Soldi e paura mai avuti. Anche se su quest’ultima ho dei dubbi
Daniela Santoro
1 Dicembre 2024
Ho fatto molta fatica in questi giorni a raccogliere le idee e sedermi a scrivere questa relazione introduttiva, forse perché ne sottovalutavo in qualche modo la portata emotiva. Proprio qualche minuto fa, prima che mi sedessi al computer a cercare di tendere questa matassa di pensieri con Luca – il mio compagno – abbiamo passato un quarto d’ora a discutere sulle spese, quelle fatte, quelle da fare e soprattutto quelle da non fare. Stiamo cercando di comprare una casa, da circa tre mesi. Così in quest’ultimo periodo sembra che ogni nostra conversazione vortichi lì, sul dente che duole.
E a un certo punto sono di nuovo bambina e non c’è più mio padre ma ci sono io, più o meno adulta, che faccio i suoi stessi discorsi, che condivido le sue stesse ansie e mi accorgo che quello che mi ero promessa di fare nella mia vita – ovvero cercare di non dare più peso di quello che è giusto (e su questo ritornerò) ai soldi – purtroppo è stata una battaglia persa in partenza.
A casa noi soldi non ne abbiamo mai avuti troppi, a volte troppo pochi, a volte il giusto per campare, a volte poco più del giusto da mettere da parte per qualche imprevisto che si sarebbe presentato a breve. E nella loro assenza erano allo stesso tempo la cosa più presente tra le nostre quattro mura. Per mio padre era necessario ricordare, a fronte di ogni spesa, che noi, no, quella spesa non avremmo potuto/dovuto farla. Io trovavo in qualche modo surreale vivere la mia vita in funzione del denaro, o ancora peggio in funzione della sua assenza, nonostante ciò ho sempre cercato di tirar su qualcosa, quanto meno per non sentir mio padre ciarmuniare (come si dice da noi). Inevitabilmente, seppur mi fossi sempre ripromessa il contrario, attualmente vivo il denaro con la stessa ansia di mio padre. Ma se è vero che in ognuno di noi ci sono due lupi, allora è vero che dentro di me vive anche mia madre. E per mia madre i soldi potevano mancare, ma sicuramente non mancava un piatto in più a tavola, un posto in più a dormire, una pizza offerta a un’amica, un pensierino preso per strada all’improvviso. Per mia madre i soldi, anche quei pochi, sono sempre stati un mezzo, per comunicare qualcosa, per raggiungere qualcuno, per aiutare qualcun altro.
Da brava figlia ho preso il peggio di entrambi: e quando offro il pranzo a un’amica poi passo le giornate seguenti in ansia a capire se riuscirò mai a riprendermi dalla spesa.
Per quanto io abbia sempre sperato di evitarlo, sono diventata adulta e i soldi sono diventati parte integrante anche della mia vita, non solo passivamente attraverso i miei genitori, e mi sono trovata ad avere nuovi nemici – come l’Irpef, che ancora non ho capito chi è e perché si tiene tutto il mio stipendio – e nuovi amici – i prodotti in offerta al supermercato perché sono in scadenza.
