Ho partecipato da remoto all’incontro di VD3 Sono soldi i soldi? ma non sono intervenuta, sia perché troppi pensieri e ricordi si affastellavano nella mia mente in modo disordinato, sia perché il confronto, molto ricco, portava in diverse direzioni, non sempre facilmente riconoscibili e conciliabili. O forse avevo semplicemente bisogno di pensarci su.

E ci ho pensato, lasciando affiorare gli interventi che più mi avevano colpito. Molte delle donne intervenute, la maggior parte direi, ha collegato la propria attuale posizione rispetto al denaro all’ethos di famiglia, riconoscendo – direttamente o non – una sorta di genealogia di atteggiamenti e scelte. E più di una ha menzionato le condizioni economiche difficili della propria famiglia, un retroterra di sacrifici, vissuto con un disagio non solo materiale ma anche simbolico, quasi all’insegna della vergogna, che in molti casi peraltro è stato di stimolo all’emancipazione personale.

Io, al contrario, vengo da una famiglia dell’alta borghesia padovana. Ho avuto il classico padre-padrone, dominante su moglie e figli, che ha imposto una morale famigliare e sociale sulla misura dei soldi, fino ai titoli nobiliari. Come è stato detto nell’incontro, il denaro non solo come mezzo materiale di scambio, ma anche come codice simbolico. Fin da piccola ho respirato questa morale di dar valore a persone, amicizie, eventi, scelte di vita, in base alla capacità economica: i soldi come misura di tutto. Ho vissuto anche l’assurdità della dipendenza di mia madre – che pur proveniva da una famiglia facoltosa – da lui e dalla sua scarsa generosità (per non dire avarizia) nel privato del ménage familiare, mentre in tutto ciò che entrava nello scambio sociale visibile si poteva (si doveva?) esibire la nostra posizione economica previlegiata. Classico esempio di scissione tra privato e pubblico. Nella mia famiglia la cultura contava niente, o quel poco che mia madre riusciva a far circolare e trasmettere a noi figli. 

Nell’adolescenza ho cominciato a riconoscere il mio disagio di fronte a questa doppia morale, come di fronte alla dipendenza economica, per nulla giustificata, di mia madre dal volere paterno. E ho maturato un forte desiderio di indipendenza oltre a costruirmi gradualmente una mia visione del mondo. Sono diventata una comunista (più tardi vicepresidente dell’Istituto Gramsci Veneto), ingenua, ma ostinata a tener testa a mio padre nelle pochissime occasioni in cui si parlava di politica in casa. E quando terminato il ciclo liceale con la maturità, mio padre decise che per me la continuazione degli studi era fuori gioco, tanto potevo aspettare il matrimonio, ho combattuto per fare l’università, con il sostegno seppur debole di mia madre. Avevo in mente l’indipendenza economica, il potermi creare una strada tutta mia, ma anche risuonava in me come un’attrazione l’esempio del mio bisnonno materno, uno scienziato – entomologo di fama – alcune scoperte del quale avevo studiato nei manuali del liceo. La cultura per me era un bene necessario, non sostituibile con succedanei quali il benessere economico e la rete delle amicizie che contavano agli occhi di mio padre. E quando ho portato a casa in dono ai miei il mio primo libro, pubblicato all’età di ventisei anni, quasi come ringraziamento per quanto avevo ricevuto da loro, credo avrebbero preferito la presentazione di un fidanzato benestante. 

Ho avuto la fortuna (non senza qualche fatica e sacrificio) di entrare presto, appena laureata, all’università e il lavoro di docente universitaria, svolto fino alla pensione, mi ha dato oltre all’indipendenza economica molte soddisfazioni, la gioia di rapporti significativi con studenti e colleghe/i, molti scambi e viaggi all’estero, lotte e impegni condivisi per trasformare l’università, fino a incontrare le donne con cui sarebbe nata la comunità filosofica Diotima. In Diotima non abbiamo mai parlato di soldi, non perché fosse un tabù, ma perché di soldi non c’era e non c’è tuttora bisogno, essendo una comunità, eterogenea per età e provenienza sociale, che trova ospitalità (finora gratuita) nelle aule universitarie per gli incontri periodici e il grande seminario annuale. È stata una scelta politica fin dall’inizio.

Sono vissuta del mio stipendio fino alla morte dei miei genitori. Allora ho ereditato. Ma ho anche subito ceduto una parte dell’eredità al mio primogenito, sia per alleggerire il mio carico economico che sentivo eccessivo, fuori misura, sia per aiutarlo a costruirsi la sua strada.

Quando nell’incontro ho sentito alcune intervenute (poche per la verità) parlare di un sentimento di vergogna per le proprie umili origini, è affiorato alla mia coscienza un sentimento simile, ma in forma capovolta: ora so di aver sofferto una sorta di disagio, se non di vergogna, per la ricchezza di cui disponevo. Sono sempre stata sensibile alle disparità/disuguaglianze sociali e cercato forme, per lo più ingenue ma poi sempre più politiche nell’ambito della sinistra, per combatterle. Continuo a farlo, non più nell’area della sinistra ma ormai da molto tempo nell’orizzonte politico delle donne e della differenza sessuale. Ma non è facile, come è stato sottolineato più volte.

Alla domanda rilanciata da Laura Colombo, «come guardare al denaro in modo libero e creativo?», risponderei dicendo che conosco il valore del denaro, credo di saperlo amministrare bene, senza (eccessiva) subalternità a istituti finanziari con cui mio malgrado ho rapporti, ma lo ritengo un semplice mezzo per la vita propria e altrui, compresa la vita dell’ambiente e del pianeta, cosa che sempre più mi sta a cuore. Mi sottraggo al consumismo nelle sue varie forme, sono attenta agli sprechi (e sostengo e pratico come posso l’economia circolare) e personalmente non amo fare shopping. Gli unici beni eccedenti i bisogni della vita quotidiana a cui non rinuncio sono i libri, e tutto ciò che mi nutre l’anima e mi fa star bene come spettacoli teatrali, mostre, concerti, cene con le amiche, ecc. E ricorro a cure private a pagamento quando proprio è indispensabile, non smettendo di denunciare il disfacimento del Servizio Sanitario Nazionale e di sostenere in vari modi le giuste richieste delle sue operatrici e dei suoi operatori, il cui lavoro, come ha ricordato Buttarelli, è inestimabile e andrebbe pagato più di quello dei manager.

Da anni ho una pratica, che chiamerei pratica del dono. Non certo in senso filantropico, bensì relazionale e politico. Ho la propensione a soddisfare con i miei soldi desideri di giovani amiche, anche se non sempre li condivido ma so che per loro sono importanti. Forse in qualche modo ammiro il loro stare sopra le righe quando coltivano un desiderio che sanno di non poter esaudire per mancanza di soldi, ma a cui tengono. E per me è una gioia vedere la loro gioia, scambiare con loro tempo, passioni, relazioni. Anche se non sempre accade quella dinamica propria dell’economia del dono, che è il dare, ricevere, ricambiare (v. Giannina Longobardi, Sono soldi i soldi? In Aa.Vv., La Rivoluzione inattesa, 1997), e la relazione con l’altra non prende (o non mantiene) la piega che mi aspettavo e in alcuni (rari) casi si dissolve.

Nell’economia del dono mediato dal denaro stanno anche le mie pratiche di sostegno finanziario ad associazioni, imprese sociali e cooperative, di volontariato, che da anni seguo per il loro impegno politico di cambiamento dell’esistente in vari e diversi ambiti. Le scelgo (e le seguo) accuratamente, escludendo quelle che si ispirano alla filantropia, all’assistenzialismo, all’opportunismo, restando subalterne all’economia neoliberista anzi confermandola. 

Mi sono esposta finanziariamente anche in modo importante per sostenere alcune imprese femminili cultural-politiche di cui ho condiviso finalità e senso, avendo fiducia nelle relazioni con le donne che le promuovevano, perché sentivo che il mio previlegio economico poteva contribuire a mettere in moto cambiamenti significativi, a tagliare l’ordine esistente aprendo altre prospettive di rapporti umani e sociali, di formae mentis, di circolazione non individualistica ma comunitaria di beni. Senza sicurezza del loro esito, dunque una scommessa politica.

Il nostro mondo attuale è dominato sempre più dal denaro come forma diretta e “sublimata” del potere, anche politico, e il denaro detta ormai le regole della convivenza. Penso a Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, che si appresta a governare con – o al posto di – Trump la cosiddetta maggior democrazia del mondo, e condiziona con i suoi innumerevoli satelliti e invenzioni tecnologiche le sorti di interi popoli in guerra. Penso alla mole di denaro investita in armamenti sempre più sofisticati e costosi. E penso alla compravendita di beni essenziali come l’acqua e l’aria pulite, ormai ridotte a merci investite in borsa, o al mercato di corpi umani o di parte di essi, messi sul mercato come prodotti qualsiasi, alle agenzie internazionali che si arricchiscono per esempio con la gestazione per altri, sfruttando a senso unico l’integrità umana, senza la quale alla convivenza non resta che il baratro della disumanità. 

E penso agli enormi interessi economici che muovono multinazionali, banche, assicurazioni alla ricerca/accaparramento di materie prime, depredando soprattutto paesi poveri, e al loro sostegno finanziario dell’agro-business che devasta foreste e aumenta la distruzione della vita sul pianeta: sostegno finanziario a cui non è certo estranea la politica dell’UE. E i soldi per i soldi (l’accumulazione di denaro per sé come imprenditori e per i propri azionisti), con l’impresa che si occupa di comprare e vendere capitale e molto meno di produrre beni, sembrano diventare il criterio primo dell’imprenditoria di un paese, e non solo in Italia, a scapito degli investimenti industriali utili alla crescita economica del paese e al benessere di tutti e nel calcolato disinteresse per la sorte dei lavoratori. Un fenomeno questo ormai riconoscibile, ma il cui carattere sistemico viene ignorato anche da una parte della sinistra, poco efficace nel prendere le distanze dal capitalismo neoliberista e individualista. E uno degli effetti è la povertà dilagante, oltre alla disoccupazione delle giovani generazioni, delle loro vite allo sbaraglio o in fuga verso paesi più promettenti. Come quella del mio secondogenito e della sua compagna, espatriati in Belgio da anni (dove sono riusciti a guadagnarsi da vivere e hanno messo al mondo il loro primo figlio) a scapito delle relazioni amicali e famigliari, di consuetudini e passioni lasciate non senza sofferenza in Italia.

Sono solo gli esempi più vistosi di un capitalismo in veste nuova, a cui forse tendiamo ad assuefarci per un senso di impotenza o rassegnazione. E questo è il pericolo più grande. 

Guardiamo allora alle innumerevoli iniziative “dal basso” (così si diceva una volta), che volano alto grazie alla energia desiderante delle soggettività in gioco e alla forza delle relazioni. Alcune sono state ricordate nelle parole delle intervenute, altre hanno evocato la pratica del conflitto tra economia del desiderio ed economia del profitto, dalle case, alle città, all’intero mondo. Più donne che uomini ne sono le autrici, sanno far tesoro della propria esperienza e della propria storia, non temono di relazionarsi con persone di altri mondi, amano e proteggono la vita rigenerandola. Penso al moltiplicarsi degli orti urbani e comunitari, dove si generano cibo buono e buone relazioni, penso ai luoghi di incontro, piccoli e grandi, in cui si fa insieme cultura e politica attraverso poesia, musica, arte, teatro. Penso alle battaglie per università e scuole a misura di desideri e bisogni di chi le frequenta, e biblioteche di quartiere che riprendono vita e fanno comunità. E vediamo generazioni diverse che si confrontano e si alleano, corpi e menti: dai ragazzi e ragazze di Ultima generazione, Extinction Rebellion eccetera, alle donne che hanno dato vita a livello globale a gruppi di attiviste per il clima e per arginare le destre dilaganti, fino alle nonne dell’associazione Senior Women for Climate Protection, che senza paura hanno denunciato il governo svizzero alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo per le insufficienti politiche di protezione dell’ambiente e della vita. Sono solo alcuni esempi, ma significativi di quanto la presa di coscienza a partire da sé e in relazione con altre, altri, possa generare trasformazioni passando dall’immaginazione all’azione, da un sé solitario e impotente al muoversi insieme, corpo, mente e desiderio, verso un altro oggi e un domani differente.   

Tra gli importanti contributi che hanno aperto l’incontro della redazione aperta di Via Dogana sul tema del denaro e la discussione che ne è seguita c’è una parola/un concetto lanciato da Daniela Santoro nella sua introduzione che ha trovato, non solo in me, un’eco speciale, una risonanza che connetteva istantaneamente il presente e il passato. È la parola “energia”.

Il presente evocato è l’adesso, raccontato parlando del proprio rapporto con il denaro, complesso in sé, radicato nei vissuti familiari di ognuna e rielaborato individualmente o collettivamente dentro un percorso femminista.

Oggi è quasi più difficile parlarne che in passato – il denaro è ancora molto “tabuizzato” per usare un’espressione di Ida Dominijanni – perché la questione si scontra con una situazione inedita e che molti definiscono “di caos”, cioè dove nulla sembra più funzionare.

Le disuguaglianze sono aumentate in maniera inaudita, il lavoro è cambiato e va in una direzione di impoverimento che non sembra dipendere dai comuni mortali, siamo finiti con sorpresa e sconcerto dentro una situazione di guerra, c’è difficoltà a far avanzare la consapevolezza sui rischi climatici ed ecologici che corriamo.

Chi l’avrebbe mai pensato in questi termini così radicali? Che cosa ne deriva?

Per me direi che ne deriva un umore basso, un pensiero connotato di ansia e pre-occupazione, entrambe alleate nell’immobilizzare e passivizzare. 

D’altra parte pre-occuparsi non vuol dire occuparsi.

Chi ha approfondito cosa avviene all’interno delle persone e nelle relazioni dice che l’Italia e tutto l’occidente è caduto in una tristezza/un umore depresso che si manifesta con disinteresse per la politica, un sentimento di impotenza verso l’enormità della guerra e aspettative di un potere autoritario che faccia ordine. 

È a partire da qui, da questo umore o sentimento, che ha preso il via per me il ricordo del passato e la ricerca di che cosa ci muoveva allora, così decise, così sicure. 

Parlo del periodo che sinteticamente definiamo “il ’68”, ispirato agli ideali di giustizia sociale, che ha visto germogliare e poi prorompere il femminismo. È stato per noi donne un periodo magico dove si è avviato il nostro “riposizionamento” nel mondo.

Riportare ad allora può far pensare a visioni utopistiche, non trasformative. Non è stato per nulla così. Alla rivolta del ’68 e al grande movimento delle donne sono seguite le più importanti conquiste degli ultimi cinquant’anni sul piano dei diritti essenziali: la riforma del diritto di famiglia con l’abolizione del pater familias, le possibilità di scelta nei rapporti donna-uomo (divorzio), la possibilità di una maternità consapevole e voluta (liberalizzazione degli anticoncezionali, aborto). E altre ancora tra le quali, di primaria importanza, la sanità pubblica introdotta da Tina Anselmi.

Ripenso a cosa ci muoveva allora. 

Per quella generazione c’era la giovinezza, certo, ma questa non è di per sé garanzia di un cambiamento positivo e per me auspicabile. C’era invece tanta motivazione, passione e desiderio perché venivamo da un passato buio, sessuofobico, fatto di proibizione e sottomissione. 

Oggi, a condizioni profondamente mutate, quell’energia stenta a riprodursi e mi pare che tutte/tutti soffriamo un po’ di questa assenza. 

Rinalda Carati si chiede: «Come si elabora il lutto di tutto quello che in questo mondo sta finendo perché ne sta cominciando un altro?»

Personalmente ho spesso l’impressione che viaggiamo su un piano inclinato che porta verso il basso, mentre abbiamo bisogno di trovare di nuovo direzione e orizzonte. In questo contesto penso che l’energia vada intenzionalmente alimentata perché non trova condizioni favorevoli e, spontaneamente, si produce a stento. 

C’è bisogno di esempi positivi. 

C’è bisogno di aiutarsi, dice Vita Cosentino, «l’aiuto risolve la questione dell’energia». 

Linda Marana invita a «portare l’etica dentro il lavoro», fa esempi di attività di fundraising e dell’acquisto da parte dei cittadini di un’isola a Venezia per sottrarla all’acquisto privato e alla speculazione.

C’è bisogno di lotta. 

La parola lotta oggi è un po’ desueta. Va risvegliata e rinverdita. Ovviamente intendo lotta non violenta, quella che mette in pista immaginazione e creatività, non armi e violenza. 

