni amicali e famigliari, di consuetudini e passioni lasciate non senza sofferenza in Italia.
Sono solo gli esempi più vistosi di un capitalismo in veste nuova, a cui forse tendiamo ad assuefarci per un senso di impotenza o rassegnazione. E questo è il pericolo più grande.
Guardiamo allora alle innumerevoli iniziative “dal basso” (così si diceva una volta), che volano alto grazie alla energia desiderante delle soggettività in gioco e alla forza delle relazioni. Alcune sono state ricordate nelle parole delle intervenute, altre hanno evocato la pratica del conflitto tra economia del desiderio ed economia del profitto, dalle case, alle città, all’intero mondo. Più donne che uomini ne sono le autrici, sanno far tesoro della propria esperienza e della propria storia, non temono di relazionarsi con persone di altri mondi, amano e proteggono la vita rigenerandola. Penso al moltiplicarsi degli orti urbani e comunitari, dove si generano cibo buono e buone relazioni, penso ai luoghi di incontro, piccoli e grandi, in cui si fa insieme cultura e politica attraverso poesia, musica, arte, teatro. Penso alle battaglie per università e scuole a misura di desideri e bisogni di chi le frequenta, e biblioteche di quartiere che riprendono vita e fanno comunità. E vediamo generazioni diverse che si confrontano e si alleano, corpi e menti: dai ragazzi e ragazze di Ultima generazione, Extinction Rebellion eccetera, alle donne che hanno dato vita a livello globale a gruppi di attiviste per il clima e per arginare le destre dilaganti, fino alle nonne dell’associazione Senior Women for Climate Protection, che senza paura hanno denunciato il governo svizzero alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo per le insufficienti politiche di protezione dell’ambiente e della vita. Sono solo alcuni esempi, ma significativi di quanto la presa di coscienza a partire da sé e in relazione con altre, altri, possa generare trasformazioni passando dall’immaginazione all’azione, da un sé solitario e impotente al muoversi insieme, corpo, mente e desiderio, verso un altro oggi e un domani differente.