Mentirei dicendo che io e il mio compagno ci troviamo effettivamente in una situazione di difficoltà economica, anzi paradossalmente rientro tra quelle poche persone che, nonostante la cristallizzazione sociale, sembra essere riuscita a fare uno scarto rispetto alla sua condizione economica di partenza. Lavoriamo entrambi e non ci manca assolutamente nulla, d’altronde siamo anche riusciti a mettere da parte qualcosa per smettere di svenarci con un affitto. Forse però questo ci è costato un po’ più del previsto, o quanto meno mi è costato. Ho sempre sentito che più soldi sembrano essere uguali a più libertà, io piuttosto li vivo sempre di più come una schiavitù. Lavoro più di quaranta ore a settimana e guadagno lo stesso stipendio (se non di più) con cui mio padre campava una famiglia di cinque persone, eppure allo stesso tempo mi sembra di dover continuare a fare la spesa con la calcolatrice. Ogni sforzo che faccio mi sembra inutile, e questi mesi in cui stiamo cercando di comprare casa hanno cristallizzato in me questo pensiero. Non solo, per me il lavoro stesso è diventata una forma in qualche modo di isolamento: sono troppo stanca per uscire, per gli aperitivi, per le feste di compleanno, per i regali, per i matrimoni. È come se anche quelli rientrassero nel ciclo di sfruttamento in cui mi sento intrappolata. Così, preferisco togliermi qualche sfizio personale, più costoso, piuttosto che spendere trenta euro per passare una serata con un’amica. E a volte mi chiedo se sia solo una questione economica, la scelta di quanto ho io da investire e in cosa voglio investirlo, quando il lavoro è tanto e il tempo è poco. Quando neppure la gratificazione del bonifico in favore di sembra risollevarmi dal pensiero che la banca mi potrebbe rifiutare la richiesta di mutuo, l’unica cosa che sembra utile fare è fare qualcosa per se stessi. Fino a oggi non mi sono mai chiesta perché? da quando tutto quello che faccio deve essere una transazione in mio favore?, probabilmente perché non sono l’unica a farlo. È questa la nostra nuova normalità, la nostra nuova schiavitù – e anche chi come me ha sempre cercato e cerca ogni giorno attraverso la pratica politica di allontanarsi dall’individualismo ne viene risucchiata al prezzo di un nuovo telefono a discapito di un passaggio a casa a un amico in difficoltà. Ma sono solo i soldi?
La mia libertà, la mia ricerca di collaborazione, la mia voglia di investire tempo – e perché no, anche denaro – nelle relazioni è come se fosse inversamente proporzionale ai soldi che entrano a fine mese nel mio conto in banca. Quando facevamo fatica a fare la spesa, perché io non lavoravo o al massimo facevo qualche collaborazione in università e Luca guadagnava nemmeno duecento euro a settimana facendo il rider, sembrava tutto più semplice. Era più semplice spendersi per gli altri, era più semplice investire tutto se stesso in una cosa a prescindere dal tornaconto. Adesso invece mi trovo a fare dei pensieri che entrano in contraddizione con tutto quello che sono, o almeno che credo di essere: cosa farebbero gli altri per me? Cosa spenderebbero gli altri per me? E mi chiedo se tutto questo sia realmente io o se tutto questo sia il famoso giusto prezzo del denaro che mio padre mi ha sempre detto che avrei dovuto imparare.
La verità è che le relazioni hanno un prezzo, e non solo materiale. E ogni giorno facciamo i conti con quanto siamo disposti a spendere, quanto siamo disposti a spenderci soprattutto. E da un lato per me, a questo punto, il denaro è una forma di assoluzione, perché a volte è più semplice metterlo in mezzo come veicolo della nostra reticenza. È una risposta concreta a problemi metafisici, su cui non vogliamo soffermarci troppo; è uno scudo invalicabile, a proteggere il capitale umano che altrimenti ci troveremmo a investire. Questo perché le relazioni a volte ci mettono di fronte a delle scelte che non vogliamo prendere e delle domande che non vogliamo farci: quanto vale il mio tempo, quanto valgo io, quanto valgono le mie energie? Così le relazioni si trasformano in transazioni, l’ennesimo estratto conto della nostra giornata. Siamo stanchi, stufi e svalutati, da noi stessi, dal nostro lavoro, dalla società, dai nostri amici – che sono stanchi, stufi e svalutati come noi. Siamo individualisti perché siamo soli, ogni giorno, a capire qual è il peso giusto da dare a noi stessi in una società che ci rende sempre più simili al peso che ha il nostro stipendio ora che le Goleador non costano più dieci centesimi a pacchetto. Forse, però, dovrei imparare da mia madre, che non si è mai chiesta «a me cosa rientra?» nell’aggiungere cento grammi di pasta in più solo per vedere sorridere un’amica, certo è che alla fine dei conti, mentre scrivevo questa frase, una domanda mi assale: me lo posso realmente permettere?
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Sono soldi i soldi?, 1 dicembre 2024