da Leggendaria
Per parlarvi dei 50 anni della Libreria delle donne di Milano comincerò a dirvi perché da oltre quaranta è per me il luogo in cui sento l’indicibile fortuna di essere donna, parafarasando il sottotitolo del libro Non è da tutti di Luisa Muraro, una delle fondatrici della Libreria.
Partirò dunque da me perché il partire da sé è una pratica sorgiva del femminismo che da sempre permette lo scambio trasformativo tra donne e con quegli uomini che sanno mettersi in gioco. La Libreria, aperta sulla strada dal 1975 in via Dogana e ora in via Pietro Calvi 29, permette a chiunque di entrare, farsi consigliare libri e comprarli, partecipare agli incontri che ogni settimana si tengono nella sala dell’annesso Circolo della rosa. Mi affascina questa composizione mobile, soprattutto di donne di età e formazione diverse, che si pone nell’orizzonte ampio della differenza sessuale, una differenza a cui dare senso giorno per giorno. Io ho potuto dire «io sono una donna» come prima mossa per lanciarmi nell’avventura della libertà femminile, una libertà ben diversa da quella individualistica proposta dalla rivoluzione francese. È una libertà che tiene conto delle relazioni in cui sono immersa e soprattutto trova misura e mediazione nella relazione con un’altra donna, che può non essere sempre la stessa: dipende dalla mia ammirazione verso di lei; una relazione senza fine, cioè non è strumentale e può durare tutta la vita.
Fare della differenza sessuale un significante a cui dare significato è tutt’altro che essenzialismo o limitarsi a ciò che il patriarcato tenta di imporre come caratterizzante il genere femminile o maschile, e neppure porsi il limite rivendicativo della parità. Dire che «la differenza delle donne c’è», darle grande importanza, coltivarla grazie alla pratica di relazione, all’attenzione alla letteratura, alla poesia, al teatro, alla filosofia, alla storia, al cinema, all’arte, alla scienza, e soprattutto alla riflessione che ciascuna fa sulla propria esperienza nel far esistere la Libreria e nell’essere intera nel lavoro, nella famiglia, nel tempo libero, mi ha permesso di scoprire la forza dei miei desideri. Una riflessione politica che eccede il dicibile, un pensare in presenza in cui è necessario esserci per viverlo che mi ha dato slancio per districarmi con forza e leggerezza nel mondo.
Per condividere le scoperte che negli anni siamo andate facendo e proponendo, ma soprattutto per fare l’esperienza di esserci, sono stati pensati diversi momenti specifici di festeggiamento dei 50 anni, in Libreria e in altri luoghi non solo di Milano, oltre agli incontri che continuano la ampia programmazione settimanale. Potrete conoscerli meglio anche consultando il sito, la cui redazione carnale si trova tutti i giovedì, o i canali social Instagram e Facebook.
Gli accenni che farò alle proposte possono permettervi di cogliere la ricchezza per tutte e tutti di quest’impresa femminile.
Comincerò segnalandovi che l’8 marzo è uscito Esserci davvero, una conversazione inedita di Luisa Muraro con Clara Jourdan, in cui la vita svelata si intreccia alla genesi delle sue principali opere, completata dalla vasta (ben 141 pagine) bibliografia dal 1963 al 2024. Un libro in cui la vivezza del linguaggio permette di sentirti parte dello scambio tra le due interlocutrici e di sorprenderti nello scoprire o approfondire nuovi aspetti delle pratiche e del pensiero di una filosofa che ha rivoluzionato diverse discipline. Proprio sulla originalità del pensiero di Muraro si terrà dopo l’estate un convegno con ospiti anche internazionali e successivamente ce ne sarà un altro sul pensiero di Lia Cigarini.
Ci incontreremo in quattro momenti con le editrici femministe che hanno significative relazioni con la Libreria come l’Enciclopedia delle donne, Vanda, Moretti & Vitali, Le plurali.
Proprio per dare spazio al confronto con giovani donne dialogheremo con due partecipanti dell’Accademia delle piccole Filosofe, tenuta da Luisa Muraro fino al 2020, su come farei i conti con emozioni e sentimenti che influenzano le nostre scelte di vita.
Grande rilievo avrà Via Dogana la rivista nata nel 1991 che, dopo 111 numeri cartacei, dal 2015 è diventata on line ad accesso libero.
La redazione, composta da una dozzina di donne, propone temi, cerca un paio di interlocutrici o interlocutori che inizino il dibattito in una redazione aperta che si svolge una domenica mattina e a cui si può, prenotandosi, partecipare in presenza e, dopo il Covid, anche on line non solo dall’Italia. In base agli interventi vengono richiesti gli articoli che, una volta vagliati, comporranno il nuovo numero. Per comprendere la validità di questo metodo, in cui ciascuna e ciascuno parla in prima persona e non a nome di altre o altri, si può leggere Femminismo mon amour in cui sono stati pubblicati i più significativi articoli che mettono a fuoco le pratiche femministe che abbiamo inventato e modificato nel tempo (vedi Leggendaria n.167). La novità di quest’anno è che sono già a disposizione le date e i titoli delle redazioni aperte. Si va dal 2 marzo per Le madri di tutte noi,dedicato alle genealogie femminili come riconoscimento e valorizzazione dei legami simbolici e reali tra donne, all’8 giugno per Fare impresa femminile, al 5 ottobre per Intelligenza naturale e intelligenza artificiale e infine al 14 dicembre per Il tempo è vita.
Inoltre sono proposti tre numeri speciali cartacei, a cui abbonarsi e per i quali lavora una specifica redazione che propone tre incontri di discussione. Il 22 febbraio in È ora di andare via si è aperto un confronto per rigenerare sguardo, pensiero, desiderio e aiutarci ad affrontare i tanti campi di battaglia, vicini e lontani, che corrono il rischio di bloccare la forza politica trasformativa della libertà delle donne. Seguiranno il 21 giugno Rifacciamo il femminismo e il 29 novembre Le rivoluzionarie delle arti.
Sull’arte vi saranno a maggio altri due momenti: Arte e scienza in dialogo, frutto del ciclo di incontri mensili tra scienziate/i di diverse discipline e artiste/i, svoltisi dal 2023 in Libreria, e una tavola rotonda tra curatrici e artiste su Creare non è comunicare, ma resistere.
Per il cinema, grazie alla collaborazione con l’Associazione Lucrezia Marinelli che ci ha raccontato la rivoluzione del linguaggio cinematografico portata avanti dalle registe, vedremo il film di Céline Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme.
L’apertura alla città verrà segnata il 9 aprile in Camera del Lavoro da una riflessione per connettere le sfide del lavoro di oggi con la ricchezza del pensiero delle donne, una riflessione che ha impegnato dal 1994 il Gruppo Lavoro e ha prodotto, ad esempio, il Sottosopra Immagina che il lavoro, l’Agorà del lavoro, un’assemblea cittadina tenutasi dal 2011 al 2015, l’inserto Pausa lavoro di Via Dogana, i cui testi, raccolti nellibro Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo, mostrano il processo di elaborazione del punto di vista politico delle donne libere di oggi.
Anche le tre letture sceniche su tre maestre di vita e di pensiero: Margherita Porete, Simone Weil e Lina Merlin, si replicheranno, oltre che in Libreria anche al Teatro Studio Novecento e in alcune scuole.
Il 17 e il 18 maggio si terrà l’annuale convegno delle Città vicine, una rete e una proposta politica di vicinanza tra città, soprattutto italiane, attraverso le relazioni tra donne e uomini che amano la città e desiderano viverci bene. A settembre, su invito di fem! Feministische Fakultät, vi sarà a Zurigo una presentazione pubblica della Libreria e un workshop con femministe svizzere.
La riflessione sul cambiamento prodotto nelle scuole dalle pratiche della Pedagogia della differenza e dell’Autoriforma gentile e sulla loro attualità sarà tema di un incontro con insegnanti mentre con La storia sottosopra: la novità della storia vivente verrà presentata la genesi e lo sviluppo dell’invenzione simbolica di fare di sé il documento storico per svelare e liberarsi dalle costruzioni patriarcali.
