Sono libero se mi sento libero
Marco Cazzaniga
16 Dicembre 2020
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Libertà in tempo di pandemia, 13 dicembre 2020
Quando Vita Cosentino, che ringrazio per la fiducia, mi ha chiesto se ero disponibile per un intervento introduttivo a questo incontro di Via Dogana, ho provato sgomento al pensiero di dover parlare di libertà; mi è venuto in aiuto il titolo dell’incontro “libertà in tempo di pandemia”. Ecco, quello che cercherò di dire sulla libertà deriva innanzitutto da come ho vissuto le limitazioni imposte dalla pandemia e poi dalle riflessioni che ne sono scaturite.
È un po’ deludente ammettere che ci voleva questa pandemia per fare emergere consapevolezze solitamente tenute in ombra.
Il virus Covid 19 ha inferto un duro colpo alla nostra presunzione, sbattendoci in faccia i limiti della nostra condizione umana e creando una situazione in cui ci è stata imposta una serie di limitazioni pesanti da accettare.
Penso alle reazioni, alcune scomposte, di chi ha vissuto queste giornate come violazione della propria libertà, addirittura come dittatura sanitaria. Dopo tutto, la pandemia ci ha portato a riconoscere quella che è la condizione naturale, normale, quotidiana di tutti noi esseri umani: quella di essere limitati, fragili, vulnerabili. Ho comunque l’impressione che di fronte a questo stato di limite c’è una particolare insofferenza maschile.
La pandemia ha anche evidenziato che siamo tutti/e interdipendenti, sia nel danneggiarci sia nell’aiutarci. Io posso continuare a vivere, anche se recluso in casa, perché ci sono tanti uomini e tante donne che me lo consentono continuando a fare il loro lavoro; ma c’è pure quell’interrelazione per cui uomini e donne possono diventare pericolosi per un possibile contagio, e se qualcuno/a si infetta e si ammala, prima o poi potrebbe capitare anche a me di ammalarmi per causa sua. Insomma gli/le altri/e possono essere sia fonte di limitazioni sia possibilità di superamento dei limiti.
Queste consapevolezze provocano immediatamente una riflessione sulla libertà e sul suo esercizio. In che misura le limitazioni e le interrelazioni sono un ostacolo, un impedimento della libertà?
Se penso alla libertà assoluta, come vaneggiano alcuni, i limiti mi dicono che essa non esiste; se penso che posso liberarmi dai limiti da me solo, facendo appello a un titanico volontarismo, rischio di finire nella disperazione. Un altro modo di pensare è quello di riconoscere di avere bisogno di altri e di altre perché mi possono aiutare, che questo aiuto può avvenire anche se non me ne accorgo. Si tratta però di prenderne coscienza e di provare gratitudine; il passo ulteriore è che, umilmente, conscio dei miei limiti, sia io a prendere l’iniziativa di chiedere aiuto ad altri e altre. È grazie al loro aiuto se conquisto spazi di libertà che prima non avevo.
La libertà è garantita e ampliata dal fatto che ci siano donne e uomini che scelgono di occuparsi delle e degli altri.
La cultura individualistica, ormai tanto diffusa, induce a considerare gli altri/e come un limite alla propria libertà. Ne è una traccia la convinzione che la mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro/a. Per me non è così. Io penso invece che la mia libertà inizia dove inizia quella dell’altro/a. Cerco di spiegarmi.
Se io tollero l’esistenza di condizioni di vita in cui un altro/a non può essere libero/a, accetto di fatto che in quelle condizioni, fino a quando continueranno ad esistere, potrei trovarmi anch’io. Questo significa in pratica accettare di poter non essere libero.
In un mondo in cui milioni di esseri umani vivono nella mancanza di diritti fondamentali, non posso sentirmi libero perché al momento io non vivo quella situazione. E solo se mi capitasse di viverla capirei di non essere libero? Io, noi, siamo dei privilegiati. Essere dei privilegiati non è condizione di libertà, va piuttosto inteso come una precarietà favorevole, che una giusta ribellione degli svantaggiati e degli esclusi potrebbe farci perdere collocandoci in una situazione di minore libertà.
(Per inciso, con riferimento alla pandemia: se accetto che il vaccino non venga garantito a tutti, perché dovrebbe essere garantito a me? Solo se tutti sono liberi di accedere, anch’io ho la garanzia di essere libero di poterlo avere).
