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Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, Non sembra, ma è una grande occasione, 4 ottobre 2020

Nel corso di questo incontro, abbiamo intenzione di affrontare i dualismi perversi della nostra società su cui la pandemia ha gettato una luce più viva, dimostrando quanto sia vitale superarli. A cosa ci riferiamo? Agli aut-aut ricattatori, come quelli che pongono le grandi opere inutili e devastanti come unico modo di rilanciare l’economia dopo il Covid, a discapito dell’ambiente. Come l’opposizione tra salvaguardia dell’occupazione e salute di chi lavora. Ma soprattutto come le false alternative tra lavoro che produce reddito e lavoro gratuito e indispensabile.

Da anni Ina Praetorius ci spiega come non possa esistere un’economia che prescinda dall’aver cura della vita, la pandemia l’ha reso lampante in questi mesi in cui le attività lavorative che si sono rivelate indispensabili sono risultate quelle più legate ai gesti quotidiani: il procurare il cibo (non metaforicamente, nel senso di guadagnare per comprarlo, ma letteralmente: produrlo, distribuirlo e consegnarlo alla gente isolata in casa), l’assistere durante la malattia eccetera. Il lavoro del personale sanitario, di commesse e commessi dei negozi di alimentari, dei fattorini per le consegne a domicilio, delle addette e degli addetti alle pulizie che sanificano gli ambienti, dei braccianti agricoli. Questo, il lavoro meno pagato, più precario e meno prestigioso, è stato quello di cui non abbiamo potuto fare a meno. Non quello degli ingegneri, dei pubblicitari e dei banchieri. Adesso, dopo il confinamento ma in un’emergenza ambientale sempre più acuta, aggiungo alla lista dei lavori di cui non si può fare a meno tutti quelli che servono a frenare il disastro ecologico, a risanare, a prendersi cura dell’ambiente.

Bisogna allora porsi il problema di come si misura (non nel senso di come si quantifica, ma di come si pensa che dia misura a noi e al mondo) il valore del lavoro. La sua misura tradizionale non è la sua utilità sociale, ma il denaro che frutta a chi lo svolge e tutt’al più il tempo di apprendimento che ha richiesto (il titolo di studio). Se l’equo riconoscimento economico non deve mancare a chi svolge compiti preziosi per la vita, l’attuale scala di redditività dei lavori non può essere considerata una valida misura della loro utilità. La definizione di “tutto il lavoro necessario per vivere”, elaborata dalle autrici del manifesto Immagina che il lavoro, indica un’altra misura: quello che è necessario per vivere, pagato e non pagato. Lo dice da anni il femminismo, ma anche gli uomini più sensibili cominciano a rendersene conto. Infatti, anche nel pensiero di alcuni movimenti si comincia a contrapporre idealmente alla società capitalistica una “società della cura”. Cioè, il punto non è più solo il conflitto tra chi produce e chi sfrutta e si appropria del prodotto, ma diventa cosa si produce e perché, e quali lavori oltre alla produzione di merce sono indispensabili all’umanità.

Durante i mesi passati, da un lato si è sviluppata nella società una consapevolezza estesa come mai prima. Dall’altro, i politici non mostrano di vedere fino in fondo l’urgenza di un cambio drastico di passo o di sapere come realizzarlo. Se da una parte sembrano aver capito che dello stato sociale e dei servizi pubblici non si può fare a meno, dall’altro non propongono altro le solite ricette mortifere per “rilanciare l’economia” e non investono nel rilancio della scuola e della sanità. E della crisi economica e delle contraddizioni del governo Confindustria sta cercando di approfittare per portare a fondo un processo di acutizzazione dello sfruttamento di chi lavora, dell’ambiente e del pianeta. Le vicende recenti del rinnovo del contratto della sanità privata e dei messaggi minatori e feroci partiti dall’assemblea nazionale di Confindustria ne sono un chiaro segno.

A livello diffuso, se da una parte c’è voglia di cambiare radicalmente le cose e una consapevolezza più alta che in passato, dall’altra c’è anche voglia di “restaurazione” del precedente regime di consumi sfrenati e di sfruttamento selvaggio. C’è un’attenzione maggiore alle altre e agli altri, un senso di comunità più forte di prima, e al tempo stesso ci sono nuove paure collettive (p.es. la “caccia al jogger” durante il confinamento).

Insomma, siamo a un bivio, ma la visibilità che hanno acquistato il lavoro invisibile e l’esistenza quotidiana rappresenta un’occasione senza precedenti per imboccare la strada giusta. Come coglierla?

Di questi temi discutiamo con Adriana Maestro, Marco Deriu e Giordana Masotto.