Voglio terminare con la festa di compleanno, che si terrà il 18 ottobre, con reading e concerto della band Le Ardesia.
Bibliografia
– Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, Roma 2011. 126 pagine, 13,00 euro
– Luisa Muraro, Esserci davvero. Conversazione di Luisa Muraro con Clara Jourdan, Quaderni di Via Dogana – Libreria delle donne di Milano, 2025. 248 pagine, 15,00 euro
– Gruppo lavoro della Libreria delle donne, Giordana Masotto (a cura di), Dalla servitù alla libertà. Vita lavoro politica per il XXI secolo, Moretti & Vitali, Bergamo 2022. 360 pagine, 22,00 euro
– Redazione di Via Dogana 3 (a cura di), Femminismo mon amour. Pratiche femministe per donne e uomini, Quaderni di Via Dogana – Libreria delle donne di Milano, 2024. 173 pagine, 12,00 euro
– Libreria delle donne di Milano, Immagina che il lavoro, “Sottosopra”, marzo 2009, Libreria delle donne di Milano: https://www.libreriadelledonne.it/
– Céline Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme, 2019, 131’
(Leggendaria. Libri Letture Linguaggi n. 171 maggio 2025, pp.51-52)
Il 5 giugno al Mudec di Milano ho partecipato alla presentazione del libro di Dijana Pavlović Irriducibili. Alterità dell’anima zingara: attrice, attivista, scrittrice e politica, Dijana è nata nel 1976 in Serbia, si è trasferita nel 1999 a Milano ed è fondatrice del Movimento Kethane, che da anni si batte per l’autodeterminazione delle comunità rom e sinti.
Il libro pubblicato quest’anno riunisce i pensieri dell’autrice, che dopo vent’anni di attivismo e politica, sente la necessità e l’urgenza di fermarsi e analizzare dall’inizio tutto il percorso fatto: interviste, testimonianze, ricostruzioni passate e presenti la supportano nella sua riflessione, nella sua riconsiderazione dei motivi e delle contraddizioni portate con orgoglio, seppur dolorose e pesanti, che l’hanno portata fin qui, fino ad oggi.
Ricorda Milano all’inizio degli anni 2000 quando osservava e vigilava sugli sgomberi e i roghi dei campi rom, quando le persone la chiamavano di notte per chiederle aiuto affinché cercasse un accordo con le forze dell’ordine. Si sofferma oggi sul perché sia ancora necessario muoversi, resistere, non perdersi: il nostro paese non vede, non considera, rigetta, esclude e isola la comunità rom; imperano ovunque solidissimi pregiudizi, odio perenne, discriminazioni storiche e vera e propria violenza.
Il testo non vuole essere un’analisi o una decostruzione di tutti i cliché legati alle popolazioni rom, vuole semplicemente osservare come la società, da sempre, abbia voluto non capire queste persone: costringerle a vivere in modi per loro innaturali, ostacolarle nel loro nomadismo attraverso leggi nazionali e sovranazionali di modo da limitarle e renderle stanziali, annullare la loro riproduzione attraverso sterilizzazioni forzate, imporre la loro integrazione, inclusione, assimilazione, ignorando e deridendo la loro cultura linguistica, musicale, sportiva, teatrale.
Il tentativo della Pavlović è quello di costruire una conoscenza: si chiede come sia possibile che, nonostante una vastissima bibliografia rom, scritta soprattutto da gagè (parola con la quale i rom definiscono i non-rom), il nostro modo di vederli, di relazionarci a loro non sia ancora cambiato. Perché rom e sinti svolgono eternamente la funzione sociale di capri espiatori? C’è qualcosa dentro di noi che provoca questa reazione? si domanda Dijana.
Il sottotitolo risolve la questione: è doveroso vedere l’alterità dell’anima zingara. Si tratta di un modo di intendere il mondo e le sue relazioni da sempre deriso, massacrato e cancellato. Il potere nelle comunità rom e sinti non esiste, si vive su un livello piano, non in una piramide; la parola futuro non è pervenuta, si costruisce se stessi e la propria vita guardando indietro, al passato, conservandone la memoria; si impara a sopravvivere, a non sporcarsi, a restare spiritualmente nomadi nonostante tutto.
Conclude Dijana Pavlović: «Racconto e scrivo da vittima perché io sono una vittima» di immortali stereotipi, di mille anni di persecuzioni e di un genocidio solo apparentemente concluso.
È stato molto emozionante e devastante per me aver fatto la sua conoscenza e aver assistito alla presentazione di un libro così particolare, specifico, che a causa della sua tematica tende a selezionare, escludere, tenere lontani tutti coloro che non vogliono avere a che fare con gli “zingari”, neppure attraverso il mero e passivo ascolto. Essendo quindi il pubblico solidale alla causa, nel momento dell’evento aperto al pubblico, ho sentito la necessità di raccontare brevemente la mia storia: sono di origini rom da parte di madre, mia nonna era rom. “Necessità” non è la parola corretta: credo fosse più impellente la curiosità di sentirmi mentre mi dichiaravo rom, mentre spiegavo che, seppur non avessi mai vissuto in un campo, conoscevo quella realtà, che nonostante i miei occhi verdi e i capelli biondi sono rom; che mi diverto, mi arrabbio e provo disgusto quando le persone utilizzano quotidianamente espressioni del tipo: vestirsi da zingaro, sembrare uno zingaro, rubare come uno zingaro. Raccontavo di come ogni giorno nella metropolitana di Milano durante un tragitto di dieci minuti, almeno sette volte, siamo costretti ad ascoltare la voce automatica che raccomanda di stare attenti alle borseggiatrici e ai borseggiatori, che nel senso comune sono tendenzialmente “zingari”. In tutte queste occasioni mi ritrovo a dover reprimere il mio istinto, che vorrebbe invece urlare e gridare che anch’io sono rom, sono la persona dalla quale la voce del servizio dei trasporti urbani vi mette in guardia e che vi avverte di tenere lontano; anch’io sono la persona che secondo alcuni ruba i bambini, non segue le regole, non paga i biglietti, chiede l’elemosina per strada, è sporca, lurida, con gonne lunghe e capelli neri. Vorrei chiedere a chi comanda come mai non ci mettono in guardia dai molestatori o dagli stupratori, che ogni giorno costringono le donne, le ragazze e le bambine a adottare accortezze di ogni genere per evitare o tentare di gestire al meglio uno sguardo, un gesto o un atteggiamento sgradito, non reciproco, se non addirittura violento.
Non mi rendo sempre conto di essere rom, non ne sono sempre consapevole a livello conscio, ma ci sono aspetti dell’essere rom, dell’avere un’identità che contempla necessariamente anche questa origine, che sono sicura mi abbiano condizionata in modi che ancora non comprendo lucidamente: come gestisco le relazioni con gli altri, come interagisco con le persone, la mia attenzione nel cercare di non offendere, deridere o soltanto incupire chi mi sta intorno, un costante senso di essere nel posto sbagliato, credo derivi anche da quello che sono, dalla mia parte rom, dalla storia della comunità rom.
Ho una sorella gemella, siamo molto diverse: lei è più scura, ha capelli castani e occhi marroni. Molto spesso, anche scherzando, riflettiamo sul fatto che, se fossimo nate qualche decennio fa, ci saremmo ritrovate insieme in un campo di concentramento con nostra madre, in attesa di un medico nazista che facesse esperimenti su di noi. È un pensiero oscuro e sinistro, che però ci ricorda quello che ci avrebbe inevitabilmente atteso, il luogo che qualcuno in famiglia non ha mai lasciato, quello che alcuni oggi sperano riaccada e ci ricorda quindi tutto il male al quale eravamo destinate e che
rifiutiamo assolutamente di agire. Essere stati storicamente vittime di genocidio e di millenari pregiudizi, che ancora oggi insistono nel perpetuare un’idea della comunità rom distorta, immutabile e falsa, credo abbia, da un punto di vista generazionale, informato e educato la mia famiglia.