È lotta anche, di grande importanza simbolica e comportamentale, produrre un linguaggio del cambiamento, non stereotipato, capace di sfuggire alle semplificazioni banalizzanti e alla neutralizzazione dei due sessi. 

Quello che ci siamo dette nell’incontro e la ricerca collettiva di prospettive e di azioni concrete esemplificate nelle relazioni introduttive e nel dibattito, sono già un esempio positivo di quella che per me è una direzione e un orizzonte auspicabile. 

Sono vissuta a Venezia fino a 19 anni in una famiglia borghese professionale, dove tutti e tutte erano laureate. Nonostante una grande casa, una famiglia osservante non restrittiva, l’incertezza sociale c’era: riguardava i soldi, che erano pochi. Quindi era ovvio lavorare per mantenersi. Mi ero convinta che la mia realizzazione dipendesse dal livello culturale, più che dal patrimonio, o dal destino delle donne e degli uomini.

Ho scelto la facoltà di lettere per mantenermi (allora era facile trovare delle supplenze anche prima di laurearsi).  Stava iniziando il ’68 e la cultura era l’impegno per inventarne un’altra, in grado di contraddire gli ordini, anche affettivi. Poi ho scelto l’ultima occasione per ottenere una baby pensione e garantirmi una sopravvivenza per lavorare nell’arte contemporanea. Avevo assorbito l’dea che era importante un luogo critico, più che uno dove essere pagata per scrivere correttamente. Così mi sarei costruita una credibilità professionale, e non solo uno stipendio. 

Le prime recensioni le ho fatte per il manifesto dove il compenso, non solo per collaboratori, era una questione “politica”: chi poteva vi rinunciava e altri e altre accettavano ritardi. 

Ho privilegiato il desiderio di scrivere per essere letta, a quello di ottenere un reddito.

Ora mi accorgo che era un’adesione indifferenziata a un comportamento culturale tradizionale. Patriarcale? E qui, riconosco una difidenza, o almeno una lentezza, a progettare non tanto i luoghi dove garantire il lavoro delle donne a pieno titolo, ma quelli economici per finanziare e pagare il nostro lavoro culturale, e non solo il nostro gratuito, ineliminabile, confronto critico. 

La Libreria è un luogo di produzione senza “scopi di lucro”: un carattere specifico della ricerca intellettuale, che mi ha molto aiutato a formulare pensieri dissidenti, oggi però penso che, rispetto al perenne squilibrio tra i compensi delle donne e degli uomini, procurarci da noi i soldi per produrre, noi, le nostre iniziative culturali, sia una bella differenza. 

E anche una cosa di buon senso, visto che quando si pubblicano libri con case editrici professionali, si fanno conferenze o mostre in luoghi pubblici, in forme laterali ci viene quasi sempre chiesto di partecipare al budget! 

Forse è arrivato il momento di fare un balzo imprenditoriale, magari si sblocca il binomio oppositivo, soldi-contenuti, visto che la credibilità culturale, prodotta dalle donne è il cambiamento invocato da tutti. 

Quanti soldi sono abbastanza? È una domanda provocatoria che invita a farsi trovare allo scoperto, a rivelare l’intreccio che tiene insieme aspirazioni e condizioni materiali. L’argomento soldi è capace di stanare le contraddizioni dentro e fuori di noi per la peculiarità quasi impudente e sfacciata che lo contraddistingue, al tempo stesso si svela nella sua pretestuosità, nel suo continuo e imprescindibile evocare altro: relazioni, vicende, retaggi, storie.

Quanti soldi sono abbastanza? A questa domanda istintivamente mi viene da replicare in cerca di chiarezza: abbastanza per cosa?

Chiedere di quantificare l’avverbio abbastanza quando si parla di soldi è un po’ come cercare di stabilire quanto olio o latte ci voglia nella preparazione di un piatto quando la ricetta suggerisce “q.b.” (quanto basta); denaro e cibo non di rado occupano gli stessi spazi dell’esistenza: sopravvivenza del corpo, relazioni, affetti, dimensione sociale. L’avverbio “abbastanza” relativizza istantaneamente, mi chiama a incarnare il pensiero, cioè a dire ciò che so e a prendere le distanze dall’astrazione, dalle ipotesi che mi sono convenientemente lontane. Per me parlare di soldi è come camminare su un laghetto ghiacciato, sento gli scricchiolii, incedo con cautela mista a paura; scivolare in modo ridicolo sulla superficie dura e sprofondare nelle acque gelide sono due eventualità ugualmente probabili. All’inizio della mia vita i soldi – quelli pensati, voluti e prodotti dal pensiero maschile – sono stati una variabile dotata di una forza capace di imprimere una deviazione radicale a quello che sarebbe stato il mio futuro, quantomeno nelle sue potenzialità: il potere e la centralità riconosciuta ai soldi mi hanno imposto l’adozione e mi hanno consegnata a una extra-ordinaria vita con due madri. Proprio pochi giorni prima dell’incontro di redazione ho dovuto aprire il fascicolo della mia adozione nel quale sono contenuti documenti di ogni tipo, ricevute, traduzioni di documenti dal brasiliano1 all’italiano e viceversa, biglietti, prenotazioni, lettere; fra i vari fogli uno riesce sempre a trascinarmi a sé, si tratta di una lista di spese vive sostenute dai miei genitori adottivi e antecedenti l’adozione definitiva, cioè l’emissione del dispositivo giuridico; fra queste spese svettano cinquecentomila lire per spese di degenza ospedaliera e duecentocinquantamila lire di farmaci. Nel Brasile del 1985 l’accesso alle cure era un nodo pericolosamente economico e i soldi potevano divenire lo spartiacque fra la vita e la morte. Ero gravemente malata a causa della malnutrizione, in condizioni così precarie da essersi resa necessaria l’ospedalizzazione e la mia giovanissima madre, Angela, che allora aveva diciotto anni, non era in grado di sostenere quelle spese; un’altra donna le avrebbe coperte, una trentaquattrenne messinese di origini borghesi che lavorava, ironia della sorte, per una banca, la mia madre adottiva, Raffaella. Quelle cifre, scritte col solito ordine chiaro che contraddistingueva l’azione di mia madre Raffaella, fanno emergere ancora oggi il campo in cui le mie due madri si sono avvicendate, toccate, legate e i presupposti maschili ai quali entrambe hanno dovuto in parte subordinarsi ma ai quali si sono ribellate in un modo forse imprevisto. Da un lato un Brasile emerso dalla feroce e fallocratica dittatura militare e nel quale la più ineludibile delle fragilità – la salute – era un affare privato, dall’altro l’Italia che aveva beneficiato pochi anni prima della genialità di Tina Anselmi, madre volitiva di quel Servizio Sanitario Nazionale che ha reso quasi cosa viva il concetto di solidarietà; nel mezzo un sistema maschile che stava costringendo due donne a dare misura del valore della maternità adottando esclusivamente il parametro economico: Angela avrebbe perso, solo giuridicamente, la possibilità di dirsi (mia) madre perché priva di sostanze, Raffaella che avrebbe acquisito la possibilità di dirsi (mia) madre perché in una condizione socio-economica solida2. I soldi in questo caso, come in una buona parte delle storie di adozione internazionale, si imposero quale parametro di merito capace di tramutare la maternità in puro dato economico; questa maternità monetizzata non dice nulla di come le mie due madri si sentissero in quelle settimane di scambio e provo sempre una grande tenerezza per entrambe quando mi capita di pensarci. La reductio ad pecuniam non si impose solamente sulla maternità ma anche su di me in qualità di figlia e mi qualificò come una questione economica che andava risolta secondo parametri sui quali nessuna donna aveva potuto (o voluto) avere voce in capitolo; il dominio maschile crea strettoie e poi le chiama “ordine naturale e logico delle cose”. In un certo senso Angela e Raffaella furono protagoniste di una riproposizione ancora più grottesca (rispetto all’originale) del giudizio salomonico: quale delle due è la “vera” madre? Quella con più soldi, rispondono le carte. Eppure nessuna delle due mi stava contendendo, anzi direi che le mie due madri proprio in quei giorni strinsero un patto silenzioso di mutuo riconoscimento: in nessun momento della vita mi è stato chiesto di stabilire quale delle due fosse la mia “vera” madre: Raffaella non ha mai avuto la mira di essere “l’unica”, pur avendo dalla sua la forza della legge; Angela non si è arroccata nel fortino di quella “vera”, “l’originale”, nemmeno quando ci siamo ritrovate dopo 26 anni e pur avendo dalla sua la forza dell’avermi generata e amata ancor prima che io nascessi. 

Le mie due madri mi hanno dunque insegnato cosa significa “amore incondizionato”, che è un amore non tanto senzacondizioni quanto un amore nonostante le condizioni e che non va inteso come amore autodistruttivo e nullificante. Evito come se fosse peste il soffermarmi a pensare a quali squarci interiori entrambe abbiano vissuto nella consapevolezza ineludibile che nessuna delle due avrebbe potuto detenere alcun primato, diritto di prelazione, posizione di vantaggio: erano parte, congiuntamente e disgiuntamente, di ciò che per me è il senso della parola madre; probabilmente hanno passato la vita col vago senso di essere l’una sotto lo scacco dell’altra. La specifica, relativa e situata materialità della mia condizione fa sì che, in qualità di figlia, la frase “di madre ce n’è una sola” sia ciò che Arendt chiamava “affermazione priva di senso”. Per molto tempo ho invidiato chi, per pura casualità e quindi senza colpa, poteva vivere tranquilla riconoscendosi in quella massima senza rendersi conto degli aspetti di comodità legati ad avere una e una sola madre, anche nel peggiore dei rapporti madre-figlia. Tornando all’aspetto economico, quando penso alla condizione adottiva, a ciò che ha costretto mia madre Angela ad accettare il percorso di adottabilità, a ciò che ha consentito a mia madre Raffaella di accedere al percorso adottivo, mi rendo conto che la condizione umana eccede tutti i parametri con cui cerchiamo di gestirla o dirla, e il denaro non fa eccezione. I soldi sono tracce di un vissuto e, come ho cercato di dire all’inizio, fungono da rimando, alludono, evocano ma sono muti davanti al peso specifico dell’umanità. 

Fra le parvenze più insidiose di questo tempo c’è quella secondo cui i soldi abbiano il potere di definire il nostro valore, molto più che in passato, e quell’eccedenza della condizione umana è sotto attacco simbolico: da strumenti – non necessari – che possono facilitare sono stati resi quasi un soggetto capace di tramutare la persona in strumento, convincendola che essere-in-funzione del denaro non solo sia cosa giusta e accettabile ma sia persino fonte di soddisfazione e autorealizzazione.

Provo sincero terrore davanti a un capitalismo feroce che sempre più chiede a ciascuna e ciascuno di noi di pensarci adottando proprio il denaro come parametro e di ridurci sempre di più a qualcosa che può essere venduta e comprata; l’edonismo individualista automercificante che ci vorrebbe ridotte a monodimensionalità diventa però una strategia priva di potere nel momento in cui riconosciamo autenticamente la condizione umana, per farlo però dobbiamo accettare il rischio di ribellarci e dobbiamo trovare il coraggio di stringere patti e alleanze che costeggiano, stanno altrove, rispetto a ciò che ci viene impacchettato e consegnato come l’unica strada percorribile. Il coraggio di Angela e Raffaella che dal 1986 sono le mie due madri. 

  1. Uso questo termine perché il portoghese brasiliano ha una sua autonomia e desidero sottolinearla. ↩︎
  2. Una condizione di vantaggio apparente, un privilegio di superficie che si dissolve quando si pensa al senso di manchevolezza che deve aver provato nella relazione con un corpo che fino a quel momento non aveva potuto generare. Come donna ha preso questo senso indotto di manchevolezza e lo ha messo a frutto accettando quel rischio di farsi madre senza il tramite del corpo e accettando di condividere quella maternità con un’altra donna, senza illusioni e pretese o ricorrendo a escamotage che cancellassero l’esistenza dell’altra madre dalla quale dipendeva la mia esistenza.  ↩︎

Tendo spesso a non parlare di soldi. È una tematica che mi mette a disagio. Infatti è stato molto difficile per me presenziare al dibattito che ha avuto luogo domenica 1° dicembre in vista della redazione aperta di Via Dogana 3. Impensabile è stata l’idea di fare un intervento a voce alta davanti a tutte le persone presenti. Eppure domenica ho avuto un’opportunità, quella di confrontarmi con il mio limite e di indagarlo. Per quale motivo non riesco ad aprirmi e discutere a cuore aperto su questo argomento?

Io mi sento privilegiata. Sono cresciuta a Milano e i miei genitori non mi hanno mai fatto mancare nulla. Da tempo avevo l’idea di fare l’università in una città diversa da quella in cui sono nata. Proprio per questo, intorno ai quindici anni ho iniziato a lavorare e a mettere da parte i soldi che mi venivano dati (quelli delle paghette mensili e dei regali di Natale). 

Vorrei poter dire che, grazie a quei soldi, oggi posso permettermi di pagare l’affitto della casa in cui vivo a Verona, ma non è così. Mia nonna mi ha aiutata, dandomi un gruzzolo del quale tutt’oggi mi servo per poter pagare l’affitto. Mi è sempre pesato chiedere soldi, sia ai miei genitori che alla mia famiglia. Il mio desiderio di studiare lontano da casa non poteva gravare sui miei genitori. Al punto che a giugno 2023 facemmo un accordo: loro avrebbero pagato l’università, io la casa. Ora come ora vivo nel terrore che quei soldi finiscano, come se quelli fossero la misura della mia libertà (non assoluta, ma quella di studiare ciò che più amo nel luogo che sento più affine, dal momento in cui studio filosofia all’Università di Verona). Mi chiedo: cosa sarebbe della mia vita e dei miei desideri se non avessi i soldi come strumento per realizzarli? 

Ricordo che al liceo la professoressa di italiano chiese a noi studenti di scrivere un tema sulla felicità. Molti tra i miei compagni di classe scrissero che la felicità era direttamente proporzionale alla quantità di soldi posseduta. Più denaro si possiede, più è facile vivere delle cose che si amano. Nell’ascoltare la lettura di quei testi ricordo che mi arrabbiai. La stessa cosa accadde in quinta liceo ed in particolare davanti alla scelta dell’università. Quale percorso di studi permette di trovare un lavoro ben retribuito? Anche su Instagram emerge spesso questa questione. A ragazze che divulgano filosofia sui social viene posta di continuo questa domanda: scegliendo una facoltà umanistica non si rischia poi di finire senza lavoro? Come comunicare ai genitori che si desidera intraprendere un corso di laurea in lettere antiche o in beni culturali quando è evidente che un professore di greco non è pagato quanto un avvocato? A causa dei soldi, molti giovani rinunciano all’amore che guida le loro scelte in nome di una stabilità economica. Come biasimarli, dal momento in cui il costo della vita si alza e gli stipendi rimangono gli stessi di anni fa. Il futuro è sempre più precario e di ciò gode il sistema turbocapitalista dentro il quale siamo immersi. La difficoltà di basare la vita sul proprio desiderio porta alla necessità di ottenere godimento nell’hic et nunc. Questo è un problema del nostro tempo.

Io mi sento molto disorientata, l’angoscia mi assale ogni qualvolta io faccia una transazione o un bonifico. Nell’ultimo periodo mi sono persino sentita in colpa per aver speso soldi in visite ed esami medici, pur sapendo razionalmente quanto sia importante curarsi della propria salute. 

Quando si tratta di denaro penso, di tanto in tanto, a una frase che ho sentito pronunciare a mio padre: “spendiamo più di quanto potremmo realmente permetterci”. 

Ma allora è davvero possibile fare in modo che siano l’amore e il desiderio a governare la nostra vita? Come ribellarsi alle logiche del capitalismo? Si può sottrarre ai soldi il potere che esercitano? 

Io credo di sì. Forse quello che afferma mio papà ha in sé il principio della ribellione oppure ciò che avviene alla Libreria delle donne di Milano e a cui io guardo con profonda ammirazione. Ovvero il sapersi aiutare reciprocamente, esserci per le altre e gli altri gratuitamente senza mai allontanarsi dal proprio desiderio che è comune nella misura in cui è politico e individuale perché riguarda ognuna nella sua intimità. 

Ci sono vari momenti della mia vita che hanno modellato profondamente il mio approccio con i soldi e attraverso i quali ho potuto osservare da vicino l’impatto che potevano avere non solo negli aspetti pratici dell’esistenza ma anche sulle relazioni, sulle scelte e sulla percezione di sé.