Non posso sentirmi libero se non c’è garanzia di libertà per tutti.
Un’altra riflessione. Le mie incapacità e insufficienze (comprese quelle temporanee che provengono da una malattia, da un contagio), fino a quando rimangono e non riesco a superarle, sono una limitazione della mia libertà, non so e non posso fare cose che altri sanno e possono fare. Posso però arrivare là dove, se fossi libero da quelle incapacità, vorrei arrivare, se incontro nell’altro/a chi mi aiuta a venirne fuori. Davvero inizia la mia libertà se l’altro/a sceglie con la sua libertà di venirmi incontro.
Lo stesso discorso vale nel caso di un’incapacità a vivere ed esprimere più pienamente la mia umanità, magari perché impedito da egoismo e individualismo, poco sensibile alla solidarietà. L‘incontro con qualcuno, più sovente è con qualcuna, che mi fa dono della sua attenzione, della sua sensibilità e generosità, può portarmi a sciogliere quei nodi e quei condizionamenti che mi rendono un po’ chiuso agli altri/e.
C’è un aspetto del tema libertà sul quale mi soffermo perché l’ho vissuto come esperienza proprio in questo tempo di pandemia: la mia libertà può fare esistere la tua, se so autolimitare la mia.
Io non ho vissuto il lockdown come un attentato alla libertà, ma come una limitazione accettata consapevolmente, quindi un’autolimitazione, per garantire il diritto alla salute e alla vita, oltre che a me, anche agli altri/e. È un’ulteriore conferma della nostra natura relazionale, di quanto dipendiamo gli uni dagli altri sia per farci del bene sia per farci del male. Anche fare del male è espressione di libertà, ma la si potrebbe limitare col pensiero che l’altro/a a sua volta potrebbe usare la sua libertà per fare del male a me.
Ritengo, dunque, che a volte l’autolimitazione è necessaria, se non vogliamo danneggiare nessuno, prima di tutti noi stessi.
Però la convinzione che, in questo tempo di pandemia, la libertà (ad es. di non essere infettati) sarebbe più garantita grazie a un’autolimitazione che ognuno sa fare della sua, non è convinzione sufficiente per vivere relazioni rispettose della reciproca libertà. Perché è una convinzione che si regge su principi quali la dignità, il valore di ogni essere umano, il riconoscimento reciproco dei diritti, tutte cose per altro affermate in dichiarazioni universali e in costituzione, che solo l’illusione di noi uomini può ritenere sufficienti a creare relazioni dove è riconosciuta e rispettata la libertà.
Non è così, la storia ce lo ricorda continuamente. Dobbiamo riconoscere i limiti pesanti della razionalità che alla ricerca di un ordine universale perde di vista le possibilità conoscitive dell’esperienza.
E l’esperienza dice che quella dinamica per cui fai agli altri/e quello che desideri che gli altri/e facciano a te, per attivarsi necessita che entrino in campo altre dimensioni dell’essere umano, che vanno oltre i principi e i diritti, dimensioni come quelle della compassione, dell’empatia, della tenerezza che si traducono poi nella cura, che in definitiva è un’espressione dell’amore.
Qui, però, devo anche fare i conti con le mie incapacità di uomo.
Sono più facilmente portato a fare riferimento a principi, a ricorrere a razionalizzazioni piuttosto che cimentarmi con pratiche politiche che mi renderebbero più capace di empatia. E queste pratiche politiche si apprendono proprio praticando le relazioni.
È vivendo le relazioni che imparo a praticare il principio del fare agli altri/e quello che desidero venga fatto a me, che acquisto quella sensibilità che mi fa capace di andare oltre alla razionalità.
È drammatico che ci accorgiamo della sofferenza degli altri/e quando soffriamo a nostra volta e ci aspettiamo ansiosamente che qualcuno/a si occupi di noi, ci dia attenzione e cura.
Dunque, l’esercizio della propria libertà condiziona ed è condizionato dalla libertà degli altri/e perché c’è una forte interrelazione tra tutti.
Mi sono posto l’interrogativo di come riesco a vivere le relazioni che condizionano.
Subisco con fastidio, quasi volendo scrollarmele di dosso, quelle che mi danno l’impressione di non portarmi niente ma di chiedermi invece tempo e spazio.