Devo ancora capire come imparare ad accettare pienamente questa eredità familiare, che apprezzo, ma che con intenzionalità tralascio, escludo e non dichiaro nella mia vita quotidiana. Per adesso mi limito in ogni occasione e su ogni mezzo di trasporto pubblico a sedermi vicino a persone rom o sinti: è mio il gesto di vicinanza e ribellione.
da il manifesto
Torna in libreria per Casagrande Bambine, il romanzo della scrittrice di origini svizzere ora in nuova edizione. Uscito per Einaudi nel 1990, al centro due sorelle che crescono all’interno di una famiglia patriarcale
Due ragazzine crescono all’interno di un nucleo genitoriale formato da un padre e da una madre; è presente un terzo figlio che morirà presto. La cittadina disadorna ed essenziale in cui si svolgono i fatti è sconosciuta, mentre la casa in cui abitano queste creature ha mura domestiche riconoscibili: una comune famiglia in cui l’esercizio del potere patriarcale comincia con grossolane prevaricazioni per poi installarsi in precisi rituali preparatori. È un luogo specifico, politicamente situato e, per questo, inconfondibile, soprattutto perché a scriverne è Alice Ceresa. Nella storia che racconta, a essere protagoniste sono due sorelle che incontriamo dalla infanzia e che, ancor prima di essere figlie, sono corpi sessuati in germinazione. Bambine, pubblicato nel 1990 per Einaudi, quando Ceresa era ancora in vita, ritorna ora disponibile nelle edizioni Casagrande (pp. 142, euro 20) grazie alle attente cure di Tatiana Crivelli che, oltre alla postfazione, aggiunge in appendice al testo ceresiano una intervista che Francesco Guardiani ha fatto alla scrittrice (Basilea 1923-Roma 2001) per la “Review of Contemporary Fiction” nell’autunno del 1991.
Quando il romanzo di Alice Ceresa fa la sua prima comparsa editoriale, chi aveva già avuto modo di frequentare la sua scrittura, eccezionale ed eccentrica, ne riconosce subito il segno più esteso. Sarebbe sufficiente leggere la conversazione avuta con Maria Rosa Cutrufelli apparsa nella rivista “Tuttestorie” (n. 1, 1991) in cui, con la misura generosa del confronto di due femministe e scrittrici, viene esposto il passaggio attraverso cui da un capolavoro come La figlia prodiga (Einaudi, 1967) arriva, molti anni dopo, a Bambine. L’arco temporale è qui importante, non solo per segnare ciò che poi Ceresa licenzia per la pubblicazione, ma perché la categoria del tempo è fondamentale, sia in ragione della costruzione delle sue parabole che della descrizione dell’inizio di tutto (ovvero la famiglia) e della sua fine (ovvero il congedo dal patriarcato).
Esiste tuttavia un tempo incarnato anche in Bambine, come accade in La figlia prodiga (ora nuovamente disponibile grazie alla edizione critica che Laura Fortini ha curato con sapienza per La Tartaruga nel 2023) e in La morte del padre (“Nuovi Argomenti”, n. 62, 1979; poi edito da Et al. nel 2013 con una nota di Patrizia Zappa Mulas; infine per La Tartaruga nel 2022), che non ha connotazioni intimistiche bensì è la marca di ciò che per Ceresa indica la «vita» – alla voce dedicata nel suo postumo Dizionario dell’inuguaglianza femminile (Nottetempo, 2007 e 2020, a cura di Crivelli): «lo spazio di tempo nel quale gli organismi deperibili svolgono le loro funzioni organiche». In altre parole, anche per le figlie, le madri al pari dei padri, i fratelli – tutte le funzioni senza nomi propri che Ceresa convoca nei suoi testi per confermare la famiglia come cellula amministrativa foriera di violenza e contraddizioni – «la vita serve pertanto per sopravvivere».
Quale sia il tempo storico per Alice Ceresa è questione altrettanto non eludibile, perché La figlia prodiga è un libro politico incardinato senza equivoci in quegli anni che in Italia, e a Roma in particolare, per Ceresa hanno rappresentato la scoperta del femminismo, dei movimenti e di tutto ciò che la scrittrice sceglie di non abbandonare mai. Le radici dell’albero dell’inuguaglianza, pervasive, difficili da svellere una volta per sempre, vanno dapprima osservate, poi esaminate e decostruite. Per finire l’impresa, ad Alice Ceresa mancava la parte relativa all’apprendimento che si acquisisce nell’infanzia. Sceglie di farlo nello specchio di due bambine che sono sorelle e che, a differenza di molte altre loro piccole simili nella letteratura, non vivono in solitudine. Se La figlia prodiga era il gesto rivoltoso – perché parlava da un «sé», e rivoluzionario – perché capace di rivolgersi a un «noi», di una donna che scopriva la complessità di una liberazione anzitutto dal dover aderire al dettato impostole, consapevole di pagarne un prezzo molto alto, in La morte del padre la fine biologica e concettuale di un patriarca non è pacificamente sovrapponibile alla perdita paterna.
In Bambine si assiste all’origine del processo che tuttavia, insieme alle due sorelline che diventeranno adulte, determina una serie di interrogazioni: sarà una “iniziazione”, o sarebbe meglio parlare di “apprendimento” o forse solo di “inventariazione”? Sono alcune parole che ritornano nei preziosi materiali preparatori della edizione del 1990 – ora nel Fondo Ceresa depositato all’Archivio svizzero di Letteratura di Berna che Tatiana Crivelli ha consultato e studiato, rintracciandone alcune traiettorie utili per comprendere al meglio l’officina gestazionale della scrittrice. Taccuini, lettere, elenchi, lacerti e parti di articoli che confermano la straordinaria ossessione verso la parola, per cui moltissimo Ceresa ha scritto e pochissimo ha concesso alla pubblicazione finale. Con la veggenza posseduta dalle grandi scrittrici, anche lei ha dei luoghi teorici in cui è possibile intravvedere una pionieristica visionarietà che tuttavia ha a che fare con la densità del suo pensiero, con la intersezione insita nel saper connettere i mondi, ecco perché rifuggiva le mode – comprese quelle letterarie. La libertà femminile per Alice Ceresa è una esperienza che non si baratta a buon mercato, è argomento scomodo, rimane tale in ogni sua riga, è taglio simbolico che determina spostamenti, fratture insanabili da cui non si torna indietro.
Sicuramente si può discutere di un certo grado di deperimento, come per tutte le forme che attengono qualcosa di vivente, e dunque di relativa rigenerazione sorgiva. Così anche capigliatura, denti, occhi, gesti minimi di riconoscimento reciproco, sono al centro di una prima corrispondenza indifferenziata con il corpo del padre e poi, più diretta, con quello della madre. La lezione di Ceresa sta anche in questo esercizio crudele, appreso in Bambine nella forma di un “addestramento”. Non importa chi diventeranno, sia pure il flusso dello scorrere sia anche qui soggetto al tempo del vivere. Certo è che «Ora – come scrive la stessa Ceresa a proposito del romanzo in uno dei suoi appunti – si capisce bene, immagino, il meccanismo».
da z3xMI – giornale online zona 3
Anche noi, come z3xMI, auguriamo una riapertura in tempi brevi della Libreria delle ragazze e dei ragazzi.
(La redazione del sito)
Il caro affitti, oltre all’aumento delle spese di gestione, ha fatto un’altra vittima. Dopo cinquantatré anni chiude la sede di via Tadino 53 della Libreria delle Ragazze e dei Ragazzi.
Fondata dal 1972 da Roberto Denti e Gianna Vitali, l’impresa, tra le più gloriose e importanti in campo librario, aveva già in passato sostenuto alcuni traslochi per approdare nell’attuale sede di via Tadino dove aveva continuato e persino incrementato tutte le sue attività per favorire la diffusione della lettura tra i più giovani (animazione del libro, gruppi di lettura, laboratori con le scuole, consulenza per le biblioteche, seminari vari).