Nella mia famiglia i soldi non sono mai stati un argomento tabù. Al contrario, erano una presenza – o, a volte, un’assenza – costante nelle nostre vite. Fin da piccola ho capito che il denaro non era solo un mezzo, ma un simbolo, qualcosa che parlava del nostro passato e, allo stesso tempo, tracciava il percorso verso il futuro. Per i miei genitori, i soldi rappresentavano il segno di un’emancipazione tanto desiderata. Venivano da famiglie con un passato di povertà, dove ogni moneta aveva un peso specifico, dove i desideri si accantonavano per far spazio alle necessità. Quando mio padre avviò la sua azienda, il denaro non era più soltanto sopravvivenza: era la dimostrazione di “avercela fatta”. Era il mezzo per costruire una vita migliore, per darci opportunità che loro non avevano avuto, come quella di permettere ai figli di fare una vacanza-studio a Londra – anche solo per qualche settimana – per mostrarci un mondo più grande e ricco di possibilità.

Poi l’azienda fallì. Ricominciare da capo non fu solo una questione economica, ma anche emotiva. Era la frustrazione di vedere sfumare anni di sacrifici, la fatica di rimboccarsi di nuovo le maniche. Fu in quel periodo che iniziai a capire quanto fragile fosse il confine tra sicurezza e precarietà. Come scrive bene Annalisa Monfreda nel suo libro Quali soldi fanno la felicità?, l’emancipazione di un singolo promette sempre un’emancipazione collettiva: il successo personale si intreccia con il sogno di riscatto della famiglia, della comunità di provenienza. E proprio per questo quando tutto crolla il peso del fallimento diventa ancora più schiacciante. Non era solo un’azienda che chiudeva i battenti; era la promessa di un futuro migliore che sembrava improvvisamente sfuggire dalle mani. Quel momento instillò in me un profondo senso di responsabilità, spingendomi a muovere i primi passi nel mondo del lavoro. Così, durante i weekend del liceo, iniziai a guadagnare i miei primi soldi. Il mio rapporto con il denaro nacque sotto il segno della necessità: non era un lusso, ma un mezzo indispensabile per contribuire e, in qualche modo, alleggerire il peso che sentivo gravare sulla mia famiglia.

Crescendo, ho imparato che i soldi non sono né buoni né cattivi: sono un elemento fluido, mutevole, che assume significato solo attraverso il valore che scegliamo di attribuirgli. E, soprattutto, ho capito che il loro peso non è inevitabile, che dal loro attaccamento si può fuggire, liberandosi dal potere che rischiano di esercitare su di noi.

Il mio secondo approccio con il denaro nacque dalla ricerca di indipendenza. Fu questo desiderio a spingermi a trasferirmi lontano da casa e a cercare un lavoro che mi permettesse di vivere in una città diversa. Quando iniziai a lavorare nel settore della cultura, però, mi scontrai con una realtà che non avevo previsto: essere sottopagata. Nonostante gli sforzi e le competenze che avevo acquisito, mi ritrovai spesso in situazioni in cui il valore del mio lavoro non veniva riconosciuto. Per passione e per necessità, mi ritrovai a fare fino a quattro o cinque lavori contemporaneamente. Era una realtà frustrante e svalutante, che mi portò a mettere in discussione non solo il mio percorso professionale, ma anche il mio valore personale. Essere sottopagata non era soltanto un problema economico; era una questione di dignità. Ogni stipendio che non rifletteva il mio impegno e le mie capacità mi faceva sentire intrappolata in una spirale di insoddisfazione e disillusione. Tuttavia, proprio da quella frustrazione nacque una consapevolezza importante: il valore che attribuisco a me stessa doveva diventare la base su cui costruire le mie scelte, e non quello che gli altri erano disposti a riconoscermi.

Dopo anni di lavori mal pagati, con compensi che a volte si aggiravano tra i cinque e i sei euro l’ora, decisi che non mi sarei voltata dall’altra parte e, seppur proseguire su quella strada costasse grande sacrificio e caparbietà, non avrei abbandonato il settore, anzi, avrei dato il mio contributo per migliorarlo. Lavorare nel mondo della cultura, mi resi conto presto, era ed è un privilegio per pochi. Non perché richieda meno competenze o dedizione, ma perché non tutti possono permettersi il lusso di lavorare gratuitamente. Eppure, nel settore aleggia sovente la narrazione tossica secondo la quale è normale prassi quella di “farsi le ossa”, accumulare anni di esperienza non retribuita, in nome della formazione, della passione per il bello, del sacrificio per una causa più alta. È una trappola sottile. Il fascino della cultura ti attira con promesse di crescita personale ma presto ti trovi intrappolato in un sistema che ti chiede di dare senza mai restituire. Le porte dell’arte, del teatro, dei musei sembrano aperte a tutti, ma in realtà, ancora troppo spesso, si spalancavano solo per chi ha spalle abbastanza larghe da resistere all’assenza di stipendi, contratti e tutele. È un mondo che ti respinge se non puoi permetterti di essere sfruttato. E, nel farlo, ti fa sentire come se la tua passione non bastasse, come se non fossi abbastanza. Ma la verità è un’altra: è il sistema a essere ingiusto, costruito su sacrifici che non tutti possono permettersi di fare. E così, il settore culturale diventa una torre d’avorio, costruita sulle disuguaglianze, sempre più lontana da chi vuole entrarci con il solo biglietto del talento e delle competenze. La cultura, che dovrebbe includere, ispirare, accogliere, diventa una macchina che esclude, sfrutta e scoraggia.

E anche qui risulta importante il tema dei soldi, un argomento spesso evitato durante i colloqui di lavoro, quasi fosse sconveniente parlarne. Ma ignorare il problema significa perpetuare il ricatto per cui se non si accettano le condizioni offerte, ci sarà sempre qualcun altro disposto a farlo per meno. Parlare di denaro, invece, significa rompere quel silenzio che rende i lavoratori ricattabili. Significa rivendicare il diritto a una retribuzione giusta, a una dignità professionale che non deve essere un privilegio, ma un fondamento.

Spinta da queste convinzioni nel 2022 contattai l’associazione Mi Riconosci?, e da quel momento iniziai il mio impegno politico contro i salari inadeguati, il sottoinquadramento e le ingiustizie subite da tanti lavoratori e lavoratrici del mio settore. È stata una svolta importante per la mia vita, che mi ha permesso di trasformare la mia rabbia e la mia esperienza in una lotta collettiva, per dare voce a chi, come me, voleva rivendicare il giusto valore del proprio lavoro. L’iniziativa di “Mi Riconosci?” nasce alla fine del 2015 dalla volontà di un gruppo di professionisti (o aspiranti tali) del mondo dei beni culturali (studenti e laureati, lavoratori e in cerca di occupazione) di cambiare la realtà lavorativa del settore. Situazione che si presenta complessa e articolata: professioni del tutto ignorate o riconosciute solo in teoria e in attesa di decreti attuativi o della fine di processi lunghi anni. Tutti, dagli storici dell’arte agli archivisti, fino ai diagnosti, abbiamo in comune gli stessi problemi: sviliti, sottovalutati, sottopagati, socialmente denigrati. Da qui l’idea di creare una campagna unitaria sull’accesso alle professioni dei Beni Culturali, sulla valorizzazione e riqualificazione dei titoli di studio del settore e l’impegno per raggiungere giuste retribuzioni.

Negli ultimi anni, complice un accumulo di una serie di esperienze insoddisfacenti, ho deciso di cambiare rotta e intraprendere la strada dell’attività da freelance. Non è stata una scelta facile: i rischi erano molti, le paure altrettanto. Ma quella decisione rappresentava per me un atto rivoluzionario di autonomia, un modo per affermare il controllo sul mio percorso professionale. Essere una lavoratrice autonoma mi ha permesso di stabilire un rapporto diverso con il denaro: non più un valore imposto da altri, ma un riflesso diretto del mio impegno, delle mie competenze e della mia capacità di negoziare il giusto compenso per il mio lavoro. La precarietà è ancora un’ombra costante, ma pur senza la sicurezza di uno stipendio fisso, mi ha permesso di capire che il denaro non doveva essere un fine, ma uno strumento: un mezzo per costruire la vita che desidero, piuttosto che una misura del mio valore personale.

Il mio rapporto con i soldi non è mai stato solo una questione di bilancio o numeri, ma anche di equilibrio tra ciò in cui credo e ciò che mi serve per vivere. Conciliare i miei valori etici con la necessità di guadagnare non è facile e spesso mi fa sentire scissa in due. Sensazione provocata dal sistema economico attuale che ci mette di fronte a scelte difficili, dove il bisogno di sicurezza economica sembra entrare in conflitto con ciò che riteniamo giusto o importante per noi stessi e per la società. Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesta se accettare un lavoro che non rispettava i miei principi fosse un compromesso necessario o una rinuncia a ciò che mi definisce. Altre volte, ho scelto di rifiutare proposte apparentemente vantaggiose perché sentivo che avrebbero tradito le mie convinzioni. Questo mi ha insegnato quanto sia sottile il confine tra pragmatismo e idealismo e quanto sia importante, anche nelle difficoltà, cercare di trovare soluzioni che non sacrifichino la nostra integrità.

Credo che la vera sfida sia proprio questa: non fuggire dalle regole del sistema, ma comprenderle e sfruttarle a nostro favore per costruire un futuro più etico e sostenibile. E quando riusciamo a farlo, scopriamo che è possibile trasformare il bisogno di guadagno in un mezzo per creare altri tipi di valore.

Nonostante le difficoltà, ho capito che è possibile utilizzare gli stessi strumenti del capitalismo per creare qualcosa di diverso, qualcosa che rispecchi i nostri ideali. Un esempio che mi ispira profondamente è il progetto dell’Associazione Poveglia per Tutti. Attraverso il crowdfunding, un mezzo di finanziamento collettivo, l’associazione è riuscita a mobilitare centinaia di persone con una visione comune per acquistare e proteggere l’isola di Poveglia, ovvero un bene comune. Così facendo, hanno impedito che fosse sfruttata a scopo commerciale, promuovendone invece un utilizzo pubblico e sostenibile. Questo dimostra che, anche in un sistema spesso percepito come ostile, esistono spazi per realizzare iniziative etiche, che mettano al centro il bene collettivo.

Un altro esempio significativo è l’esperienza del Collettivo di Fabbrica GKN e il loro progetto di azionariato popolare. In questo caso, lavoratori e comunità hanno scelto di unirsi per rilevare e gestire l’azienda in modo collettivo, dimostrando che esistono alternative concrete alla logica del profitto a tutti i costi. Iniziative come queste mostrano che, sebbene il sistema sembri immutabile, ci sono modi per piegarlo a favore di un cambiamento reale e condiviso.

Queste esperienze sono importanti da citare e ricordare perché si oppongono al monopolio di quelle narrazioni che celebrano storie straordinarie di sacrificio, fatte di sudore e rinunce, dove “volere è potere” diventa l’unico mantra accettabile. Quelle storie che esaltano l’eroismo quotidiano delle bidelle che fanno le pendolari da Napoli a Milano, come se l’ingiustizia intrinseca di un sistema che costringe a tali estremi fosse qualcosa da applaudire, anziché da mettere in discussione.

Per concludere, il mio rapporto con il denaro è ancora pieno di contraddizioni, come un nodo che non si scioglie del tutto ma che, in qualche modo, tiene insieme i fili della mia storia. Eppure, come afferma Derrida, «la coerenza nella contraddizione esprime la forza di un desiderio». Forse è proprio questo: il desiderio profondo di conciliare ciò che faccio con ciò in cui credo, di trovare un equilibrio tra la mia professione e la mia etica, di non sentirmi più costretta a scegliere tra guadagnarmi da vivere e restare fedele a me stessa.

Ma c’è un’altra consapevolezza che nel tempo ha preso forma: i soldi, spesso visti come simbolo di oppressione o compromesso, possono diventare anche uno strumento rivoluzionario. Non sono un fine in sé, ma un mezzo potente, capace di trasformarsi in leva per cambiare le regole del gioco. È possibile usare il denaro per costruire, per finanziare iniziative che rispecchiano un ideale collettivo. E quando penso a progetti come il crowdfunding per l’isola di Poveglia o l’azionariato popolare del Collettivo GKN, vedo un esempio concreto di come il denaro, se usato consapevolmente, possa diventare un’arma contro il sistema che lo vorrebbe dominio esclusivo.

Così, auspico di poter conciliare il mio lavoro con la mia etica, trasformando il denaro non in un vincolo, ma in un mezzo per costruire qualcosa di più grande. E, un giorno, sentirmi finalmente intera.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Sono soldi i soldi?, 1 dicembre 2024

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Ho fatto molta fatica in questi giorni a raccogliere le idee e sedermi a scrivere questa relazione introduttiva, forse perché ne sottovalutavo in qualche modo la portata emotiva. Proprio qualche minuto fa, prima che mi sedessi al computer a cercare di tendere questa matassa di pensieri con Luca – il mio compagno – abbiamo passato un quarto d’ora a discutere sulle spese, quelle fatte, quelle da fare e soprattutto quelle da non fare. Stiamo cercando di comprare una casa, da circa tre mesi. Così in quest’ultimo periodo sembra che ogni nostra conversazione vortichi lì, sul dente che duole.

E a un certo punto sono di nuovo bambina e non c’è più mio padre ma ci sono io, più o meno adulta, che faccio i suoi stessi discorsi, che condivido le sue stesse ansie e mi accorgo che quello che mi ero promessa di fare nella mia vita – ovvero cercare di non dare più peso di quello che è giusto (e su questo ritornerò) ai soldi – purtroppo è stata una battaglia persa in partenza.

A casa noi soldi non ne abbiamo mai avuti troppi, a volte troppo pochi, a volte il giusto per campare, a volte poco più del giusto da mettere da parte per qualche imprevisto che si sarebbe presentato a breve. E nella loro assenza erano allo stesso tempo la cosa più presente tra le nostre quattro mura. Per mio padre era necessario ricordare, a fronte di ogni spesa, che noi, no, quella spesa non avremmo potuto/dovuto farla. Io trovavo in qualche modo surreale vivere la mia vita in funzione del denaro, o ancora peggio in funzione della sua assenza, nonostante ciò ho sempre cercato di tirar su qualcosa, quanto meno per non sentir mio padre ciarmuniare (come si dice da noi). Inevitabilmente, seppur mi fossi sempre ripromessa il contrario, attualmente vivo il denaro con la stessa ansia di mio padre. Ma se è vero che in ognuno di noi ci sono due lupi, allora è vero che dentro di me vive anche mia madre. E per mia madre i soldi potevano mancare, ma sicuramente non mancava un piatto in più a tavola, un posto in più a dormire, una pizza offerta a un’amica, un pensierino preso per strada all’improvviso. Per mia madre i soldi, anche quei pochi, sono sempre stati un mezzo, per comunicare qualcosa, per raggiungere qualcuno, per aiutare qualcun altro.

Da brava figlia ho preso il peggio di entrambi: e quando offro il pranzo a un’amica poi passo le giornate seguenti in ansia a capire se riuscirò mai a riprendermi dalla spesa.

Per quanto io abbia sempre sperato di evitarlo, sono diventata adulta e i soldi sono diventati parte integrante anche della mia vita, non solo passivamente attraverso i miei genitori, e mi sono trovata ad avere nuovi nemici – come l’Irpef, che ancora non ho capito chi è e perché si tiene tutto il mio stipendio – e nuovi amici – i prodotti in offerta al supermercato perché sono in scadenza.

Mentirei dicendo che io e il mio compagno ci troviamo effettivamente in una situazione di difficoltà economica, anzi paradossalmente rientro tra quelle poche persone che, nonostante la cristallizzazione sociale, sembra essere riuscita a fare uno scarto rispetto alla sua condizione economica di partenza. Lavoriamo entrambi e non ci manca assolutamente nulla, d’altronde siamo anche riusciti a mettere da parte qualcosa per smettere di svenarci con un affitto. Forse però questo ci è costato un po’ più del previsto, o quanto meno mi è costato. Ho sempre sentito che più soldi sembrano essere uguali a più libertà, io piuttosto li vivo sempre di più come una schiavitù. Lavoro più di quaranta ore a settimana e guadagno lo stesso stipendio (se non di più) con cui mio padre campava una famiglia di cinque persone, eppure allo stesso tempo mi sembra di dover continuare a fare la spesa con la calcolatrice. Ogni sforzo che faccio mi sembra inutile, e questi mesi in cui stiamo cercando di comprare casa hanno cristallizzato in me questo pensiero. Non solo, per me il lavoro stesso è diventata una forma in qualche modo di isolamento: sono troppo stanca per uscire, per gli aperitivi, per le feste di compleanno, per i regali, per i matrimoni. È come se anche quelli rientrassero nel ciclo di sfruttamento in cui mi sento intrappolata. Così, preferisco togliermi qualche sfizio personale, più costoso, piuttosto che spendere trenta euro per passare una serata con un’amica. E a volte mi chiedo se sia solo una questione economica, la scelta di quanto ho io da investire e in cosa voglio investirlo, quando il lavoro è tanto e il tempo è poco. Quando neppure la gratificazione del bonifico in favore di sembra risollevarmi dal pensiero che la banca mi potrebbe rifiutare la richiesta di mutuo, l’unica cosa che sembra utile fare è fare qualcosa per se stessi. Fino a oggi non mi sono mai chiesta perché? da quando tutto quello che faccio deve essere una transazione in mio favore?, probabilmente perché non sono l’unica a farlo. È questa la nostra nuova normalità, la nostra nuova schiavitù – e anche chi come me ha sempre cercato e cerca ogni giorno attraverso la pratica politica di allontanarsi dall’individualismo ne viene risucchiata al prezzo di un nuovo telefono a discapito di un passaggio a casa a un amico in difficoltà. Ma sono solo i soldi?