Accetto come dato di fatto, quasi con indifferenza, le relazioni con le persone dal cui servizio dipende la mia sopravvivenza e la possibilità di una qualità di vita, ad esempio con tutti i soggetti di mestieri e professioni che in fase di lockdown hanno continuato a lavorare (soprattutto medici e infermieri, donne e uomini naturalmente). Ha prevalso in me l’atteggiamento del dare per scontato piuttosto che una consapevole gratitudine.
Riflettendo, però, ho pensato che tutte queste relazioni, sia quelle subite sia quelle indifferenti, possono essere accolte invece come occasione di scambio di vita, di umanità. In tutte viene chiamata in gioco la mia libertà nella scelta di pensarmi più unito e solidale.
Avverto una carenza di libertà quando, pur disponibile a chi mi cerca, sono invece restio a cercare gli altri. È la cultura dell’autosufficienza (più maschile che femminile) che mi fa ritenere libero, mentre invece mi preclude l’apertura all’altro/a che amplierebbe i confini oltre i quali non c’è perdita ma guadagno.
Uno dei motivi per cui non ho sofferto particolarmente il lockdown è il fatto che più di tanto non ho patito la riduzione di relazioni; un po’ di solitudine e di isolamento non mi hanno disturbato; anche perché tendo ad essere piuttosto selettivo nelle relazioni e a soppesare tempi e spazi. C’è un’enorme differenza tra me e Adriana mia moglie. Mi accorgo di essere insofferente al tempo che lei dedica alle relazioni, vuoi con lunghe telefonate, vuoi con altrettanto lunghi colloqui in presenza. C’è in lei meno strumentalità nelle relazioni e sicuramente più cura, più amore e più libertà nel mantenerle e praticarle.
Queste riflessioni mi confermano che, quando sostengo ad esempio che la pratica delle relazioni è il modo innovativo di fare politica, di fatto sul tema relazioni ho un approccio un po’ intellettualistico, sorretto da principi e buone intenzioni, ma con scarsa pratica vitale, per cui libertà, solidarietà e cura sono forti convinzioni, ma sono poco e faticosamente praticate.
L’epidemia, con i conseguenti fenomeni economici e sociali, secondo me, ha inferto un altro colpo all’identità maschile, mostrandone una fragilità che si esprime anche con la depressione e la violenza, soprattutto verso le donne. Invece si è fatto avanti un soggetto femminile più libero, più sicuro di sé, più capace di fare fronte al disagio sociale.
Questa libertà femminile ha costretto ancora una volta noi uomini a relativizzarci rispetto alla pretesa di considerarci misura e regolamentazione di tutto, e di voler esercitare il potere per costruire un nostro ordine. Il relativizzarmi non lo vivo come una riduzione della libertà maschile, ma come possibilità per noi uomini di dare spazio ad altre dimensioni di sé.
La necessità di ridurre i contatti con l’esterno, soprattutto in regime di lockdown, mi ha posto in condizioni di dare più attenzione alla mia interiorità. Sollecitato anche da un confronto più continuo e inevitabile con Adriana, ho riflettuto più profondamente sul mio desiderio, che non è quello normalmente attribuito al maschio, ma quello che nasce dalla mia esigenza di vivere in pace con me e in armonia con gli altri/e e mi spinge verso un modo di stare al mondo in relazione con uomini e donne con libertà, in modo autonomo e non eterodiretto, consapevole della mia differenza maschile senza perdere me stesso, riuscendo a riconoscere e dialogare con la diversità dell’altro e con la differenza dell’altra.
Mi sono sentito autorizzato a introdurre il mio desiderio nella storia non dagli uomini, che anzi mi davano possibilità di essere visibile solo trovando collocazione nel loro ordine maschile, ma dalle donne che, sentendosi inadatte a quell’ordine, trovavano modi di esprimersi che creavano spazi in cui anche gli uomini, incominciando ad affacciarsi, sgretolavano le barriere del loro mondo.
Dunque posso pensarmi e progettarmi come il mio desiderio, libero da condizionamenti culturali di tipo patriarcale, mi spinge a essere.
Sono libero se mi sento libero, e mi sento libero quando posso vivere secondo il mio desiderio di pace e armonia con gli altri e le altre anche in questo tempo di pandemia e di restrizioni faticose da sopportare.