È purtroppo toccato a Renata Gorgani, attuale responsabile della libreria, dare il triste annuncio.
Ad agosto si chiudono i battenti di un’esperienza unica per originalità, coerenza e impegno culturale, anch’essa coinvolta nella trasformazione di una città sempre più condizionata dai poteri economici, dalle speculazioni commerciali e dall’espulsione di tutto ciò e di tutti coloro che non producono lucro immediato. A chi toccherà prossimamente?
Renata Gorgani e i librai che lavorano con lei non gettano però la spugna e sono alla ricerca in città di un luogo che possa permettere di riprendere in modo sostenibile il percorso al momento interrotto.
Nell’attesa, l’appuntamento è fissato in libreria alle ore 17.30 di martedì 1° luglio quando è previsto un aperitivo per grandi e piccini per “festeggiare” (si spera) un arrivederci e non un addio.
Gli auguri sono più che meritati.
dal Corriere della Sera
Due articoli sapienti sono usciti sul Corriere sulle ragioni per cui non si fanno più bambini in Italia. Vengono citati comportamenti sociali, valori dei più giovani, quelli in età di fare figli. Individualismo, egoismo, assenza di aiuti alle coppie. C’è però da aggiungere una parola che a me sembra l’ago della bilancia di tutta la questione, il centro del problema. Non esiste la decisione di fare un figlio senza la volontà di una donna. Questa è la parola: donna. Almeno su questa questione possiamo metterla al centro? Non ci sarà nessun bambino messo al mondo senza la sua decisione e anche se un uomo glielo chiedesse in ginocchio, solo su di lei risiede la possibilità di farlo nascere. Questa mi sembra una verità fondamentale per andare alle origini della questione. La nascita non è più un destino, è una scelta, questo i due articoli lo scrivono. Questa scelta riguarda però prima di tutto la vita, le possibilità e il desiderio di una donna in età fertile, cioè al centro della sua vita attiva. In quella parte della vita in cui donne e uomini lavorano e costruiscono il loro futuro professionale. Se non si affronta questo fatto, non succederà nulla. Bisogna dire chiaramente che una giovane donna che decide di fare un figlio prima dei quaranta anni deve avere davanti a sé tre visioni. La prima, la più importante, è che fare un bambino ha un valore per la società in cui vive, che all’interno di una decisione privata, senta che tutti, in primis il compagno, ma forse ancora di più l’intera società danno alla nascita un valore moderno non arcaico, un senso nuovo, di oggi, basato su una scelta appunto, non su un destino. Non serve a nulla rispolverare la retorica laica o religiosa della santità e della bellezza dell’essere madri. Per una ragazza di oggi non significa nulla, non perché sia diventata egoista o individualista, semplicemente perché è libera e vuole quello che gli uomini hanno sempre avuto, la concentrazione su di sé, sui propri studi, sulle proprie passioni, sul proprio lavoro. Gli uomini non hanno mai dovuto scegliere tra i loro interessi e il bambino. Non sanno neanche storicamente cosa vuol dire, le donne invece lo sanno perché sono progenie di madri e di nonne, che hanno faticato per fare molti lavori insieme, il cui più importante, che non contava e non conta niente, è allevare e curare. La seconda visione che può spingere una donna a fare un bambino oggi è la certezza che non dovrà arrestarsi nella sua carriera, che non subirà pregiudizi, prevaricazioni, che non dovrà rinunciare a essere la prima se ne ha le capacità. Questo non è egoismo, è parità. La terza che ho lasciato per ultimo ma, last but not least, è la promessa sicura che l’uomo che ama sarà accanto a lei sempre in questa opera così importante, che i compiti saranno divisi egualmente, che la responsabilità del padre sarà protagonista della crescita dei figli fin dall’inizio e per sempre. E per questo gli uomini devo essere pronti a dividere i sacrifici anche professionali. Siamo in grado di fornire alle donne giovani queste tre condizioni? Non credo, anzi penso che l’Italia, paese cattolico, sia molto indietro. Allora cerchiamo di vedere, quando parliamo di denatalità, questa donna, una figlia che abbiamo educata alla libertà e che non vorremmo in nessuno modo vedere sola alle prese con una scelta che riguarda tutti. Forse vedendola riusciremo a intravedere il suo futuro trionfante anche con un bambino in braccio.
dal Corriere della Sera
Mirella Serri indaga per Longanesi le fonti del pensiero meloniano
Se presero un abbaglio Gramsci e Croce liquidando il fascismo degli albori come una breve «parentesi senza fondamenti culturali e ideologici», immaginate in quali errori di interpretazione possono incorrere gli intellettuali di sinistra di oggi quando sostengono che «gli esponenti di questa destra di destra insediata a Palazzo Chigi sono solo una rozza espressione del sovranismo e del populismo». Così Mirella Serri, che in molti dei suoi libri ha scandagliato i rapporti tra fascismo e cultura, torna in libreria con un saggio sferzante nel quale sostiene che l’immagine dell’“underdog” tenuto sempre a distanza (che poi si dimostra più bravo degli altri) è solo una narrazione dietro alla quale «esiste un consistente bagaglio di ideologie e di ritualità elaborate per decenni dal movimentismo neofascista italiano». Prova allora con Nero indelebile. Le radici oscure della nuova destra italiana, Longanesi editore ad aprire gli armadi di famiglia dai quali emergono, oltre a cimeli del ventennio che fu, padri che negli anni della Repubblica hanno rielaborato in chiave «rivoluzionaria e sociale» il pensiero fascista.
Testo sacro della nuova destra sarebbe la monumentale Storia del fascismo in sei volumi, firmata da Pino Rauti e Rutilio Sermonti, dove tutto ruota intorno al «sentimento dell’onore». «Non siamo una forza conservatrice né un filone del socialismo – ammoniva Rauti –. Abbiamo una filosofia originale», che contempla sentimenti antiegualitari e antidemocratici «in nome di una visione eroica e spirituale della vita». Definirlo fascista di sinistra è però un azzardo, avendo attinto a piene mani alle dottrine di Julius Evola, teorico ultra-elitario e simpatizzante del nazismo, definito da Almirante «il nostro Marcuse».
Secondo Mirella Serri, Rauti diventa «il burattinaio del pensiero di destra più radicale» quando la sua visione del mondo si salda con quella dei «cattivi maestri» della Nouvelle Droite Française. All’epoca, Rauti lavorava a “Il Tempo” di Roma, giornale nato il giorno stesso in cui gli Alleati liberarono la capitale e quindi di forte impronta antifascista e anticomunista. Il connubio con la destra francese nacque per l’intenso rapporto con il corrispondente del giornale a Parigi, Giorgio Locchi, che pubblicamente si mostrava conservatore moderato «ma in manifestazioni semiclandestine celebrava il rito del solstizio d’inverno e una serie di altre carnevalate occultistiche». Locchi “allevò” Alain de Benoist, infondendogli la parola d’ordine: «Il mondo non sarà salvato da studiosi stanchi, ma da chi ha fatto, da sempre, leva sull’aspetto essenziale del pensiero che si fa azione».
Negli anni Ottanta, de Benoist frequentò l’Italia proponendo una «strategia metropolitana», seguendo le indicazioni di Gramsci, per la conquista dell’egemonia culturale. Insieme all’altro “cattivo maestro” francese Guillaume Faye, teorizzò la «convergenza delle due catastrofi»: da un lato la colonizzazione da parte dei popoli del Sud del mondo e dei Paesi islamici; dall’altro il declino economico a causa dell’invecchiamento della popolazione continentale e della denatalità. Unica strategia per salvarsi è sviluppare una «filosofia dell’identità», una critica radicale al multiculturalismo, al politicamente corretto, alla tendenza all’autocolpevolizzazione e alla retorica dell’alterità. Secondo Serri, quando la destra in Italia si è insediata al governo de Benoist è diventato l’astro del nuovo corso meloniano.