La mia libertà, la mia ricerca di collaborazione, la mia voglia di investire tempo – e perché no, anche denaro – nelle relazioni è come se fosse inversamente proporzionale ai soldi che entrano a fine mese nel mio conto in banca. Quando facevamo fatica a fare la spesa, perché io non lavoravo o al massimo facevo qualche collaborazione in università e Luca guadagnava nemmeno duecento euro a settimana facendo il rider, sembrava tutto più semplice. Era più semplice spendersi per gli altri, era più semplice investire tutto se stesso in una cosa a prescindere dal tornaconto. Adesso invece mi trovo a fare dei pensieri che entrano in contraddizione con tutto quello che sono, o almeno che credo di essere: cosa farebbero gli altri per me? Cosa spenderebbero gli altri per me? E mi chiedo se tutto questo sia realmente io o se tutto questo sia il famoso giusto prezzo del denaro che mio padre mi ha sempre detto che avrei dovuto imparare.

La verità è che le relazioni hanno un prezzo, e non solo materiale. E ogni giorno facciamo i conti con quanto siamo disposti a spendere, quanto siamo disposti a spenderci soprattutto. E da un lato per me, a questo punto, il denaro è una forma di assoluzione, perché a volte è più semplice metterlo in mezzo come veicolo della nostra reticenza. È una risposta concreta a problemi metafisici, su cui non vogliamo soffermarci troppo; è uno scudo invalicabile, a proteggere il capitale umano che altrimenti ci troveremmo a investire. Questo perché le relazioni a volte ci mettono di fronte a delle scelte che non vogliamo prendere e delle domande che non vogliamo farci: quanto vale il mio tempo, quanto valgo io, quanto valgono le mie energie? Così le relazioni si trasformano in transazioni, l’ennesimo estratto conto della nostra giornata. Siamo stanchi, stufi e svalutati, da noi stessi, dal nostro lavoro, dalla società, dai nostri amici – che sono stanchi, stufi e svalutati come noi. Siamo individualisti perché siamo soli, ogni giorno, a capire qual è il peso giusto da dare a noi stessi in una società che ci rende sempre più simili al peso che ha il nostro stipendio ora che le Goleador non costano più dieci centesimi a pacchetto. Forse, però, dovrei imparare da mia madre, che non si è mai chiesta «a me cosa rientra?» nell’aggiungere cento grammi di pasta in più solo per vedere sorridere un’amica, certo è che alla fine dei conti, mentre scrivevo questa frase, una domanda mi assale: me lo posso realmente permettere?

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Sono soldi i soldi?, 1 dicembre 2024

«Bisogna che tutti ci decidiamo: sono soldi i soldi o non sono soldi?»
Questa provocazione di Gertrude Stein, che troviamo nella raccolta di scritti e interviste realizzati tra il 1935 e il 1946 durante e dopo un suo viaggio negli Stati Uniti, recentemente riedito dalla casa editrice Vanda Edizioni, è stata il punto di partenza per i lavori di domenica 1° dicembre, durante la redazione allargata di Via Dogana 31. Nel suo stile frammentato e denso di ironia, Stein tratta il denaro non solo come strumento di scambio, ma come simbolo che permea le strutture sociali, culturali e affettive.

E così, chiedersi come fa Gertrude Stein Sono soldi i soldi? significa aprire uno spazio di interrogazione ampio: come il denaro modella il nostro modo di stare insieme, di collaborare, di costruire comunità? Il discorso quindi non si limita a una questione di ricchezza o proprietà, ma si collega ai meccanismi che fanno funzionare la società e alla possibilità di convivenza. Detto in altri termini: il denaro non è mai un’entità neutra o isolata, ma un elemento che struttura il modo in cui lavoriamo e condividiamo spazi e risorse. Anche se non se non ne parliamo.

Questo numero di Via Dogana 3 dedicato ai soldi l’ho voluto fortemente io, che intrattengo con il denaro un rapporto ambivalente. Sono cresciuta in una famiglia con pochi soldi, dove il denaro era una presenza silenziosa: non se ne parlava mai, eppure si percepiva che c’era un limite da non oltrepassare. I miei genitori non facevano discorsi espliciti, e conducevamo una vita dignitosa anche con poco, non ci hanno mai fatto mancare l’essenziale. Per dare a noi figlie e figli la possibilità di studiare, hanno fatto sacrifici e ci hanno insegnato a fare altrettanto. Io, di riflesso, mi sono sempre arrangiata: ripetizioni, babysitting, lavori precari, tutto pur di non gravare sul bilancio familiare.
La mia infanzia si è svolta in una provincia prevalentemente operaia e contadina, dove questo stile di vita era condiviso dalla maggior parte delle persone intorno a me. Il denaro, in quel contesto, non era un segno distintivo ma un elemento necessario. Solo con l’ingresso al liceo ho cominciato a percepire il denaro come misura del valore, il discrimine che segnava differenze profonde. Erano gli anni Ottanta, la società italiana virava sempre più verso un modello individualista e performativo, in cui la ricchezza visibile diventava un parametro del valore delle persone e delle famiglie. Pativo una viva contraddizione: da un lato, la vergogna per le mie origini e per ciò che consideravo un “mancare” rispetto agli altri; dall’altro, una ribellione profonda verso ciò che mi sembrava un’ingiustizia sociale.
Non mi dilungo sulla mia storia, ma riconosco in questa storia un tratto comune a molte. L’educazione che ho ricevuto, il non parlare dei soldi, aveva il preciso scopo di insegnarmi una serie di dettami morali: i soldi sono legati al lavoro che si fa, ed è il lavoro che ti rende libera, non il denaro; i soldi non si sprecano, ma sempre si deve aiutare chi ha bisogno; dei soldi non si parla perché sono un mezzo, qualcosa che serve, ma che non ha valore in sé. Anzi, il denaro veniva dipinto come qualcosa di “basso”, quasi sporco, da tenere ai margini delle conversazioni e delle relazioni.
Questo silenzio ha avuto conseguenze. Ancora oggi non mi pongo problemi a dare denaro, a condividerlo, ma mi riesce enormemente difficile chiedere ciò che mi è dovuto. È un’attitudine che sappiamo essere tipica di molte donne, radicata in un’educazione che lega il valore personale al sacrificio. E così c’è dentro di me un misto di forza e limite: conosco e sono parti di me l’indipendenza e la solidarietà, ma il mio rapporto con il denaro è anche legato a una sorta di colpa non detta, a una resistenza implicita nell’affermare il mio diritto al giusto compenso.
Il silenzio sul denaro è il riflesso di una cultura che ha relegato le donne alla marginalità economica, privandole non solo di risorse, ma di un linguaggio per parlare del loro rapporto con il denaro.
Questa ambivalenza verso il denaro non è solo personale: è il riflesso di un ordine simbolico e parlarne, come facciamo in questo numero, è un primo passo per riprenderci il desiderio di esserci anche in questa dimensione della vita.

Durante la preparazione di questo numero con la redazione ristretta, è emersa con chiarezza una frattura generazionale che attraversa il rapporto con il denaro. Io sono in una sorta di terra di mezzo, e vedo chi mi precede e chi viene dopo di me in modo che probabilmente giudicherete cinico. Da una parte, le donne delle generazioni più grandi, che potrei definire utopiste; dall’altra, le generazioni più giovani, spesso caratterizzate da un individualismo nato dalla necessità.
Le utopiste, a cui appartengono molte donne che mi hanno preceduta, portano avanti una visione che affonda le radici nelle pratiche femministe delle origini, fatta di comunità solidali e reti di scambio che sopperiscono alle carenze del sistema economico e sociale. È una prospettiva affascinante, che ha contribuito a costruire un immaginario alternativo al capitalismo, ma che oggi, in un contesto di mercati globalizzati e individualismo esasperato, rischia di sembrare una favola fuori dal mondo. La solidarietà è senza dubbio un valore irrinunciabile, ma può bastare da sola a rispondere a un sistema che lascia sempre più persone ai margini?
Dall’altro lato, vedo le generazioni più giovani costrette a navigare in un panorama socioeconomico che non offre scampo. Sono le individualiste per necessità, che si arrabattano in un sistema che non garantisce sicurezza né prospettive a lungo termine. Sono cresciute con il principio che la libertà si gioca nell’autonomia individuale, ma questa autonomia spesso si traduce in un adattamento a condizioni di precarietà cronica. Perciò il consumo diventa un linguaggio ambiguo: da un lato, un modo per affermare la propria identità; dall’altro, una risposta edonistica a un senso di esclusione sistemica. Non posso permettermi una casa, allora mi compro uno smartphone da mille euro. È un comportamento che a uno sguardo superficiale potrebbe sembrare irrazionale, ma che, in realtà, risponde a una logica: se non posso costruire un futuro, almeno mi concedo un piacere immediato.
Qui non c’è in ballo solo una questione generazionale, ma si tratta del riflesso di un cambiamento epocale nel rapporto tra donne e denaro. Le donne più grandi, cresciute in un contesto che permetteva di immaginare alternative collettive, hanno costruito una critica radicale al capitalismo, mostrando i limiti del denaro come misura universale. Le più giovani, invece, vivono in un contesto in cui le possibilità di costruire alternative sembrano ridotte all’osso, e dove il denaro non è più solo un mezzo, ma una fonte di frustrazione e conflitto interiore.
La sfida non è negare l’importanza della solidarietà né condannare l’individualismo delle più giovani, ma riconoscere che entrambe nascono da un confronto reale con il sistema economico in cui viviamo. Il punto non è scegliere tra utopia e necessità, ma trovare un modo per intrecciare queste due dimensioni, costruendo spazi in cui il denaro torni a essere uno strumento al servizio delle relazioni e non il loro limite. Un femminismo che vuole vivere nel nostro tempo deve saper tenere insieme la critica al sistema con le pratiche che rispondono alle sue contraddizioni.
Niente moralismo o predica edificante, sia chiaro. Il fatto è che un conflitto obbliga ciascuna a confrontarsi con la propria esperienza e il proprio passato, se il conflitto è generazionale il dialogo tocca il nesso tra quello che siamo oggi e quello che eravamo allora. La relazione che anche oggi, qui, mettiamo in gioco riattiva in ciascuna di noi la giovinezza, e contemporaneamente pone un’alterità che evidenzia il cambiamento, personale e sociale insieme. È un modo, mi auguro, di affrontare un mondo in costante e rapido mutamento, dove le più giovani, nel loro modo di interpretare il cambiamento, diventano una mediazione per continuare a pensare.

Riporto un brano significativo dal saggio di Giannina Longobardi pubblicato nel libro collettaneo La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro: «Il pensiero e la pratica di relazione delle donne ci hanno permesso di non pensare la nostra libertà come subordinata all’accesso diretto al mercato, e di attribuire valore simbolico a scambi personali nei quali si gioca qualche cosa che non è denaro. Sono state delle donne che ci hanno insegnato a vedere la disparità nello scambio, la non equivalenza delle posizioni nella contrattazione e lo squilibrio che è insito nella maggior parte delle relazioni per noi vitali.
Inoltre, mentre pare presente nell’agire maschile la presunzione che tutto abbia un prezzo e sia dunque acquistabile, le donne sanno che ciò che è più prezioso non si vende, si gioca in scambi che non hanno nella moneta la loro misura. C’è nella differenza femminile una forma di resistenza dell’umano al capitale. Le relazioni familiari, come le relazioni d’amicizia, come quelle d’amore e come quelle politiche, si basano su una forma di scambio che la logica mercantile tende a negare e a distruggere. Pure queste relazioni non solo resistono, ma in esse sta quasi sempre la parte più importante della nostra vita. Sono le relazioni in cui ci giochiamo personalmente, in cui diamo noi stesse, e nelle quali le persone contano per noi per la loro unicità. In queste relazioni scambiamo parole, attenzione, affetti, emozioni, ed anche beni: come cose, assistenza, ospitalità»2. Questo passaggio restituisce con lucidità uno dei guadagni del femminismo delle origini: l’apertura della possibilità di andare oltre la logica mercantile, illuminando la disparità insita nei rapporti di scambio e riconoscendo il valore incommensurabile di ciò che è umano: parole, cura, affetti, beni condivisi in una dimensione che eccede la misura dei soldi. È un pensiero che ha aperto una strada fertile, percorsa da molte voci che ne hanno approfondito le implicazioni. Pensiamo ai lavori di Ina Praetorius, al convegno La vita alla radice dell’economia3, dove si sposta il focus dall’economia come produzione di profitto all’economia come cura della vita, che si radica nell’attenzione, nell’interdipendenza, nella capacità di rispondere ai bisogni reciproci senza tradurli necessariamente in transazioni equivalenti.
Queste riflessioni sono importanti anche oggi, in un’epoca in cui la logica capitalistica sembra voler assorbire ogni aspetto dell’esistenza. L’idea politica che ci siano relazioni resistenti al capitale, che non si possano ridurre a calcolo o a prezzo, è pensiero critico e insieme possibilità di lotta per il cambiamento.
E però. Nel 2009 Vita Cosentino scriveva: «Qui in Italia ci sono (ancora per quanto?) dei meccanismi di redistribuzione che funzionano e sono per tutti. Nel mio caso, nel giro di qualche ora ero ricoverata nell’ospedale di Borgo Trento, in un reparto all’avanguardia in Europa, sottoposta a cure tempestive che hanno limitato il danno, ben assistita giorno e notte. Non ho mai pagato un ticket o quant’altro»4. Fino a quindici anni fa il sistema sanitario pubblico italiano funzionava e c’erano dei meccanismi di redistribuzione che garantivano a tutti un accesso equo ai servizi essenziali. Dal 2010 al 2019, il SSN ha subito tagli cumulativi di circa 37 miliardi di euro, influenzando negativamente la qualità e l’accessibilità dei servizi sanitari. Durante la pandemia, l’aumento del finanziamento è stato assorbito dai costi della gestione Covid-195. Secondo il rapporto della Ragioneria Generale dello Stato, nel 2022 la spesa sanitaria pubblica in Italia ha raggiunto i 129,2 miliardi di euro, con un incremento rispetto all’anno precedente (127 miliardi). Parallelamente, la spesa sanitaria privata, sostenuta direttamente dalle famiglie (la chiamano tecnicamente out-of-pocket), ha superato i 40 miliardi di euro, mettendo quindi in luce un crescente aumento della spesa privata, che indica una crescente dipendenza dalle risorse familiari per l’accesso alle cure6. Nel 2022, il 76,3% della spesa sanitaria totale in Italia è stata coperta dal settore pubblico, una leggera diminuzione rispetto all’anno precedente. Il restante 23,7% è stato finanziato privatamente7.
Oltre ai tagli sistematici ai finanziamenti, la carenza di personale e un sovraccarico strutturale hanno reso i servizi sempre meno accessibili e sempre più inadeguati a rispondere alle necessità delle persone. Tutte abbiamo esperienza di liste d’attesa insostenibili al punto da spingere chi può a ricorrere al settore privato. Per chi non può, l’unica alternativa è rinunciare alle cure.
L’esempio emblematico della sanità mostra le diseguaglianze sempre più in crescita che producono un senso di insicurezza sociale. L’idea di una rete di protezione collettiva, che offriva stabilità e coesione, è stata sostituita da un individualismo che alimenta il disgregarsi del tessuto sociale. In assenza di fiducia, le persone si trovano sempre più sole nel fronteggiare rischi e difficoltà, in un contesto dove la solidarietà istituzionale sembra svanita.
Questa trasformazione non è solo una questione economica, ma profondamente politica perché riguarda la struttura del contratto sociale.

