“Siamo tutti parte del problema” il maschilismo interiorizzato secondo Edoardo Leo
Natascia Alibani
6 Novembre 2024
Da Roba da Donne
L’attore, in una lunga intervista a Vanity Fair, parla del suo ultimo lavoro, una rivisitazione dell’Otello che non empatizza con il protagonista. «Avrei fatto un’operazione antistorica se avessi permesso al pubblico di provare compassione per il carnefice».
Oltre a essere uno degli attori più brillanti della scena cinematografica italiana, Edoardo Leo è anche un uomo intenzionato ad abbattere i dogmi del maschilismo tossico e del patriarcato, come dimostra l’impegno nel sindacato Unita, che chiede condizioni eque per i lavoratori dello spettacolo, nel direttivo diUna Nessuna Centomila, fondazione nata per parlare e sensibilizzare sulla violenza di genere che vede tra i propri membri volti noti della musica, dello spettacolo e del grande schermo italiano, ma anche alcuni lavori di cui è stato regista; come il più recente, Non sono quello che sono, una rilettura in chiave contemporanea e non “machista” dell’Otello di Shakespeare che, finalmente, non romanticizza la gelosia ossessiva del “moro”.
In quel film, nelle sale dal prossimo 14 novembre, Leo interpreta Jago, l’“amico” che stuzzica la gelosia in Otello, in un’idea che gli è venuta, racconta in un’intervista per Vanity Fair, con «un titolo di giornale: “Uomo uccide la moglie e poi si suicida”. Ho pensato: è la storia di Otello».
L’idea, spiega l’attore romano al giornale, in realtà gli è venuta in mente anni fa: «Quel titolo risale al 2006 o al 2007. Volevo che Non sono quello che sono fosse il mio esordio alla regia, ma allora non me l’avrebbe prodotto nessuno: io non ero nessuno, il cinema puntava sulle commedie e i femminicidi non occupavano le prime pagine dei quotidiani. Ho cominciato comunque a scrivere la sceneggiatura nei ritagli di tempo. Ho letto parecchie traduzioni e visto tutti i film possibili sull’Otello, musical indiani compresi».
Pur restando fedele all’originale, ha tolto dalla figura di Otello quell’aura di commiserazione che ha portato per anni a empatizzare con lui, il femminicida; un’operazione che ancora troppo spesso avviene nei casi di cronaca, complice anche la pessima narrazione giornalistica dei fatti. «Avrei fatto un’operazione antistorica se avessi permesso al pubblico di provare compassione per il carnefice – dichiara Leo – Ho tagliato di netto il famoso monologo dell’addio alla vita del protagonista, cavallo di battaglia di tanti primi attori del ’900. Per questo verrò bannato da qualche circoletto di Shakespeare? Va bene così».
Sulla fase di preparazione del film Edoardo Leo ammette: «ha acceso una luce sul mio maschilismo inconsapevole, sui comportamenti patriarcali che qualche volta non ho riconosciuto o tenuto a bada […]. Ho realizzato di non essermi mai indignato guardando il pugilato, sport nobilissimo dove a un certo punto però una ragazza in costume sui tacchi sfila con il cartellone del round e gli spettatori la insultano per divertimento. Quando è uscito il film Mia, ho intimato a mia figlia di 14 anni: “Non permettere a nessuno di dirti come truccarti, come vestirti, a che ora uscire. Nemmeno a me”, e mi sono pure sentito figo. Non mi ha sfiorato invece il pensiero di chiedere a mio figlio, oggi diciottenne, se è mai stato ossessivo, morboso, possessivo. L’altro giorno, davanti a una partita di calcio in tv, mi sono rivolto a un giocatore con un’espressione infelice: “Ma fai il maschio!”. Siamo tutti parte del problema». La soluzione, per lui, per arginare il maschilismo interiorizzato che ci vede tutti come vittime, è «fermarci: per riflettere su quello che diciamo e facciamo, per metterci in discussione. E, per quanto mi riguarda, spingere di più sul potere dell’arte».
«Ci sono femminicidi che scuotono l’opinione pubblica più di altri – aggiunge – Quando è stata uccisa Giulia Cecchettin ero in tournée a teatro e tutti parlavano della sua storia. Ho deciso di cambiare metà dello spettacolo: ho cominciato a leggere alcuni passaggi del monologo di Franca Rame Lo stupro e le domande agghiaccianti che nelle aule di tribunale vengono rivolte alle donne vittime di violenza sessuale. Prendendo poi le parole di Elena Cecchettin, «Non fate un minuto di silenzio per mia sorella, fate un minuto di rumore», ho chiesto agli uomini presenti in sala di alzarsi in piedi e alle donne di fare un baccano infernale.
Dal palco io guardavo quegli uomini: qualcuno è rimasto seduto, molti avevano il terrore dipinto in faccia, altrettanti mi hanno detto che non avevano mai provato un tale imbarazzo. Sa che cosa rispondevo? “È lo stesso che avverte una ragazza quando al ristorante, vestita come pare a lei, va verso il bagno e passa davanti a un tavolo di quattro maschi: nel migliore dei casi la fissano come carne da macello, spesso le rivolgono commenti terribili”. Ecco, nella vita privata, posso fare che, se sto a quel tavolo, me ne vado; nella vita professionale, invece, devo creare occasioni di riflessione».