In anni più recenti, a Colle Oppio, fucina di elaborazione del pensiero di destra, la biblioteca si è arricchita di libri da cui attingere a piene mani citazioni a dir poco eclettiche. Così Jünger viene fatto convivere con Gramsci, il conservatore Roger Scruton con Bertolt Brecht e Pier Paolo Pasolini, Yukio Mishima con i Cantos di Pound e Saint-Exupéry con il Signore degli Anelli di Tolkien.
Infine i campi Hobbit. Fu sempre Rauti a ideare il primo, perché «la gioventù ha bisogno di idee-forza». E da lì Atreju, nome derivato dal «figlio di tutti» ne La storia infinita di Michael Ende, anche se Ende era un convinto antifascista costretto ad arruolarsi nella Gioventù hitleriana che disertò per raggiungere i gruppi di resistenza bavarese. Ma appropiarsi di personaggi che nulla hanno a che vedere con il loro progetto politico sembra lo sport prediletto delle nuove destre, sostiene Serri: Marine Le Pen si è appropriata di Olympe de Gouges, Simone de Beauvoir ed Élisabeth Badinter e Meloni, nel suo discorso di insediamento, ha evocato Nilde Iotti, Tina Anselmi e Rita Levi-Montalcini.
Domenica scorsa Aldo Cazzullo ha scritto sul Corriere un articolo sulla denatalità che ci ha irritato moltissimo: innanzitutto il giornalista nega che questa sia una questione politica, perché della politica ha una visione ristretta (l’intervento dello Stato che rimuove gli ostacoli e incentiva servizi che favoriscano la natalità); afferma di star parlando solo della sfera personale, cioè di cosa significa diventare madri e padri: ma in tutto l’articolo non cita mai una donna, unicamente uomini e la loro felice scoperta della paternità.
Francesca Graziani gli ha mandato questa mail.
(La redazione del sito)
A proposito dell’articolo del 22/6/2025 “Fare i figli non è un dovere sociale (ma che cosa ci dà più gioia?)”
Eh no, caro Aldo! Qui NON stiamo parlando (solo) della nostra sfera personale: sennò i giornali non farebbero titoloni sulla denatalità che viene tirata in ballo per motivi economici (le future pensioni) o ideologici (la cosiddetta sostituzione etnica); non stiamo parlando di egoismi e narcisismi, ma di una società che permette solo a parole alle donne la doppia scelta, lavoro e figli.
È di politica che stiamo parlando: e non serve a niente tirare in ballo gli eroi dello sport (tutti maschi!) come Nadal che dopo 18 vittorie scopre com’è bella la paternità. Non li ha fatti lui i figli, a parte la sua necessaria partecipazione al concepimento che non definirei esattamente un sacrificio!
Francesca Graziani
da RivistaStudio
Sahar Delijani è nata nel 1983 a Teheran, in una delle giornate più drammatiche della storia della sua famiglia. Sua madre, prigioniera politica nel carcere di Evin, diede alla luce la figlia dopo ore di travaglio trascorse sotto interrogatorio. I suoi genitori, entrambi oppositori politici, furono incarcerati durante la repressione che seguì la rivoluzione del 1979, quando migliaia di persone vennero arrestate e rinchiuse nelle prigioni del nuovo regime. La scrittura di Delijani nasce da quella ferita collettiva e personale. Il suo romanzo più conosciuto, L’Albero dei fiori viola, intreccia le storie di figli e genitori segnati dalla prigionia, con al centro il carcere di Evin, simbolo del silenzio imposto e della resistenza. Oggi vive a Torino, dopo essere cresciuta negli Stati Uniti, ma l’Iran resta il cuore della sua narrativa.
Come sta vivendo, da iraniana in esilio, la guerra scatenata da Israele?
Stiamo tutti vivendo un momento di shock, paura e dolore. Non è mai stato così difficile essere lontani dall’Iran come adesso, guardando le immagini delle bombe che cadono sulle persone senza poter fare nulla. Ho molti amici che hanno la loro famiglia e i loro genitori ancora in Iran. Giusto ieri sera, ho sentito un’amica che pregava i suoi genitori di lasciare Teheran. Tutto questo era inimmaginabile. Gli iraniani hanno lottato instancabilmente contro la dittatura e la guerra per tanto tempo. Tutta questa lotta coraggiosa è stata spezzata.
Come riesce a conservare il legame con l’Iran? In che modo l’esilio influenza la sua scrittura?
I social media aiutano molto a mantenere il legame con l’Iran. Qui a New York ho una comunità abbastanza numerosa di iraniani che mi aiuta a conservare quel legame. Per quanto riguarda la scrittura, è sempre una grande sfida per tutti gli scrittori nati altrove che scrivono in una seconda lingua. Scrivere per lettori che, in realtà, non conoscono davvero la realtà di cui parli. Diventi subito una rappresentante, perdi la possibilità di avere una voce indipendente. Ma ciò che mi addolora ancora di più è che, scrivendo la tua realtà in un’altra lingua, è come se tradissi coloro di cui racconti le storie. Le racconti, sì – ma non per loro. Per altri. Per lettori lontani, spesso molto lontani da quella realtà. Questo tradimento letterario, per me, è la ferita più profonda.
Come descriverebbe oggi la società iraniana al di là degli stereotipi? Cosa sfugge allo sguardo occidentale quando si parla del popolo iraniano?
La società iraniana è una società come tante: complessa, vulnerabile, fiera, persistente, traumatizzata e incredibilmente coraggiosa. Ciò che lo sguardo occidentale non comprende – o meglio, non vuole comprendere o riconoscere – è che i popoli non occidentali sono oggetti attivi: hanno la volontà, la capacità e il diritto di decidere da soli il proprio futuro e costruire il proprio percorso vero la democrazia. Non sono popoli in attesa che qualcuno venga a salvarli. Sono popoli che, come quello iraniano, hanno ispirato il mondo intero con la loro lotta instancabile contro la dittatura.
Qual è stata la reazione della società civile iraniana agli attacchi israeliani finora?
Non è un segreto che gli iraniani non vogliono più il regime che li ha oppressi e perseguitati per più di quaranta anni. Ma questo non vuol dire che gli iraniani vogliono essere “liberati” da nessuno, soprattutto non con le bombe, la morte e la distruzione. Gli iraniani sono un popolo tenace e dignitoso, ma anche traumatizzato. Abbiamo già vissuto otto anni di guerra con l’Iraq. Oggi gli iraniani hanno paura, non solo per la propria vita e quella dei loro cari, ma anche per il loro Paese che hanno costruito con tanto sacrificio e dolore. Non vogliono vedere il proprio Paese andare in pezzi. Non vogliono vedere il proprio futuro rubato dagli aerei israeliani e americani.
Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha parlato apertamente di “regime change” in Iran. Quali potrebbero essere le conseguenze in caso si concretizzasse questo scenario?
Condanno fortemente queste parole di Netanyahu. Solo gli iraniani sono padroni del proprio destino. Nessuno – tanto meno il governo israeliano che proprio in questo momento sta portando avanti un genocidio contro il popolo palestinese – può decidere per loro. La democrazia non arriva con le bombe. Neanche la libertà e l’uguaglianza. Lo sa benissimo anche Netanyahu. Il popolo iraniano ha lottato per la libertà e continuerà la sua lotta. Non solo la guerra non ci porterà la libertà, ma indebolirà tutti i movimenti civili che in Iran lottano per la democrazia.
L’intervento americano in Iraq fu presentato come una missione di “liberazione” e per l’esportazione della democrazia, ma ha portato distruzione e violenza. Teme un destino simile per l’Iran?