Oggi c’è un grande senso di solitudine nei ragazzi e nelle ragazze, ce l’hanno raccontato direttamente le amiche giovani della redazione ristretta, spiegandoci che è alimentato anche dall’iperconnessione digitale, in cui si perde il senso di appartenenza a un mondo condiviso. Il bisogno di relazione spesso si ferma al livello virtuale, che abbonda di community, che lancia tendenze, che spinge a condividere contenuti e mettere in scena diverse versione di sé stessi. Il paradosso: virtualmente connessi senza soluzione di continuità, molti restano irrelati, incapaci di costruire legami autentici; vicini virtualmente (tramite like, chat, condivisioni), distanti da un punto di vista relazionale. Vediamo anche il bisogno di trovare figure di riferimento, relazioni concrete, scambio, come appunto è successo a noi della redazione di Via Dogana 3.
Ma è in questo sistema disgregato, che tende a monetizzare sempre più aspetti della vita, che affiora quello che prima chiamavo effimero edonismo. Perché il denaro rischia di entrare anche in spazi che dovrebbero esserne liberi, come l’amicizia, l’amore o la solidarietà. Questo fenomeno non misura direttamente il valore delle relazioni, ma influenza come le relazioni si formano e si mantengono, e le nostre amiche più giovani ci potranno illuminare su questi aspetti.

Come abbiamo scritto nell’invito a questa giornata, la sfida è come guardare al denaro e alle regole che impone in modo libero e creativo.


  1. Gertrude Stein, Sono soldi i soldi? Scritti americani, trad. Rosella Bernascone, Vanda Edizioni, 2024 ↩︎
  2. “Sono soldi i soldi?” in AAVV, La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro, Pratiche Editrice, Milano 1997 ↩︎
  3. La vita alla radice dell’economia, a cura di Cosentino Vita, Longobardi Giannina, Libera Università dell’Incontro, 2008. La pubblicazione può essere acquistata alla Libreria delle donne di Milano ↩︎
  4. Tratto dall’intervento al Seminario di Diotima Alleanze e conflitti nel mondo comune di donne e uomini – Università di Verona – incontro del 20 novembre 2009: Giannina Longobardi e Vita Cosentino, “Nulla” è la forza che rinnova il mondo. ↩︎
  5. https://www.tpi.it/cronaca/crisi-sanita-ssn-al-capolinea-numeri-e-dati-202311041051184/ ↩︎
  6. https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=119152/ ↩︎
  7. https://www.milanofinanza.it/news/sanita-l-italia-sotto-la-media-ue-spendiamo-solo-il-6-7-del-pil-202407221545292229/ ↩︎

NOTA:
Nella preparazione di questo numero, ci siamo rese conto di quanto il tema dei soldi sia oggi centrale e affrontato da molte prospettive. Un contributo prezioso è il libro di Annalisa Monfreda Quali soldi fanno la felicità?, disponibile in Libreria, che esplora il rapporto tra denaro e felicità con uno sguardo attento alle donne. Annalisa Monfreda affronta temi fondamentali come il tabù del denaro, di cui anch’io scrivo nel mio intervento: il denaro è spesso evitato, considerato quasi immorale, e questo silenzio ha conseguenze profonde sulla vita personale e professionale delle donne. Il libro approfondisce inoltre come le esperienze familiari influenzino le scelte finanziarie e la percezione del proprio valore, toccando anche la disparità salariale di genere. Ancora, Annalisa Monfreda attraverso il suo podcast Rame raccoglie testimonianze sulle emozioni negative legate a guadagni, perdite e scelte economiche, evidenziando l’isolamento che queste situazioni possono creare. La sua proposta è chiara e urgente: parlare apertamente di denaro per ridurne il potere sulle nostre vite, promuovere una maggiore felicità e avviare un cambiamento profondo nel sistema economico.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Sono soldi i soldi?, 1 dicembre 2024

Il Progetto Vestales è una piattaforma di archiviazione, critica e diffusione dell’arte realizzata da donne colombiane. È iniziato come un progetto collettivo femminile nel 2021; nel tempo alcune artiste o sono migrate in altri paesi o per impegni lavorativi non hanno più continuato a farne parte.

Ho maturato questa idea nel mezzo dell’isolamento e del silenzio della pandemia, mentre stavo elaborando la fine della relazione con un partner, che aveva occupato quasi tutti gli anni dei miei studi universitari in Arti plastiche. Questa rottura ha segnato anche la mia definitiva separazione da una visione maschile del mondo.

Quando ho posto fine a questo legame, tutte le strutture su cui avevo costruito l’immagine di me sono crollate e ho dovuto affrontare la ricostruzione dalla mia prospettiva, con una visione femminile. In quel momento, ho sentito come se fosse la fine della mia vita, poiché l’accademia e la cultura maschile avevano danneggiato profondamente la percezione di me stessa come artista e come donna. Mi sono immersa in una profonda oscurità, sentendomi cieca. Mi muovevo intuitivamente alla ricerca di qualche luce che mi mostrasse la strada per ricostruirmi e riconoscermi nello specchio. È stato come un fulmine divino che ha colpito la mia testa, con l’idea che per capirmi avrei avuto bisogno di vedermi riflessa in altre donne: comprendere come si sentissero e quale posto occupassero in questa vocazione artistica. Ho usato i social media per trovare donne di diverse parti della Colombia e ho iniziato a instaurare conversazioni online con loro. È stata da una di queste conversazioni che è nata l’idea di creare questo progetto. Inizialmente eravamo sei donne, ma i diversi percorsi che ognuna ha intrapreso nella vita, hanno fatto sì che rimanessimo solo in quattro a lavorare al progetto per quasi un anno.

Quando mi sono trasferita in Spagna, insieme abbiamo cercato di continuare a generare contenuti, ma il fuso orario e il fatto che altre compagne si fossero trasferite hanno portato alla sospensione del progetto. Vestales è stato inattivo per quasi otto mesi. Ero occupata a cercare una stabilità in questo nuovo paese, risolvendo questioni burocratiche, di lavoro con tutti gli ostacoli che si affrontano quando si emigra. Pensavo che il progetto fosse giunto al termine, poiché ero emotivamente esausta e non mi sentivo in grado di farlo risorgere senza aiuto. Pian piano, nella quotidianità e nell’urgenza di trovare stabilità, ho iniziato a svolgere lavori che avevano poco a che fare con la mia vocazione e che, come molti lavori in questo sistema economico, hanno assorbito il mio tempo e mi hanno isolato…

Questa situazione che mi impediva di avere spazio per riflettere su me stessa, e di connettermi con altre persone, minacciava di farmi ammalare; quindi ho deciso di aggrapparmi nuovamente a Vestales e, con l’energia che mi rimaneva in quel momento, di farlo rivivere.

Nel Progetto Vestales invito le artiste a conversare con me su di loro, sui loro processi creativi e su qualsiasi argomento correlato. Le conversazioni vengono registrate e presentate sotto forma di podcast su diverse piattaforme digitali come Spotify o YouTube. L’idea è che queste conversazioni fluiscano organicamente, creando un’atmosfera intima con ciascuna delle mie ospiti, molte delle quali non conosco di persona e per le quali questo è il nostro primo contatto. L’invito è aperto, sono le donne interessate che si avvicinano per partecipare al progetto, infatti mi interessa che sia uno spazio completamente volontario. La maggior parte di loro appartiene alla mia stessa generazione, il che facilita l’empatia, anche se l’età non è un fattore limitante. Spero anzi che in futuro partecipino donne di diverse fasce d’età.

Ogni episodio ruota attorno a tre assi principali: memoria, canzone e riferimento. Nel primo, le ospiti condividono ricordi che hanno influenzato la loro decisione di dedicarsi all’arte, discutendo la loro esperienza dentro e fuori dall’accademia, nonché le forme alternative di sentirsi libere facendo arte. Nella seconda parte, ogni ospite sceglie una canzone che rappresenta il suo immaginario e la sua opera, condividendo le sensazioni che evoca. Queste canzoni vengono aggiunte a una playlist che si arricchisce ad ogni nuova partecipante. Nella terza parte, le ospiti presentano un riferimento femminile che ha influenzato il loro lavoro, contribuendo così alla costruzione di un archivio che mette in evidenza artiste e promuove la costruzione di una genealogia femminile nell’arte.

Il Progetto Vestales si è trasformato nel legame che mi collega alle donne del mio paese, fornendomi il sostegno emotivo necessario per mantenere la mia salute durante questo viaggio turbolento di migrazione e adattamento a un’altra cultura. La voce delle altre donne è diventata un costante promemoria di ciò che dà senso alla mia vita. Con le parole di ciascuna delle mie ospiti si aprono nuove possibilità per comprendere me stessa come artista. Le donne e le loro voci sono diventate il vero luogo a cui appartengo, al di là di una patria o di una nazione.

Ho scoperto che il Progetto Vestales è un invito per altre donne ad alimentare il fuoco che ci mantiene vive e complete. Il fuoco della creatività che arde nelle viscere di ciascuna di noi, ma che è alimentato dalla relazione e dall’impegno delle altre.

Il progetto è disponibile su diverse piattaforme di podcast, come Spotify, Ivoox, Apple Podcasts e Google Podcasts, con il nome “Vestales: Conversaciones sobre arte”. Inoltre, gli episodi possono essere ascoltati sul canale YouTube del progetto, chiamato “Proyecto Vestales”. Sul profilo Instagram, @somovestales, pubblico costantemente informazioni sulle donne che invito, e incoraggio altre a far parte del progetto. È di fondamentale importanza per me che la partecipazione sia completamente volontaria e che avvenga nei ritmi che ogni artista ritiene necessari; per questo, sono sempre aperta a ricevere proposte per la creazione di nuovi episodi.

Link del progetto:

Su di me:

Sono nata e cresciuta a Bogotá, capitale della Colombia. Nella stessa città ho studiato per cinque anni Belle Arti presso l’Università Jorge Tadeo Lozano. Dal 2021 vivo a Barcellona, dove ho conseguito un master in Commissariato d’Arte Digitale presso Esdi, centro affiliato all’Università Ramon Llull. Quest’anno ho ottenuto una borsa di studio per frequentare il master in Politiche delle Donne presso DUODA, presso l’Universitat de Barcelona. In questo master, ho avuto la fortuna di seguire il corso di Politica Visiva con Laura Mercader Amigó, che mi ha aiutato ad arricchire la mia prospettiva sulla pratica artistica e a comprenderla dall’ottica della differenza sessuale.

Domenica 1 dicembre 2024, 10:30-13:00
Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano

Il rapporto tra le donne e il denaro è difficile, storicamente segnato da un tabù: il denaro è ciò di cui non si parla e sovente è stato lasciato nelle mani degli uomini. Luce Irigaray riflette sul denaro nel saggio “Le donne, il sacro e il denaro” mettendo in evidenza lo squilibrio insito nelle nostre società, essendo misconosciute, gratuite o sottopagate infrastrutture portanti come il lavoro delle donne e quello intellettuale. Le femministe delle origini hanno risposto creando un “mondo comune delle donne”, ovvero dando vita a una nuova socialità femminile fatta di sistemi di scambi in cui circolasse denaro e tanti altri beni di valore come tempo, relazioni, passioni condivise.
Oggi lo squilibrio è ancora più accentuato e crescono le disuguaglianze. La nostra è una società della prestazione, segnata da individualismo e godimento immediato. La misura del valore spesso passa dal successo economico e il denaro può diventare simbolo di valore personale, soprattutto per le giovani donne che subiscono una doppia pressione contrastante: dimostrare di essere all’altezza di standard storicamente maschili, e conformarsi ad aspettative sociali di cura. All’impoverimento del tempo per sé corrisponde un consumo compulsivo come risposta a una sensazione di vuoto o insoddisfazione. Per converso è sempre più in crescita il numero delle donne che lasciano lavori ottimamente retribuiti per dare un’altra direzione di senso alla loro vita.
Tornare a riflettere sul rapporto con il denaro porta a domandarci:
Quali motivazioni e desideri profondi orientano le nostre scelte?
Quanto denaro è abbastanza?
Come guardare al denaro e alle regole che impone in modo libero e creativo?

Introducono la discussione Laura Colombo, Linda Marana, Daniela Santoro.

Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza.
Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.
È possibile anche il collegamento su Zoom, sempre su prenotazione.

Carla Lonzi ha definito un capolavoro una serata ben riuscita. In Libreria, al Circolo della Rosa l’invenzione del gruppo di cucina relazionale Estia ha riattivato l’arte della manutenzione tenendo insieme parola e nutrimento senza soluzione di continuità. Animate dalla passione politica, le neopreziose sono state e sono artefici di tessuti relazionali, artiste della relazione. Un lavoro invisibile perché precede l’esposizione pubblica, la messa in tavola dei piatti che velocemente si svuoteranno ma richiedono molto pensiero creativo, ricerca, studio e lavoro manuale. E soprattutto ascolto delle esigenze dell’altra/o che non sono uguali, quindi a ciascuna/o secondo i suoi bisogni. 

Nel tempo ci sono stati spesso momenti di tensione tra il desiderio di alcune di parola come forma di espressività e il desiderio di altre di un fare, che senza contrapporsi hanno poi trovato sbocco in proposte creative come per esempio il ciclo di incontri Cibo dell’anima cibo del corpo, ideato da Luisa Muraro, Ida Farè, Sandra Bonfiglioli, Rossella Bertolazzi, Stefania Giannotti e Clelia Pallotta. In questo gioco di desideri differenti in cui uno nutriva l’altro e viceversa, la gioia del buon cibo generava pensiero di qualità e le relazioni in presenza si arricchivano. L’arte della conversazione ha preso forma e corpo in un continuum tra vita, lavoro e politica come un fiume che scorre: il Fiume dell’Inclinazione della Carte de Tendre.

La Preziosità ha portato la “civiltà della conversazione”1, che fu una rivoluzione linguistica in una Francia afflitta dalle guerre con una divisione rigida fra i sessi. Le Preziose spezzarono la barriera tra i ruoli sessuali trasformando le loro dimore, gli hôtels particuliers, le loro camere da letto, les ruelles, in luoghi di parola che si ampliarono in salotti aperti agli uomini. 

Romanzi come La Princesse de Clèves di Madame de Lafayette o Clélie, histoire romaine di Madeleine de Scudéry rappresentano una raffinata operazione linguistica e letteraria volta non solo a demilitarizzare la lingua attraverso una sapiente analisi dei sentimenti e dell’interiorità conflittuale dei personaggi, ma a orientare e guidare una società verso un cambiamento.

La Carte de Tendre è una mappa che disegna un intreccio fra la lingua materna e un paese immaginario, visione di un abitare nel mondo il cui fondamento sono le relazioni fra i sessi, dove gli uomini sono disponibili all’ascolto di parole preziose e prendono le distanze dalle parole armate e il territorio si fa espressione dei sentimenti, non oggetto di conquista e dominio. Una mappa del cuore di cui l’autrice si serve per mostrare come l’autorità di una preziosa regolava il ritmo della conversazione, dava la misura.

Le preziose di oggi incarnano questa modalità del piacere e della libera espressione di sé dando vita a una politica che non si sostituisce alle forme di vita.

  1. Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, Adelphi 2001  ↩︎

Prof, perché ci parli di artiste che nel libro di storia dell’arte non ci sono?

– Perché il libro è sbagliato.

– Ci sono libri sbagliati?

– No, lo sbaglio l’ho fatto io che ho scelto per voi questo libro.

– Come mai?

– L’ho scelto perché è fatto da due studiose, due donne.

– È questo lo sbaglio?

– No. Ma dovevo controllare che non fossero orbe.

– Orbe?

– Che non avessero la vista difettosa; il problema si pone con chi ha la vista difettosa ma non lo sa.

– Come le autrici del nostro libro di storia dell’arte?

– Sì.

– È per questo che non vedono le opere di Artemisia Gentileschi, di Sofonisba Anguissola, di Rosalba Carriera?

– Sì.

– Qual è la causa di questo difetto?

– È la mancanza di orientamento. Come ti ho insegnato, la comprensione di un’immagine è il risultato di una interazione tra chi guarda e l’immagine stessa, esattamente come capita tra due persone che fanno conoscenza. Si tratta di un processo dinamico che richiede uno spostamento, un andare verso: per questo “andare verso”, è necessario ricercare e definire il luogo da cui muovere, altrimenti è un andare a caso, che è una forma di cecità peggiore della cecità fisica.

– Cercare questo luogo è come cercare il punto di vista?

– Sì. dal punto di vista in cui si sono messe le autrici del nostro libro di storia dell’arte si vedono solo artisti uomini, non si vedono donne.

– È strano, anche loro sono donne.

– Non è tanto strano, perché le donne, più degli uomini, sono messe in difficoltà dalla nostra cultura che nega la madre come primo punto di vista sul mondo.

– La mamma è un punto di vista?

– Rudolf Arnheim nei suoi Pensieri sull’educazione artistica (Aesthetica, Palermo 1992) spiega che la nostra conoscenza si basa molto sul guardare e che procede per gradi, a partire dagli oggetti più familiari, come il cane di casa. Ma l’oggetto primo che ogni bambina e bambino imparano a riconoscere non è il cane di casa, è la madre. La ri-conoscenza della madre permette alla bambina come al bambino di spostare lo sguardo sugli oggetti che la madre le indica e le nomina.

– La mamma, insomma, è una maestra di punto di vista, come te, prof, quando siamo andati al Museo.

– Sì, quello che io ho fatto per farvi conoscere i quadri, ogni madre fa con i suoi figli piccoli per far loro conoscere il mondo in cu li ha messi.

– Come si fa a negare questa cosa?

– In tanti modi. Rudolf Arnheim, per esempio, dice che i neonati si guardano intorno per conoscere l’ambiente ed evitarne i pericoli, e non considera la loro relazione con la madre che li rassicura e li invita a guardare il mondo. Io penso che l’orientamento, cioè la possibilità di vedere, sia il risultato di due sguardi, in successione, un primo sguardo verso la madre e un secondo sguardo verso il mondo. per cui, alla base della conoscenza, non c’è, come dice Arnheim, un’esigenza di difesa dall’ambiente, ma uno schema di amore-relazione, che può diventare, se ne prendiamo coscienza, paradigma di conoscenza, di orientamento personale e di modo di stare al mondo.

– Ma finora come abbiamo fatto per conoscere il mondo?

– Abbiamo fatto con l’insostituibile aiuto del punto di vista materno. Ma senza averne coscienza, per cui la donna, senza rapporto consapevole con il punto di vista materno, ha perso il posto da cui guardare, in maniera sua originale, il mondo. E ha perso, insieme, il senso autonomo di sé, rimanendo esposta allo sguardo altrui. Il nostro libro di storia dell’arte è pieno di donne rappresentate da artisti uomini.

– E l’uomo?

– L’uomo ha sostituito il punto di vista materno con il suo modo scientifico di guardare il mondo. Tu conosci la storia della prospettiva. Nel Rinascimento nasce la prospettiva che rappresenta il mondo visto da un solo occhio. C’è una famosa incisione di Dürer del 1525 (te la farò vedere) che rappresenta un uomo che disegna un vaso in prospettiva, guardandolo attraverso un buco a cui appone il suo occhio e dal quel buco, da quell’occhio fisso, eterno, universale, vede e fa vedere la realtà che diventa essa stessa fissa, eterna, universale. Infatti, nella costruzione prospettica la distanza si annulla perché il punto di vista coincide con il punto di vista più lontano posto sulla linea dell’orizzonte, il punto in cui convergono le linee parallele, cioè l’infinito.

– Io ho capito che gli uomini, al posto del punto di vista materno, hanno messo l’infinito. Hanno sbagliato?

– L’unico sbaglio, da cui siamo partite, l’ho fatto io scegliendo un libro che non corrisponde al mio insegnamento. Io voglio insegnarti a leggere il modo in cui le donne e gli uomini leggono il mondo. L’uomo, con la sua costruzione prospettica, tiene l’occhio fisso sull’infinito, e allontana così, dal suo campo visivo, ogni essere umano in carne e ossa, a cominciare da se stesso, perché ne ha allontanato, per cominciare, la madre, oggetto primario della percezione. Al suo posto ha messo un cane (psicologia) e il buco della serratura (scienza della prospettiva). Si crea così la situazione descritta anche da Arnheim, per cui un essere umano può vedere le cose, “ma non riconoscerle”.

– Allora c’è qualcosa di sbagliato!

– Non so. Certo, adesso sta tornando la guerra e gli uomini si dividono tra quelli che in guerra ci vanno e quelli che della guerra parlano guardandola dal buco della serratura con un occhio solo. ma in realtà abbiamo due occhi, abbiamo un corpo, abbiamo una madre, siamo due sessi. Forse, come dici tu, c’è qualcosa di sbagliato nella prospettiva maschile. 

(Via Dogana n. 12, settembre/ottobre 1993)

«Come oggi le pratiche artistiche possono arricchire il vivere insieme?» chiedeva l’invito all’incontro di Via Dogana Tre del 6 ottobre scorso, L’arte della relazione. Una domanda molto importante che mi ha fatto subito pensare alle tante attività della Città Felice, un’aggregazione di donne e qualche uomo che ha sempre cercato di arricchire il vivere insieme legando arte e città con le pratiche femministe. Racconto un’iniziativa recente con la quale abbiamo voluto mettere al centro la nostra storia, politica e artistica, nella città.

Nelle mani, donne, uomini, ragazze e ragazzi tengono una mappa delle strade di Catania in cui in giallo sono evidenziati i nomi dei luoghi del femminismo catanese: quelli storicamente attivi e operativi, quelli che hanno operato sino a non troppo tempo fa e quelli degli anni ’70… tantissimo tempo fa!

La “Passeggiata femminista” organizzata dalla Città Felice di Catania si svolge in maniera allegra, discorsiva e istruttiva. Il percorso è tortuoso e tocca alcune zone della città: soprattutto quelle del centro storico dove erano concentrate, ma lo sono ancora oggi, le sedi di gruppi, reti e collettivi femministi. Quando chi guida il corteo si sofferma davanti ai luoghi femministi storici che si sono trasferiti altrove o che hanno cambiato nome oltre che sede, come ad esempio il SE-NO de “Le Lune”, e racconta la storia di quel luogo spiegando la politica che vi si svolgeva negli anni ’80, gli attuali abitanti di quel luogo che era il più fervente spazio separatista di Catania, si uniscono interessati al gruppo in ascolto, ignari dell’importanza politica che quel posto underground, ora adibito a localino alla moda, avesse ricoperto sino a circa trent’anni fa. In ogni luogo femminista dove ci si sofferma, che sia appena nato, che sia in vita da sempre o che faccia parte integrante della memoria femminista della città, c’è sempre una donna di quel contesto che narra delle attività svolte o da svolgere in quello spazio, del pensiero politico e della pratica che connotano o hanno connotato quelle mura preziose intrise di senso. Quando si prosegue nella Passeggiata femminista, sui portoni dei luoghi che sono stati narrati e significati della politica delle donne, rimangono affisse le loro storie scritte in cartoncini colorati arricchiti da frasi di grandi pensatrici e da opere artistiche realizzate da noi di Città Felice, ora a carattere ironico e spiritoso, ora raffiguranti ricordi stilizzati di episodi avvenuti in quel posto, ora evidenziando immagini e foto riguardanti l’importanza delle relazioni tra donne. 

L’idea di proporre alle donne e agli uomini di Catania la Passeggiata femminista e di realizzarla in tutti i suoi momenti, cercando di condurla al nostro presente e di proporla con forme e contenuti più corrispondenti all’oggi, ci è venuta in buona parte dalla storia delle femministe bostoniane che molti anni fa decisero di segnalare in maniera creativa il lavoro politico che svolgevano nella loro Boston, rendendo note le loro storie e le vivaci attività che mettevano in essere, contrassegnando concettualmente con una interminabile striscia gialla tracciata sul selciato i luoghi e le sedi femministe che avevano fondate e che a quel punto erano strettamente legate le une alle altre, potendo ben  asserire che nella città di Boston avevano dato risonanza e visibilità a una straordinaria HER STORY.

Arte, relazioni, creatività, lingua materna, lavoro… sono alcune delle parole che mi hanno interpellata nell’incontro di domenica 6 ottobre.

Durante il dibattito, come questione problematica messa in gioco da Giordana Masotto è venuta fuori la contraddizione che esiste tra trovare uno spazio di creatività nel proprio lavoro e avere una stabilità e una retribuzione adeguata. Sembra quasi che sia necessario scegliere tra l’una o l’altra: o creatività o retribuzione. Come si può provare a negoziare la creatività nel lavoro? Era la domanda che si poneva nella conclusione del suo intervento. Poco dopo è intervenuta Elisabetta Cibelli facendo riferimento alla dimensione incommensurabile della creazione e dell’arte, per poi constatare, appunto, le difficoltà di portarla al mondo del lavoro. 

Allora ho pensato che, in realtà forse, può essere proprio attraverso l’arte della relazione e della mediazione che si possono mettere insieme le due cose, prendendo, volta per volta, quella parte della mia creatività che riesco a far entrare nel mio lavoro, qualsiasi esso sia. Certo, ci vuole quell’arte della cura che ci guida nel discernere come rendere efficace ma anche bella la mossa precisa che mette in dialogo le due dimensioni. Quale pezzo della mia creatività può andare bene in quel pezzo del mio lavoro? con quale modalità far incontrare i due mondi? Venendo poi fuori un’opera diversa, nuova, ma forse ugualmente bella. La cura o l’arte delle relazioni, in questo caso, mi permette di scegliere l’aspetto che vorrei accentuare e, che forse proprio quel tipo di lavoro, con quel gruppo di persone e in quel preciso momento, mi permette di veicolare senza rinunce o laceranti alternative. 

Se parlo del mio lavoro vi posso dire che, per esempio, l’arte della giustizia di Simone Weil, l’incommensurabile purezza del suo pensiero mi porta sempre più spesso a parlare di lei al lavoro, insegnando alle studentesse e agli studenti delle mie facoltà di scienze politiche e di giurisprudenza, frammenti della sua opera. Mi sono autorizzata a saltare la barriera simbolica del diritto (Clara Jourdan): la barriera di un programma universitario basato sull’ordine normativo del lavoro. Ho voluto tracciare un percorso di genealogia femminile nel diritto che, facendo dialogare i due mondi, mettesse sempre più da parte quello normativo. Sono stata facilitata dalla critica ai diritti di Simone Weil e dal libro, a lei ispirato, Non credere di avere diritti. Trovare con grazia ed efficacia il pezzo dell’incommensurabilità da portare al lavoro è stato un mio momento creativo. 

La scommessa più recente è far diventare la scrittura giuridica una scrittura creativa. Per farlo ho voluto cogliere quell’attimo – personale, materiale, relazionale e temporale – in cui posso dirlo con la lingua materna, spostando il linguaggio specialistico o mettendolo da parte, per collocare al centro la lingua materna di Simone Weil e creare insieme a lei la strada di un altro ordine, l’ordine del bene e dell’essere umano. La creazione sta nello spostamento verso «la contemplazione delle opere d’arte autentiche, e ancor di più quella della bellezza del mondo, e ancor più quella del bene sconosciuto al quale aspiriamo, per sostenerci nello sforzo di pensare continuamente all’ordine umano che deve essere il nostro primo oggetto» (Simone Weil, La prima radice, SE, Milano, 1990, p. 20).

Suscita gioia poter constatare di persona che un filo rosso lega le scoperte nel campo dell’arte degli anni ’70 e le pratiche artistiche di oggi. È ciò che ho provato quando Donatella Franchi e Giorgia Basch hanno introdotto questo numero di Via Dogana 3, L’arte della relazione, in un dialogo a due voci che ho sentito in forte sintonia. Dentro di me hanno trovato un’eco profonda le parole di Donatella quando ha affermato che tutti e tutte hanno un io creativo che devono poter esprimere per stare in un modo sensato nel mondo. Se da un lato le sue parole mi rimandavano a Carla Lonzi, che pensava che non è immaginabile che si accetti una parte dell’umanità tagliata fuori dal fatto creativo, dall’altro lato toccavano un punto centrale nella mia vita: l’esprimersi come atto creativo, come modo di partecipare alla vita comune.

Per parte mia “l’esprimersi” è stato ed è principalmente legato alla scrittura. Devo tuttavia precisare che, da dilettante, mi piace lavorare con le mani e passo del tempo a creare manufatti di vario tipo, come sanno le molte che hanno in casa le mie tovagliette o usano i segnalibri con il nuovo logo della Libreria delle donne di Milano, ricevuti comprando un libro.

La passione per lo scrivere mi accompagna da tutta la vita e sento che le ore passate a cercare le parole sono ore “belle” anche quando sono un tormento… voglio dire con questo che c’è una soddisfazione e un piacere legati all’atto stesso di farlo. Che appaga. Scrivere apparentemente sembra un atto individuale (una lei da sola davanti a un foglio bianco o a un computer) in realtà è profondamente relazionale. Ho sempre cercato una scrittura in cui io fossi compresa, ma che non fosse solo mia. La desidero non solo mia, nel doppio significato di nascere da una interlocuzione e di dare voce a qualcosa in cui altre e altri possano riconoscersi. 

Molte donne della mia generazione – e anche io mi metto tra queste – hanno cercato di riversare nel proprio contesto le scoperte che facevano a partire da sé, ma che erano frutto di tutto il dibattito politico e teorico di quegli anni. Io, allora, mi trovavo a lavorare nella scuola e da insegnante ho pensato che quello che valeva per me, cioè bisogno di esprimersi e scrittura relazionale, potesse valere anche per alunni e alunne. In questo mi sentivo pienamente sostenuta dalle riflessioni di Annamaria Ortese. Per lei l’esprimersi con la scrittura era alla pari con il sopravvivere e in Corpo celeste(1997) afferma che ogni adolescenza ha bisogno di «dare una forma propria, quindi nuova, a ciò che sente» entrando nel mondo. L’Ortese non salva la cultura e le opere letterarie in sé. Infatti dice: «Godere e consumare il bene “prodotto da altri” – l’espressività altrui – sembra buona sorte a chi ha denaro. Non lo è. Necessario non è comprare e godere, ma fare e pensare in proprio. Al ragazzo delle moltitudini come al ragazzo delle minoranze popolari». (p. 93)

Da questo insieme di esperienze personali e pratiche e riflessioni e scambi e ancora pratiche, è nata un’ipotesi di insegnamento della lingua, come ho raccontato in Un’altra possibilità alla vita. La ritengo tuttora capace di operare trasformazioni, perché può orientare ragazze e ragazzi verso bisogni profondi che, per loro natura, sono più veri di quelli di superficie, spesso indotti. Quel testo fa parte di una articolata riflessione sulla lingua e il suo insegnamento, portata avanti nel movimento di autoriforma della scuola sfociata in un convegno e poi in un libro collettivo, Lingua bene comune (2006).

Una concezione dell’arte che abbraccia la vita, offre molti spunti altri di riflessione. Se, infatti, lo scopo dell’arte è «arricchire il vivere insieme» e se creare contesti di relazioni diventa «un atto creativo», questa posizione diventa preziosa per chi porta avanti la politica delle donne. Lonzi ha dilatato l’ambito artistico fino a comprendere anche una «frase trovata», «una serata riuscita» e penso che soffermarsi su questa apertura e metterla in rapporto con la politica delle relazioni, che sostanzialmente è fatta di incontri e di “serate”, possa aprire a spostamenti importanti. 

Considerare una serata un’opera d’arte ci sposta immediatamente dal terreno del potere o della visibilità o della ripetizione: è quasi un antidoto quando le pratiche tendono a contaminarsi con logiche di potere o a essere ripetitive, rischiando di diventare burocratiche. 

Mi è tornato in mente il libro di Wanda Tommasi Ciò che non dipende da me (2016), in cui l’autrice riflette sulla indimenticabile signora Ramsay, protagonista del romanzo di Virginia Woolf Al faro. La considera un punto di equilibrio perché è una figura che tiene insieme un intenso coinvolgimento relazionale e una forte centratura su di sé. Ai due estremi contrapposti sono le protagoniste di altri due romanzi: quella anonima de La Parete di Marlen Haushofer, che rappresenta la totale solitudine e chiusura in sé; e la Monique di Una donna spezzata di Simone de Beauvoir, che rappresenta il dispendio totale di sé nel ruolo di moglie e di madre. 

La signora Ramsay è un personaggio ispirato alla madre di Virginia Woolf e il romanzo è una sorta di omaggio alla sua figura. Quello che qui interessa mettere in luce è che possiede l’arte di tenere insieme in una serata persone molto differenti, di far fluire la conversazione, di offrire cibi ben cucinati. Come padrona di casa, la signora Ramsay conosce l’arte per far sì che una serata sia ben riuscita e ci si può ispirare a lei per riprendere qualcosa da una tradizionale grandezza femminile. 