Tutti popoli del Medio Oriente condividono gli stessi dolori e le stesse lotte. Tutti aspirano a democrazia, libertà e uguaglianza. Abbiamo visto, non solo in Iraq ma anche in Afghanistan e in Libia, cosa ha significato la cosiddetta “missione di liberazione” americana: non ha portato altro che morte, tortura e distruzione. È naturale temere un simile destino per l’Iran. Questo perché tutti gli esempi precedenti portano alla stessa conclusione: l’Occidente non vuole e non ha mai voluto un Medio Oriente democratico e libero. Vuole una regione debole, frammentata e impoverita. Questi sono gli interessi occidentali nella nostra regione, e faranno di tutto perché i nostri popoli non possano mai rialzarsi.
Pressoché tutti i governi occidentali si sono schierati a favore dell’intervento militare israeliano in Iran, nonostante i crimini commessi a Gaza e in Cisgiordania. Come valuta questa scelta?
I governi occidentali non hanno fatto assolutamente nulla per fermare il genocidio a Gaza, mentre i palestinesi muoiono di fame. Non mi sorprende affatto che nessuno di loro si interessi al dolore degli iraniani. Il mondo occidentale ha perso ogni credibilità morale e politica.
In un recente post su Instagram ha scritto: «Nessuno conoscerà la pace, la libertà, la dignità e la prosperità finché non la conosceranno i palestinesi». In che modo ritiene che le lotte del popolo iraniano e di quello palestinese siano collegate?
Tutte le lotte per la libertà e uguaglianza sono collegate. Il popolo iraniano ha subito più di quattro decenni di repressione sotto la Repubblica islamica e prima ancora sotto il regime dello Shah. Il popolo palestinese ha subito più di settanta anni di occupazione. Tutti i popoli vogliono vivere con dignità e prosperità. E nessuno potrà davvero raggiungerle se coloro più oppressi non conquistano la loro libertà.
In tempi di guerra e propaganda che ruolo può avere la letteratura per resistere, farsi ascoltare e toccare le coscienze?
Solo condividendo le nostre storie possiamo arrivare a una coscienza collettiva. Solo ascoltandoci, vedendoci. I popoli del Medio Oriente sono stati abbandonati da tutti, perseguitati sia dalle forze di occupazione che dalle dittature. Solo attraverso l’unità fra tutti i popoli, solo riconoscendo che tutte le nostre lotte sono collegate e che stiamo tutti lottando per gli stessi obiettivi nobili, possiamo uscire da questi inferni che i nostri governi ci hanno costretti a vivere.
da il manifesto
A cavallo tra Sei e Settecento, sullo sfondo del gusto dell’epoca per le nature morte abitate specialmente da piante, in subordine da animali, nonché di una nuova attenzione ordinatrice della storia naturale volta soprattutto alla definizione dei soggetti e al loro posizionamento in tassonomie e scale gerarchiche, si afferma un approccio trasversale che comincia a interessarsi alle interazioni tra organismi, allo specifico del loro modo di stare al mondo, ai cicli di vita, sviluppo e trasformazione.
Protagonista e interprete di questa rivoluzione dello sguardo è Maria Sibylla Merian, abile pittrice nata nel 1647 a Francoforte da una famiglia di artisti e incisori, naturalista autodidatta ma dotata di intraprendenza e grande autonomia, che, focalizzandosi su uno specifico gruppo di organismi visto nel contesto del suo ambiente, si fa studiosa capace di trasporre in una efficace sintesi figurativa le sue meticolose osservazioni, rendendo evidente la dinamica delle interazioni.
Di grande interesse sono le tappe del processo che a ciò la conduce: per cominciare, un volume di buon successo pubblicato a Norimberga nel 1675. Con 36 tavole a colori di fiori europei, talvolta in ghirlanda come modelli da ricamare, Il libro dei fiori, ancora molto convenzionale, propone immagini dal tono decorativo, probabilmente copiate da florilegi ma con l’inserimento già di vari insetti, bruchi e falene, per quanto anch’essi probabilmente copiati da lavori altrui.
Soltanto quattro anni dopo, però, dando seguito a una passione che già tredicenne la vede collezionare e studiare bachi da seta, pubblica La meravigliosa vita dei bruchi, con un centinaio di accurate tavole e testi che, quand’era opinione corrente che bruchi, crisalidi e farfalle fossero animali diversi, se non creature demoniache, mettono invece in pagina tutti gli stadi della trasformazione di falene e farfalle, complici le piante di cui si nutrono.
Separatasi dal marito e trasferitasi ad Amsterdam nel 1691 dove si guadagna da vivere vendendo dipinti, acquerelli su seta ed esemplari di insetti, avrà modo di osservare meravigliosi campioni di farfalle esotiche delle collezioni riportate dalle Indie da missionari, mercanti e altri naturalisti, di cui nel frattempo è diventata interlocutrice grazie al credito delle sue ricerche. Lamentando in esse la presenza dei soli esemplari adulti, organizzerà e finanzierà autonomamente una sua, singolare per i tempi, spedizione in Suriname, recente colonia olandese a Nord del Brasile.
Qui, per almeno due anni, dal 1699 si dedica a studiare e ritrarre il ciclo di vita degli insetti in relazione con le loro piante ospiti. Al suo ritorno, il processo di analisi che mette al centro la dinamica delle interazioni trova forma compiuta con la pubblicazione dell’imponente volume in folio con sessanta incisioni dedicato a Le metamorfosi degli insetti del Suriname (dopo La meravigliosa metamorfosi dei bruchi, Elliot propone oggi Il libro dei fiori nell’edizione del 1680, pp. 94, € 20,00).
Elementi a lungo osservati e annotati, ritratti magari in singoli schizzi, vengono ricomposti e associati tra loro, facendo risaltare nessi e correlazioni. Qualità estetica e rilievo scientifico vanno insieme. Andando ben oltre le convenzioni di raffigurazioni funzionali a un mero approccio classificatorio, il grande formato, la composizione, la particolare qualità delle immagini – Merian sviluppa tecniche che migliorano la conservazione del colore e supervisiona direttamente il processo di incisione e riproduzione –, il rilievo delle informazioni testuali invitano a prendere in conto ambiente e modi di esistenza piuttosto che il posto occupato in uno schema. Un modo di dipingere che si fa modello e, anche in ragione del grande successo nella ricezione presso un folto pubblico di collezionisti, medici e storici naturalisti, induce un modo diverso di guardare all’intrecciato universo di animali e piante.
da il manifesto
Fra le figure più rare degli ultimi due secoli per acutezza e libertà praticata, Lou Salomé non si è mai riconosciuta in ruoli prestabiliti, in particolare per una donna, né si è votata a un solo sapere, al punto da muoversi con rigore fra filosofia, letteratura e psicoanalisi senza alcuna titubanza e riverenza di consorteria, tantomeno si è immolata a una causa, neppure a quella della condizione femminile, anche se ha avuto in sorte di essere considerata un’icona femminista. La sua storia dà conto di come l’esistere possa farsi opera spirituale e il conoscere sia unione di pensiero ed esperienza, personale e relazionale. Non a caso è proprio sul piano della reciprocità creativa, di ascendenza romantica, fra vita e spirito che Lou Salomé sfida chiunque voglia occuparsi di lei.
Una sfida accolta con passione da Susanna Mati, studiosa di Nietzsche e del suo mondo, in Lou Salomé – Amare la vita (Feltrinelli “Scintille”, pp. 352, euro 25,00). Si tratta di un volume ben riuscito per ricchezza di documentazione, anche fotografica, oltreché di analisi, in grado di far capire come Lou Salomé sia stata tutt’uno con la sua esperienza della vita. Un tutto aperto all’incontro e, al tempo stesso, in sé compiuto, visto che Salomé fu fedele sempre e solo a se stessa, libera da ogni dover essere, «mai di nessuno e sempre altrove, sia intellettualmente che emotivamente» (p. 110). Cosmopolita e individualista, preoccupata della propria personale liberazione e, per dirla con Mazzino Montinari, del culto della propria personalità (introduzione a S. Freud – L. Andreas-Salomé, Eros e conoscenza. Lettere 1912-1936, Bollati Boringhieri, 1983, p. VII), ebbe di certo una natura felice, priva di risentimento, anche grazie alla sua condizione privilegiata per censo e nascita, fino al punto davvero problematico, e per certi versi poco apprezzabile, di risultare incapace di pensare il politico, di considerare la collettività.