Tuttavia per la coscienza di oggi questo non basta: perché una serata sia ben riuscita sentiamo l’esigenza di qualcosa di più, avvertiamo il bisogno dell’accendersi di un pensiero che susciti rimandi che fanno luce dentro di sé. Possiamo chiamarla l’arte del “pensare in presenza” per dirlo con le parole di Chiara Zamboni. 

Negli Scritti di Londra (1957) Simone Weil ci dice che il pensiero si nutre di gioia e che lei stessa sente come una asfissia il suo venir meno, che fa spegnere l’intelligenza. La gioia non coincide con i piaceri, i divertimenti oppure con la soddisfazione delle vanità e ci avverte che «non si dà la gioia dal di fuori ad un essere umano o a una collettività, bisogna che nasca dall’interno». Ma poi aggiunge: «tuttavia ci sono delle condizioni che la rendono o non la rendono possibile» (pag. 168). 

Ecco, nell’agire politico ispirarsi alle pratiche artistiche e fare della relazione un’arte apre a una ricerca consapevole per esplorare quali sono le condizioni che rendono possibile la gioia.

Sono contenta di potervi vedere anche se con zoom vi vedo dentro a dei quadrettini. 

Grazie per questo incontro sulle relazioni. È un tema che mi entusiasma sempre. 

Volevo dare il mio contributo per dirvi che ho conosciuto Donatella Franchi nel 2001 quando è venuta ad inaugurare e a presentare la mostra di ICONE – Spiritualità femminile e Immagini di Dio, allestita nell’Oratorio di Villa Simion a Spinea (Venezia). Vicino alla Biblioteca Comunale. 

Il fatto che tutte le icone fossero state create da donne aveva fatto sorgere anche un po’ di scandalo, perché qualche uomo amante di tale modo di esprimersi affermava che era questa un’arte di spiritualità solo maschile. 

Donatella, artista e ricercatrice, ci ha detto che la sua attenzione e il suo lavoro avevano, come centro di interesse, i percorsi della creatività femminile nell’arte e nelle relazioni.

Nel dialogo che immediatamente è sorto tra noi e alle sue domande sull’arte io ho confessato che non ero proprio un’artista, non mi intendevo di quadri e tantomeno di icone, l’unica cosa che mi veniva spontanea di dire, quando andavo a vedere qualche mostra e guardavo alcuni quadri, era: mi piace o non mi piace, questo qua è bello oppure non mi interessa. Insomma, non sapevo dare un mio giudizio, non mi azzardavo a criticare l’autrice o l’autore.

«Guarda che tu sei un’artista delle relazioni». E in seguito: «Tu sai stare insieme a tutte e a tutti e fai in modo che tutte e tutti stiano in dialogo e in comunicazione tra di loro. Il lavoro che fai è arte». 

In quel momento Donatella ha rivelato me a me stessa, perché ho sentito che era vero che il mio fare-comunicare rispondente al mio desiderio d’amore, la mia passione per metterlo al mondo insieme alle mie simili e con gli uomini di buona volontà, mi richiedeva riflessione, conoscenza, impegno, fatica, ricerca, tempo, pazienza, attenzione per me, per tutte/i le donne e gli uomini che incontravo, e anche per la natura e per ogni vivente. 

Così credo di aver capito, mi è stato chiaro che ogni essere umano ha una o più parti di sé, che se si riconosce o viene riconosciuta e desidera esprimere e comunicare al mondo, quando la realizza compie un’opera artistica.  

Da tantissimi anni, con Identità e Differenza – Associazione Culturale Politica e Apartitica di Spinea, mi occupo, ci occupiamo di ricerca culturale e politica e della promozione di pratiche di dialogo e di scambio nel pieno e reciproco riconoscimento di ogni differenza e diversità. Abbiamo sempre operato per dare valore, significato e visibilità alla differenza dell’essere donna e dell’essere uomo. 

All’interno di questa attività, si articola un lungo percorso di ricerca sull’elaborazione creativa e simbolica che le donne compiono per stare al mondo in fedeltà a sé e in relazione con le altre donne e con gli uomini. 

Il nostro stile di ricerca avviene attraverso la pratica dello scambio, del mettersi in gioco personalmente, a partire da sé, e dal saper stare in relazione non strumentale e rispettosa con ogni Altra e Altro e con un unico scopo: la pace. 

Forse qualcuna/o di voi ricorda l’installazione Riparare le relazioni. Tessere relazioni è arte, sempre a Villa Simion a Spinea nel 2018, a cura di Donatella, mia, con la collaborazione di Franca Bertagnolli, artista scenografa, e con la partecipazione delle donne e uomini di Identità e Differenza. Un’opera corale molto suggestiva, fatta dei pensieri di 151 persone, stampati e ricamati su tela. 

Donatella ha sempre partecipato agli incontri, alle mostre, alle installazioni a Spinea e ai Convegni Annuali, prima ad Asolo e poi a Torreglia, organizzati dalla nostra associazione. 

Non ci è mai mancata la sua grande cura sia dell’aspetto comunicativo culturale, sia dell’immagine visiva artistica che, ogni volta, ha aperto i nostri scritti, gli atti degli incontri e dei convegni.

Il mio profondo rapporto d’amicizia con Donatella, che dal 2001 collabora con noi, è un esempio della creatività delle relazioni e di come tessere relazioni sia arte della vita.

A proposito dell’arte e l’arte della relazione. Sono passati quarantasei anni dalla pubblicazione del libro Ci vediamo il mercoledì gli altri giorni ci immaginiamo (Mazzotta ed., Milano 1978), che raccoglie i lavori collettivi del nostro gruppo di artiste e fotografe. Il titolo è l’esatta rappresentazione di cosa è stato quel gruppo, una relazione stretta fra donne che ha prodotto fotografie, filmati e non solo, anche installazioni e viaggi insieme.

Abbiamo vissuto intensamente il nostro operare ignorando il sistema dell’arte, non volendo entrarci, così appagate dal nostro fare in collettivo o anche in solitudine. Molti di questi lavori sono di difficile attribuzione perché siamo intervenute a più mani e a più idee, l’idea di una diventava il filmato o la serie fotografica di un’altra. Dopo quasi cinquant’anni questa pubblicazione è diventata fonte di studio per giovani donne che la presentano nelle loro tesi, donne che si relazionano con noi, che ci intervistano, che ci fanno rivivere nella memoria quella esperienza esistenziale che era arte. Allora le nostre giornate erano scandite da incontri e da un fare che si mischiava fra arte e quotidiano, o gesti quotidiani che diventavano materiale artistico. Il 5 ottobre, il giorno prima della riunione di Via Dogana 3 ci siamo di nuovo ritrovate, io, Diana Bond e Paola Mattioli, in viaggio verso Ravenna per l’inaugurazione della mostra “Fotografia e Femminismi” presso la Fondazione Sabe per l’Arte, Storie e Immagini dalla collezione Donata Pizzi. Mancavano tre di noi: Adriana Monti perché vive in Canada, Silvia Truppi non è più fra noi, Bundi Alberti aveva altri impegni, Esperanza Núñez ha rotto con il gruppo. Comunque, ancora una volta insieme a raccontarci e a confermare questo filo rosso dell’arte che è riuscito a ricucire i nostri conflitti passati, confermando la forza che l’arte femminista ha nel tenere insieme le relazioni nonostante il tempo che passa. L’arte è la cura della propria mente che si fa ad ogni costo. È accettata dagli altri come gratuita, a parte gli artisti inseriti nel sistema, questi diventano dei maestri/e, dei santoni, delle divinità, perché la loro non è una vera e propria professione, è qualcosa di talmente idealizzato che si avvolge in un’aurea divina. L’Arte è biforme, libertaria e classista insieme. Per fare arte bisogna essere molto generosi. Pensiamo a Vivian Maier, ha passato un’intera vita dividendosi fra il ruolo di governante e di fotografa, la fotografia probabilmente le permetteva di resistere alla solitudine. Non si può nemmeno pensare di fare le artiste senza andare incontro a dei conflitti o anche a delle invidie, la nostra esperienza del mercoledì è stata veramente unica e irripetibile e capisco che sia diventata un campo di studio per altre giovani donne. 

Riproponiamo una riflessione apparsa nel 2019 sulla rivista Alfabeta2

Dicono: l’arte per l’arte. È giusto? A me pare la formula di una malsana purezza. L’arte non vuole stare da sola. Non vuole stare al servizio di niente e di nessuno, d’accordo; l’utile o l’inutile non la riguarda primariamente, d’accordo, dicono che lei è superiore. Ma, dico io, non vuole esserlo da sola. Insieme, dunque; a che cosa, precisamente? 

A questo tipo di domanda le mie studentesse rispondevano: dipende. Da che cosa? E loro: a seconda. Avevano ragione, insegnavo pedagogia, che è come l’estetica, che non sono fatte per dare le risposte. Quelle che ci sono, se ci sono, si presentano di suo, a te tocca farti trovare sulla strada giusta e riconoscerle. Sono incontri che a volte ti cambiano la vita, chi ha una vocazione lo sa. 

Secondo me all’arte non piace nemmeno stare nei musei, così come alla più parte dei bambini non piace stare chiusi nelle aule della scuola né alle galline di mia mamma piaceva restare dietro la rete di recinzione che le separava dall’orto e dal giardino (quando, in questo scrittarello, dico “secondo me”, non è in vista di una qualche teoria, non aspiro a tanto, lo dico relativamente a un guadagno possibile di intimità con l’opera d’arte). 

Non per parlare di me ma per parlare di quello che so: un’idea del bello si è fatta sensibile in me quella volta che entrai in un grande rustico di una villa palladiana in abbandono, abitato da contadini. E vidi, quando gli occhi si abituarono alla penombra, che i pochi mobili e tutto l’arredo erano perfetti e perfetto era lo spazio che li conteneva. Eravamo prima della plastica e del consumismo. 

Sempre sul filo dall’esperienza vissuta, arrivo alla mostra Vetrine di libertà, aperta in questi mesi alla Fabbrica del vapore, Milano, fino al 6 giugno. 

Come forse sapete, la mostra raccoglie le opere di trenta artiste che, mese dopo mese, hanno arredato una delle vetrine della Libreria delle donne, la quarta. A ogni nuova vetrina c’era un incontro lì sul posto, un comodo locale per conferenze e merende, con lo scopo di commentare la nuova opera insieme all’artista di turno e a Francesca Pasini che l’aveva invitata a esporre. 

Non ho mai mancato a quegli incontri, perché in arte contemporanea sono un’analfabeta e volevo almeno vincere la mia ostilità dovuta all’ignoranza, credo. Com’è andata? Bene, ma in un modo diverso da quello che speravo, che avrebbe dovuto essere una specie di nuova competenza. Non l’ho acquisita ma ho capito delle cose. 

È andata più o meno così. Si arrivava da tante parti all’appuntamento mensile in Libreria, via Pietro Calvi 29. Arrivando io guardavo la nuova opera da fuori, cioè dal marciapiede, poi da dentro, così come si presentava nella stanza delle conferenze e delle merende. C’erano delle differenze tra dentro e fuori, le vedevo ma, a parte questo, non sapevo mai bene che cosa avevo visto né che cosa ci fosse da vedere. La mia esperienza archetipica del bello, fatta nella barchessa palladiana, era troppo distante da quello che vedevo, troppo distante era cioè la mia infanzia uscita indenne dalla guerra e non ancora raggiunta dal boom economico. 

All’appuntamento c’erano anche artisti e artiste; era una situazione simile a quella creata da Carla Lonzi con Autoritratto, dove però tutti parlano dell’arte dall’interno, compresa lei che dell’arte era intima per la familiarità con gli artisti da lei convocati. Tra noi invece c’era una varietà di situazioni, c’erano anche persone ignoranti (come me) o silenziose, ma erano molti quelli che si dedicavano a parlare dell’opera messa a fare da vetrina e lo facevano volentieri. Ogni tanto qualche passante si fermava a guardarla dall’altra parte del vetro, sul marciapiede. Così, pian piano, l’opera diventava anche per me qualcosa che voleva dire qualcosa e di cui si poteva parlare; la guardavo e mi suggeriva dei pensieri, diventava una presenza. I pensieri che mi suggeriva non sempre concordavano con quelli già espressi dai presenti, per la mia impreparazione, sicuramente, ma anche per il bisogno che avevo di provocare risposte. Tant’è che quando li esprimevo a voce alta, c’erano spesso delle risate o delle proteste. È stato molto divertente e, per me, istruttivo. 

Ho capito così che l’arte non può stare da sola. Non sarei arrivata nelle sue vicinanze senza gli altri con i loro discorsi di persone esperte e affezionate. Quando poi ci arrivavo, nelle vicinanze, in qualche caso scoprivo che l’opera stessa era già in compagnia, non di cose a me estranee ma, sorpresa, di cose mie. Faccio l’esempio di un’opera che ho soprannominato “Il ripostiglio del Paradiso”, con riferimento alla terza cantica di Dante. È la cantica più difficile da leggere ma, ancor prima e ben più lo fu da scrivere. Lo avevo pensato leggendola l’estate prima. E nell’opera che ornava la quarta vetrina ho cominciato a vedere quella stanza che si chiama anche sgombero, usata da Dante per riporre pezzi in lavorazione e strumenti del suo lavoro poetico, l’ultimo e il più arduo, dal quale si aspettava in premio di essere richiamato a Firenze. Invano. 

In quella mia esperienza estetica non c’entrava solo Dante, cioè la mia cultura classica, c’entrava anche il mio senso strategico di casalinga che sa quanto sia importante disporre di un ripostiglio. Non era come i nostri normali ripostigli, era sì una stanza un po’ disordinata ma era ingombra di oggetti delicati, finissimi, lucenti, celesti… era un’opera troppo delicata per essere riprodotta nella Mostra delle Vetrine, dove la cerchereste invano, anche per questo ve l’ho raccontata. 

Ho capito un’altra cosa, che riguarda proprio la faccenda del farsi trovare sulla strada giusta. Come si fa? Nella vicenda che ha portato alla mostra Vetrine di libertà, le circostanze suggeriscono una risposta. Si trattava della vetrina di una libreria che si dedica a opere scritte da donne. E donne sono le autrici delle opere confluite ora nella Mostra. Qualcuno può legittimamente pensare che si tratti di una convenzione sensata per rimediare a un ingiusto silenzio verso il lavoro artistico delle donne. 

Non io. Per me la preferenza data alle artiste e alle scrittrici è stata e rimane la risposta a una domanda che mi fu posta anni fa da un uomo che merita di essere chiamato filosofo: Luisa, perché vai con le femministe? La domanda mi portò di slancio fuori dal recinto della filosofia imparata a scuola e mi mise sulla strada giusta. Non parlo contro la scuola, ho passato una vita a insegnare. La grandezza di un pensiero teorico è che aiuta a leggere l’esperienza e dà delle buone risposte; penso però che la sua grandezza si mostri pienamente quando ti estromette da sé mettendoti su una pista buona, come fu quella volta per me. Il pensiero filosofico è neutro universale, io vado con le femministe perché sono una donna. Era il taglio della differenza che ha fatto di me una pensante felice. Non posso dilungarmi ma forse già sapete che la vita del pensiero comincia con un taglio. 

La fecondità del pensiero della differenza sessuale non è esaurita, come si può sperimentare dal vivo entrando nell’edificio che ospita la Mostra con la consapevolezza di recarsi a incontrare una compagnia di donne una più sorprendente dell’altra. 

Francesca Pasini e Chitra Cinzia Piloni hanno curato la Mostra e il Catalogo, pubblicato da Andrea Gessner (Nottetempo). Oltre alle trenta artiste della quarta vetrina, ci sono i nomi e qualche opera delle grandi e generose nove che, introdotte da Lea Vergine, hanno finanziato con le loro opere grafiche la nascente Libreria delle donne, tanti anni fa. Nel mio breve contributo sul Catalogo, m’interrogo sull’effetto di vedere in sincronia (in un unico grande spazio, la Fabbrica del vapore) quello che ho accostato mese dopo mese nello spazio della Libreria. Tutto andrà bene, purché sia salva la Sproporzione, ho scritto, ossia la non corrispondenza tra quello che ti aspetti e quello che trovi. Ne dipende, secondo me, l’esperienza di ogni grandezza e di ogni bellezza. Il senso della sproporzione io l’ho imparato da Cristina Campo, che è la maestra di questo sentimento. E l’ho provato allo stato puro arrivando alla immensa Fabbrica del vapore, che non conoscevo, fino allo spazio che ospita Vetrine di libertà. Una volta entrata, la mia antica esperienza del bello ha cessato di essere nostalgia del prima per diventare trasporto nel qui e ora. 

(Alfabeta2, 28 aprile 2019) 

Nelle indagini femministe sulle donne che hanno pensato il femmineo c’è un nome che spesso non trova posto: quello di Lou von Salomé. Forse perché non arruolabile né tra le file delle riflessioni sulle teorie di genere né tra quelle sulla differenza sessuale, la sua vicenda biografica e letteraria si oppone a ogni tentativo di incasellamento.

Di Lou Salomé poco si sa, o forse troppo. Spesso evocata, richiamata e indicata per lo più per le sue vicende biografiche, poco si conosce della sua (cospicua) produzione letteraria.

Molte delle sue opere non sono neppure tradotte non solo in italiano ma neppure in altre lingue. Se il destino delle sue opere singole è quello di essere trascurate, ben peggiore è quello della sua produzione sparsa in riviste e volumi collettanei. Solo recentemente una casa editrice tedesca, la MedienEdition di Ursula Welsch, ha intrapreso la pubblicazione di tutto il materiale raccogliendolo per tematiche. Questa attività, indispensabile e decisamente utile, corre però il rischio di catalogare i vari articoli in maniera univoca impedendo di fatto eventuali possibili altre combinazioni. Un esempio sono gli scritti su donne: a seconda che si tratti di letterate o filosofe sono stati sistemati in volumi differenti rendendo un po’ difficoltosa un’indagine, appunto, sul femmineo in Salomé. E invece, se andiamo a osservare il semplice elenco cronologico, ci rendiamo conto che Salomé si occupò del femminile sin dai suoi primi scritti. Lo scritto sulle figure femminili nei drammi di Hendrik Ibsen Frauengestalten è del 1892 a cui seguono alcuni articoli e contributi su riviste, dedicati a letterate e pensatrici. La sua prima analisi autonoma sul femmineo la troviamo nel 1899 Der Mensch als Weib. Qui Salomé conserva il tradizionale abbinamento maschile-mente e femminile-corpo ma attraverso le lenti filosofiche che ha ereditato dal suo filosofo preferito, Baruch Spinoza (benché questi non venga esplicitamente citato in questo testo, sappiamo che era da lei conosciuto sin da giovane e che non smette di essere richiamato in momenti importanti della sua riflessione filosofica), riesce a proporre una nuova versione emancipatoria del femmineo stesso, versione emancipatoria che lei stessa, nella sua vicenda biografica, mostra e persegue. A partire dalle a lei recenti scoperte in campo biologico, soprattutto relativamente alle cellule riproduttive, e conservando un impianto spinoziano in cui mente e corpo, cioè maschile e femminile, sono espressione di una medesima sostanza, Salomé riesce a leggere la differenza maschile e femminile senza dover ipotizzare alcuna conflittualità. Anzi, proprio la loro differenza permette una reale collaborazione tra le due espressività. E questa differenza, che emerge particolarmente vivida nelle composizioni corporee, è altrettanto presente nelle forme che la mente assume. Ci sono, per Salomé, differenti assetti biologici e, simultaneamente, differenti maniere di pensare e quelli e queste sono egualmente degni e degne di essere analizzati e analizzate poiché sono tutti e tutte espressioni dell’unica sostanza. Lo scritto ebbe così tanto successo che Martin Buber le scrisse chiedendo di elaborare un testo per la collana che lui dirigeva. Lei gli inviò solo nel 1910 il risultato del suo lavoro dal titolo Die Erotik. Qui la riflessione sul femmineo e le sue differenze con il maschile sono immerse in un’indagine più ampia che abbraccia l’essere vivente e che ha nell’eros la sua espressione più eloquente. L’eros, infatti, è il campo privilegiato per indagare gli effetti corporei e quelli mentali dal momento che esso, cha ha le radici nella sessualità del corpo, si espande fino alla mente. Se l’eros è una pulsione primaria di ogni vivente, esso si manifesta nel maschile e nel femminile in forme differenti che sono corporee e mentali al contempo. Maschile e femmineo, quando è questione di eros, manifestano la propria singolarità il primo espandendosi verso sempre nuove conquiste, il secondo ripiegandosi verso un’unità con l’intero vivente. E se questo avviene al livello del funzionamento del corpo, esso è ugualmente riscontrabile nei procedimenti della mente. Maschi e femmine hanno menti diverse perché hanno corpi diversi. Questa diversità, però, giace su una unità di fondo indissolubile. Quindi non due sostanze, non due nature ma un’unica sostanza, un’unica natura che si esprime in modi diversi. L’Eros permette di cogliere tutto questo. Per Salomé, di cui Martin Buber ebbe a dire del suo lavoro quando lo lesse «è platonico e spinozista», prende da Platone il mito del Simposio e da Spinoza la potenza del conatus. Questa impostazione è ripresa dall’intellettuale fino al 1931 nel suo magistrale Mein Dank an Freud.

La riflessione sull’arte di Salomé si innerva nella sua indagine sul femminismo. Anche in questo caso occorre rilevare un interesse di Salomé per l’arte sin dai suoi primi lavori. Ma è con il suo incontro con Freud che la sua riflessione sulla creazione artistica prende forma e consistenza soprattutto attraverso il concetto di narcisismo che Salomé rielabora alla luce del suo pensiero sul femmineo. Nel suo saggio Narzißmus als Doppelrichtung del 1921 il narcisismo, cioè ciò che sta alla base della creazione artistica e che per Freud è sintomo di un regresso e (possiamo dire) è segnale della presenza di una nevrosi, da Salomé è rivisto e proposto non come una tendenza regressiva, ma come espressione della componente femminea dell’essere umano. Femminea che per Salomé vuol dire corporea nella sua massima espressione che nulla deve alla mente. Salomé conobbe da vicino questa natura. Amata da Rilke di cui contraccambiava l’amore, conosce la potenza della creazione artistica che tende a sciogliere l’artista in una sostanza universale. Come il femmineo così l’artista conserva un legame profondo e corporeo con l’unità universale di tutto. Ed è per questo che, per Salomé, non è l’artista che fa della propria vita un’opera d’arte ma è la vita stessa che fa dell’artista, se lui si concede, un’opera d’arte.

L’uomo ha sempre dipinto. Dalla preistoria fino alla contemporaneità. E la donna?

La pittura è un’arte che si è sempre praticata con varie tecniche, che si sono modificate a seconda del contesto storico e culturale. 

L’importanza della rappresentazione prospettica ribalta la concezione gerarchica di grandezza dei corpi, scelta in base al ruolo sociale, preferendo il rispetto naturalistico – secondo l’occhio umano – delle proporzioni. La prospettiva pone una serie di regole che, insieme all’invenzione di Gutenberg del libro stampato, rivoluzionano anche il modo di pensare dell’uomo. Si scrivono trattati, si iniziano ad usare i chiaroscuri e a studiare l’esposizione della luce, si ricerca una volumetria e allo stesso tempo la realtà inizia a diventare più meccanica, raggiungendo l’apice con la teorizzazione della fisica classica, in un progresso ideale che sembra svilupparsi dal Rinascimento fino all’800, prima della scossa dell’impressionismo. Scossa, non a caso, poiché coincide, l’impressionismo, con la rivoluzione elettromagnetica: la prospettiva e la meccanica si disperdono nell’etere indefinito della forza dei fotoni e dei campi magnetici. Dall’impressionismo in poi, in particolare da Cézanne, la pittura non è più mimesis, imitazione della natura, ma questa viene invece interpretata, fino ad arrivare alla vera e propria arte concettuale. 

I più grandi pittori conosciuti sono tutti uomini. I più grandi trattati di pittura sono scritti dagli uomini. Leonardo da Vinci, Gino Piva, Cennino Cennini, Leon Battista Alberti e le Vite del Vasari sono solo alcuni esempi dei classici della teoria pittorica e della storia della pittura. 

Marta Lonzi in È già politica scrive che la cosiddetta arte femminista è un’illusione, poiché si calano motivi extra-estetici «in un sistema che segue norme artistiche più o meno aggiornate», cioè il linguaggio non è “originale” ma “conosciuto”, non è “autentico” ma “corrente”. È necessario per lei che l’autenticità si dia un proprio linguaggio. 

Conclude dicendo che «l’arte femminista quindi è un problema di femminismo e non di arte». 

È possibile quindi essere autentiche in un linguaggio prettamente maschile, storicamente maschile, poco aggiornato come è la pittura?

Eppure la pittura, come la scrittura, linguaggio scelto da Rivolta Femminile, può essere un linguaggio autentico per alcune donne che l’hanno scelto come mezzo d’espressione d’elezione. 

C’è una storia che parte dalle emancipate e arriva fino alle donne che hanno sperimentato con la pittura in un secolo, il Novecento, che gliel’ha permesso. 

Partiamo dalle cosiddette emancipate. Cosa intendo per emancipate? Quelle donne che sono rimaste effettivamente nella storia dell’arte, quelle che sono diventate grandi artiste. Un esempio tra tutte è Artemisia Gentileschi, altre potrebbero essere Élisabeth Vigée Le Brun e Angelika Kauffmann, due ritrattiste nate nella metà del 1700. 

Seppur si disquisisca molto della pittura delle citate, si nota che esse sono emancipate in quanto ormai pienamente accettate nella storia dell’arte maschile. Si ricerca infatti in queste uno «stile peculiare e riconoscibile, diverso da quello maschile sia a livello formale che espressivo, e in grado di trasmettere il carattere unico della condizione e dell’esperienza delle donne», per dirlo con le parole di Linda Nochlin, ma ci si rende conto che lo stile delle artiste in realtà non evoca niente di “femminile” o “femminista”, ma è perfettamente integrato con quello degli uomini del tempo. Le artiste, cioè, hanno molto più in comune con i colleghi maschi della loro stessa epoca e corrente di pensiero che non tra di loro. 

Questo è perfettamente normale in un mondo a misura maschile, e anzi molto poco normale che in epoche e culture decisamente patriarcali alcune donne ce l’abbiano fatta a spiccare e affermarsi come artiste. Certo non c’è l’equivalente di un Michelangelo o di un Caravaggio (seppur la Gentileschi si avvicini, è pur vero che il Caravaggio è il Caravaggio e non a caso lei è una caravaggesca, e non viceversa), ma se così non fosse non ci sarebbe probabilmente bisogno del femminismo, perché le cose andrebbero bene così come stanno.

E via così fino al Novecento, passando per l’impressionista Berthe Morisot, fino alle futuriste come Barbara e Benedetta Cappa e alla dadaista Sophie Taeuber-Arp.

Si inizia a parlare di arte specificatamente femminista a fine degli anni ’60, quando appunto esplode il femminismo. Le artiste cercano così una nuova storia da raccontare, la propria storia, cercando di influenzare gli atteggiamenti culturali, creare spazi e possibilità nel mondo dell’arte anche per le donne. L’arte femminista è tipicamente ricollegata ai nuovi media o a materiali usati solitamente nell’universo femminile come le stoffe e i ricami, ma la maggior parte delle pratiche artistiche femministe si rifanno alla performance e alla body art. La performance è tutt’ora molto usata per la sua caratteristica di fisicità che permette di comunicare in maniera potente e diretta. Un altro medium molto usato è stato la fotografia, assieme alla videoarte. 

E la pittura? 

C’è un caso esemplare, secondo me, dove la pittura femminile e proto-femminista inizia a distinguersi e a distaccarsi da quella dei colleghi maschi: è il caso delle surrealiste. 

Le pittrici surrealiste hanno esplorato temi affascinanti e complessi attraverso le loro opere d’arte. Nei dipinti di artiste come Frida Kahlo, Leonora Carrington e Remedios Varo si trovano riflessioni profonde sulla psiche umana, il sogno e la realtà, l’identità e la condizione femminile.

Frida Kahlo ha utilizzato il surrealismo per esplorare la sua sofferenza personale e le esperienze di vita, mescolando elementi autobiografici con la mitologia e il simbolismo. Leonora Carrington, d’altra parte, si è immersa nel mondo dell’inconscio, creando opere oniriche che sfidano la logica e celebrano la libertà dell’immaginazione. Remedios Varo ha intrecciato scienza e magia, esplorando il potere della creatività e dell’auto-trascendenza. Il legame con la stregoneria è molto profondo, spesso rappresentante il proprio alter-ego, così come la figura del gatto e altri animali, inseriti in un discorso che possiamo definire proto-antispecista ed ecofemminista, evidente nelle opere di Varo ma anche di Leonor Fini e Lise Deharme. 

Questi temi non sono solo meraviglie estetiche, ma spingono anche i limiti della percezione e invitano a una riflessione più profonda sulla nostra esistenza. 

Spesso usano l’autoritratto, a differenza dei surrealisti che ri-costruiscono la figura femminile in maniere stereotipate e influenzate dalle teorie freudiane, nelle immagini si autorappresentano e si moltiplicano – non solo pittoricamente, spesso anche nei numerosi scritti autobiografici.  

Il corpo è l’elemento centrale della poetica delle surrealiste, in cui le figure femminili sembrano consapevoli in mezzo alle creature magiche e personaggi leggendari. Scivolano tra fecondità e sterilità, caos ed isolamento, interiorità ed esteriorità. C’è un’implosione della riflessione. Non c’è uno smembramento del corpo come nelle opere dei surrealisti, ma l’integrità di esso rappresenta anche l’integrità delle artiste. La differenza sostanziale, per dirla con le parole di Katharine Conley, è l’immagine maschile della “donna automatica” e l’immagine femminile della “donna autonoma”

La differenza è anche formale: i surrealisti si rifanno alla pittura rinascimentale. Questa, tramite le parole di numerosi studiosi come il Leon Battista Alberti, insieme al nuovo umanesimo riscoperto, pone la donna in una condizione di inferiorità ben diversa da quella del Medioevo. Inizia nel Rinascimento, riprendendo la classicità, la patrilinearità giustificata dalla teoria per il quale la donna è solo un utero, un contenitore, mentre è il padre che dà l’anima e di conseguenza il cognome ai propri figli e alle proprie figlie. 

Non è un caso secondo me che le surrealiste si rifacciano invece a uno stile pre-rinascimentale, quasi gotico, riecheggiando non solo tempi di streghe, ma ponendosi in opposizione a una classicità maschilista e patriarcale.

Ma veniamo al giorno d’oggi: ho scelto tre artiste che, benché utilizzino un mezzo tradizionale come la pittura, hanno uno sguardo a mio parere femminile sul mondo, hanno cioè attuato un tabula rasa della concezione maschile della cultura. 

Prudence Flint è una pittrice di Melbourne. Ritrae solo donne, spesso in interni di case, luoghi soffusi. Non c’è una narrazione specifica ma sono pieni di uno sguardo interiore sulla propria femminilità, non intesa come genere ma come specifica condizione dell’essere donna. Le figure sono spesso solitarie, anche se in coppia sembrano assorte nei propri pensieri, circondate da oggetti di uso quotidiano che fungono da metafore per il mondo interiore. Sembra voler ribaltare il tipico stilema della rappresentazione delle donne nella storia dell’arte, seppur tecnicamente ricordi le imponenti figure del ritorno all’ordine degli anni ’20 del ’900. 

Emma Talbot è un’artista inglese. Spesso dipinge su seta, usando un materiale che richiama le vesti femminili, la pittrice si rifà alla teoria dell’écriture féminine degli anni ’70 della francese Hélène Cixous. Segnati dall’influenza del pensiero post-antropocentrico e postumano, i dipinti su larga scala di Talbot incorporano figurazioni semplificate, motivi mitologici, modelli ritmici, colori vivaci e testi calligrafici per esprimere aspetti delle esperienze personali e interiori dell’autrice, mentre si estendono ad argomenti che vanno dalla tecnologia, natura, urbanistica ed ecopolitica alla pandemia e all’invecchiamento. Le scritte che spesso inserisce nei suoi dipinti cercano una relazione con lo spettatore o la spettatrice invitandola a riflettere sul significato delle sue opere. 

L’ultima artista che chiamo in causa è la giovanissima Laetitia Ky, più famosa per le fotografie dove ritrae le sue acconciature, essendo ivoriana i capelli afro hanno una forte connotazione simbolica, ma anche pittrice. Non nasconde il suo essere femminista e con la sua pittura naïf esprime forti messaggi che riguardano il corpo delle donne, come le mestruazioni, i peli, l’anzianità e la sessualità. Non usa filtri nei suoi dipinti ed elementi come sangue, sesso e parti del corpo sono sempre molto espliciti.

Oggi la nuova ondata pop di femminismo è un’arma a doppio taglio: può essere la commercializzazione e la liberalizzazione delle istanze femministe, ma può aiutarci a scoprire anche modi di vivere – e di dipingere – femminili e femministi.