È questa personalità che Mati ricostruisce attraverso gli snodi cruciali del suo divenire, sullo sfondo oltretutto di un inquieto passaggio di secolo, cercando di sottrarsi al genere stilistico. Il suo libro, infatti, non è esattamente una biografia, anche se tiene per forza in conto molte notizie biografiche, né un romanzo e neppure un saggio accademico.
Il punto da cui muove è paradossalmente quello della fine, cioè il fatto che l’anziana Salomé, pochi anni prima della morte, avvenuta nel 1937, decise come dovesse essere consegnata ai posteri la sua esperienza della vita e proprio per questo selezionò e distrusse carte e lettere. Ciò che scelse di conservare sostenne la composizione del suo Lebensrückblick (pubblicato in italiano per la prima volta nel 1975 da Guaraldi con il titolo Il mito di una donna a cura di Ota Olivieri), quasi a sottintendere che la nostra biografia è unitaria solo cronologicamente e biologicamente, al punto che è il modo di metterla in parole e di scriverla a costituirne il senso, l’unica possibile verità. Un modo fra l’altro che non legittima l’immagine di Salomé femme fatale dai famosi amanti, tanto che l’unica relazione sentimentale che decide davvero di sottolineare è quella con Rilke, anche se certo riconosce l’importanza decisiva di Nietzsche e di Freud. In più va considerato che a questa radicale forma di autocensura si sono aggiunte le censure dettate ad esempio dall’ostilità nei suoi confronti, come quelle operate da Elisabeth Nietzsche e dall’Archivio Nietzsche, oppure da un eccesso di protezione, come nel caso di quelle decise da Ernst Pfeiffer, erede del suo lascito letterario.
Per tutto questo Mati può affermare che è la stessa Lou Salomé a orchestrare e scrivere la sua vita «interpretando, esaltando, correggendo, rimuovendo, passando accuratamente sotto silenzio: insomma creando» (p. 15) e costringendo chiunque decida di occuparsi di lei a stare alle sue regole. La pulizia finale sarebbe di conseguenza segno non tanto di riservatezza e discrezione, ma di poesia (Dichtung): una vera e propria creazione, inalterabile, dettata dalla consapevolezza che la vita, se spinozianamente la si ama, è di necessità scrittura, cioè «un tracciare segni attraverso i quali la vita diventa conscia di se stessa», come affermerà nell’articolo Allo specchio del 1911, che ordina amorosamente, sottraendosi cioè alla violenza della ratio, gli episodi capaci di mostrare l’essenziale che, nel caso di Salomé, può emergere in primo luogo nell’incontro con anime sorelle, vale a dire con anime che cerchino di essere, come lei, spiriti liberi e per questo tese verso la comunione, non il possesso. A loro, infatti, si lega, senza però mai darsi totalmente, sempre salvaguardando la propria autonomia pur nel vincolo della relazione. Ed è proprio attorno agli incontri decisivi di Salomé, gli stessi che si riverberano nei suoi scritti in tutta la loro polarità di emancipazione e subordinazione, che Mati sviluppa le tre parti del suo libro. Sono tre come i saperi a cui Salomé si è dedicata, cioè filosofia, letteratura e psicoanalisi, significativamente associabili alle tre grandi figure maschili della sua vita: Nietzsche, Rilke e Freud.
La prima parte, infatti, è dominata dalla figura di Nietzsche, quindi dal progetto e dall’esperienza scandalosa della Trinità, cioè la convivenza a tre con lo stesso Nietzsche e Paul Rée, cui Salomé giunge dopo l’innamoramento adolescenziale nei confronti del pastore Hendrik Gillot. È proprio la frequentazione di quest’ultimo ad alimentare il suo sviluppo intellettuale, che muove dal fare i conti con la perdita, avvertita quale tratto caratteristico della sua vita, che certo rinvia in primo luogo alla perdita determinata dalla nascita, intesa come distacco originario sul quale sono destinate a modellarsi le angosce a venire, quindi alla perdita del padre e della fede in Dio, che lascerà in lei una inesauribile vocazione religiosa. Il rapporto con Gillot, mantenuto da Salomé su un piano ideale, come molte delle sue relazioni, verrà di fatto meno nel momento in cui Gillot chiederà di sposare «la sua figlia spirituale», cioè nel momento in cui il loro incontro sarà negato dalla volontà di possesso. Uno schema destinato a ripetersi nella vita di Salomé, tanto che pure la Trinità con Nietzsche e Rée fallirà soprattutto a causa di analoghe proposte di matrimonio.
Nonostante ciò, la triangolazione resterà il modo privilegiato da Salomé di dare forma ai suoi incontri, forse la maniera che meglio le permise di fare esperienza, a un tempo, di conoscenza, amicizia e libertà. Questo accadde anche negli anni berlinesi del suo sodalizio con Rée, aperto ad amicizie importanti come quella con Tönnies, e nonostante il misterioso matrimonio bianco con Andreas, che non fu di alcun impedimento all’amore – forse davvero il più importante della sua esistenza – con il giovane Rilke, conosciuto nel 1897. È la stessa Salomé a definire romanticamente la sua storia con Rilke come Ergriffenheit, cioè una possessione, nella quale riescono a completarsi corpo e spirito, che tuttavia non può frenare il suo bisogno di tornare a se stessa e proprio tramite il congedo dall’amante. L’abbandono amoroso di Rilke pare poi inseparabile dall’apertura di Salomé all’altra sua grande passione, la psicoanalisi, quindi all’incontro con Freud frequentato inizialmente proprio insieme a Rilke, non più amante ma sempre amico.
È questo gioco mai pago di chiusure e dischiusure, in cui sono comprese anche importanti amicizie femminili come quelle con Frida von Bülow e Anna Freud, a scandire il ritmo dell’esistenza inesauribile di vita e di pensiero di Lou Salomé e anche gli scritti che l’accompagnano, fra tutti Nietzsche in Seinen Werken (trad. it. Vita di Nietzsche, a cura di E. Donaggio e D.M. Fazio, Editori Riuniti, 1998), uno dei saggi più convincenti sul pensiero del filosofo tedesco.
da Avvenire
La filosofa femminista parla delle ipocrisie del marketing che si appella alla libertà e alla generosità delle donatrici, ma persegue solo logiche di profitto
Adriana Cavarero è una delle voci più autorevoli della filosofia italiana contemporanea e, in particolare, una delle più stimate rappresentanti del cosiddetto “femminismo della differenza”. La sua ricerca – inaugurata dal libro Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica, uscito nel 1990 e subito tradotto in molte lingue – si è concentrata su due aspetti che toccano la questione della “maternità surrogata”: da un lato, la differenza sessuale di corpi concreti, maschili e femminili, di esseri viventi che si riproducono e nascono, ciascuno nella propria singolare unicità; dall’altro, la storia del patriarcato “spazzolata contropelo” – per usare una celebre espressione di Walter Benjamin –, alla luce della prospettiva femminista e una riflessione originale sui temi della nascita e della maternità. Il pensiero sul materno trova il suo esito più compiuto in uno dei suoi ultimi libri: Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno (Castelvecchi 2023).
In alcune pagine di Inclinazioni. Critica della rettitudine il corpo inclinato della madre si offre come paradigma alternativo alla geometria maschile verticale promossa dal patriarcato. Cosa significa nascere? Cos’è per te la maternità?
«Nascere significa venire al mondo come singolarità incarnata, generata da un’altra singolarità incarnata, la madre. Per ciascuno e ciascuna di noi, una madre sta all’origine, all’inizio. Come filosofa sono ovviamente molto interessata al tema dell’origine. Non però secondo i canoni della tradizione che si chiede astrattamente “perché l’essere e non piuttosto il nulla”, bensì secondo un modo di interrogare che guarda al fatto concreto del nostro essere originati, generati da donna, questa donna, sempre singolare. Dal punto di vista della nascita, viene perciò in primo piano la maternità come esperienza del generare. Ho sviluppato questo tema in Donne che allattano cuccioli di lupo. In Inclinazioni invece rifletto sulle rappresentazioni, anche pittoriche, della maternità, ossia sull’iconografia tradizionale della figura materna. Si tratta, spesso, di figurazioni stereotipiche che ritraggono la madre oblativa, piegata, inclinata sul suo bambino. Il che è ovviamente funzionale all’ordine simbolico patriarcale che loda l’inclinazione materna per confinare le donne nell’ambito domestico dove realizzerebbero la loro vera natura. Il mio scopo, oltre a prendermi gioco degli stereotipi, è delineare un’etica relazionale, basata sul primato dell’altro – come direbbe Lévinas – e sui rapporti sbilanciati che, nella condizione umana concreta, annodano le singolarità l’una all’altra».
Sollevi diverse critiche alla surrogazione. Che conseguenze ha tutto ciò sul concetto di maternità?
«La maternità, sia come esperienza sia nella sua essenza concettuale, subisce un oltraggio ontologico, ossia portato alla condizione umana stessa. La capacità generativa diventa oggetto di sfruttamento ai fini del profitto del mercato biocapitalista. Non si può chiedere al mercato di vergognarsi per questo oltraggio, per il mercato le persone sono cose: in questo caso, non tanto merci, quanto materia prima con qualità organiche funzionali al prodotto finale. Mi stupisco, però, che non provino vergogna coloro che commissionano il bambino, i clienti del business. Io, come essere umano colpito nella sua dignità ontologica, provo invece vergogna per loro. Mi colpisce soprattutto l’ipocrisia della narrazione di marketing con cui il fenomeno viene giustificato e lodato. Si dice che la madre surrogata è contenta di affittare l’utero per fare felici delle coppie sterili, perché vuol fare del bene. Oppure, appellandosi al paradigma neoliberista, si dice che affittare o meno il proprio utero dipende da una scelta libera, anzi, è una prova che le donne godono finalmente di libertà sulla propria vita e sul proprio corpo. Tutto questo è, per me, ipocrita e nauseante. Ho fatto fatica a scriverne e faccio fatica a parlarne».
Se davvero non esistesse il business, ma solo il desiderio di aiutare un’altra donna, saresti favorevole alla “maternità solidale”, al “prestito” dell’utero?
«Trovo inutile ragionare come se non ci fossero le condizioni che invece ci sono. Detto questo, viene chiamata “maternità solidale” quella di una madre surrogata che non riceve un compenso e perciò presta la sua opera gratuitamente. In verità, si tratta di nuovo di una narrazione di marketing perché la voce “compenso” viene sostituita da “rimborso spese” e la cifra, più o meno, corrisponde al compenso. Sono tutti sotterfugi per far apparire la gestazione per altri come qualcosa di bello e generoso, eticamente non solo lecito ma addirittura edificante. Il fenomeno di una madre che dà via a un’altra donna il suo bambino è, d’altra parte, noto benché raro. Nelle grandi cascine famigliari di campagna, da cui provengo, poteva succedere che una donna con molti figli decidesse di dare l’ultimo nato a una sorella sterile perché lo allevasse lei. Tutti lo sapevano, era una realtà condivisa e accettata come giusta e normale. Pare che anche nelle famiglie aristocratiche si sia a volte fatto così: se non nasceva un erede legittimo, si faceva passare per figlio un “bastardo”. Insomma può succedere ed è successo che, qualche volta, una donna “doni” o “passi” il figlio a un’altra. Ma in questo caso non ci sono agenzie specializzate che disciplinano tutta la faccenda. Come sai, nel mercato riproduttivo biocapitalistico, l’utero diventa, per contratto, proprietà dell’agenzia, la quale controlla, durante la gravidanza, se il prodotto è buono o, in caso contrario, se va abortito in quanto insoddisfacente rispetto alle aspettative dei committenti».
La maggior parte delle madri surrogate proviene da mondi poveri. Si corre anche il pericolo di favorire l’eugenetica? Quasi sempre gli ovuli selezionati appartengono a donne bianche, caucasiche, dotate di precise caratteristiche estetiche.
«C’è razzismo e classismo in questo mercato. Poiché le spese sono tante e il prodotto finale risulta molto caro, gli acquirenti sono per lo più coppie bianche ricche che commissionano un figlio che abbia caratteristiche somatiche simili a loro. Di qui l’importanza della donna che fornisce l’ovulo, al quale trasmette il suo patrimonio genetico: una donna bianca, possibilmente sana e bella, magari con gli occhi azzurri. In Europa sono predilette le giovani dei paesi dell’est, soprattutto le ucraine. La madre surrogata, detta “portatrice gestazionale” dal linguaggio delle agenzie, invece, può essere di qualsiasi colore perché non trasmette al bambino il suo patrimonio genetico. Viene perciò arruolata tendenzialmente fra le donne in difficoltà economica dei paesi poveri, che hanno bisogno di soldi e che con il compenso possono migliorare le condizioni di un’intera famiglia, comprese quelle dei figli che hanno già. Ovviamente, il fatto di far crescere nel proprio utero un embrione che ha un diverso patrimonio genetico provoca un rigetto, così come avviene per qualsiasi trapianto dell’organo di un estraneo. Tale processo deve perciò essere monitorato attraverso una pesante medicalizzazione della gestante. È bene aggiungere che le donatrici di ovulo sono talvolta giovani studentesse dei paesi ricchi che così si fanno un gruzzoletto da spendere per i loro capricci».
Molte teoriche del transfemminismo oggi giubilano addirittura al pensiero di un utero artificiale. Hanno smarrito il senso profondo della lotta femminista?
«“Il corpo è mio e me lo gestisco io” era uno slogan contro le interferenze delle istituzioni che pretendevano di gestire e regolamentare il corpo delle donne. Ora, affittare il proprio utero significa precisamente consegnare il proprio corpo a un’istituzione esterna, ossia alle agenzie del mercato procreativo. Siamo dunque di fronte a uno scenario esattamente all’opposto. Quanto all’utero artificiale, è un vecchio sogno maschile che troviamo già nel mito greco. Alcune femministe sono arrivate a sognare lo stesso sogno per liberare le donne da una funzione procreativa che le ingabbierebbe nel biologico. Io tuttavia non considero affatto il biologico come una gabbia, anzi, rivaluto l’esperienza della maternità come contatto diretto, complicità, con la natura in quanto processo rigenerativo delle molteplici forme di vita».
(Avvenire, 22 giugno 2025)
da il manifesto
A proposito del volume curato da Daniela Finocchi e Luisa Ricaldone per Iacobelli editore
In questi giorni scossi dalle tempeste dei padroni del mondo, che si fanno vanto delle guerre ai senza diritti e senza parola e impongono una nuova, scellerata corsa agli armamenti fino a parlare apertamente di scontri nucleari, è da accogliere con cura ogni gesto, ogni riflessione che si dedichi alla forza della pace contro la pace della forza, come Pagine di pace. Pensieri, scritti, pratiche di donne (Iacobelli editore, pp. 208, euro 17,50), ultimo esito della lunga collaborazione tra le femministe Luisa Ricaldone, già presidente della Società italiana delle letterate e Daniela Finocchi, ideatrice tra l’altro del Concorso letterario nazionale Lingua Madre, dal cui Gruppo di studio trae origine proprio il volume, che raccoglie tredici interventi: Beate Baumann, Lorena Carbonara, Elisabetta Catamo, Adriana Chemello, Giuseppina Corrias, Daniela Finocchi, Valeria Gennero, Cristina Giudice, Claudiléia Lemes Dias, Natalia Marraffini, Rahma Nur, Elena Pineschi, Betina Lilián Prenz, Luisa Ricaldone.
È per certi aspetti paradigmatico della posizione delle letterate femministe, espressione della consapevolezza di quella cultura circa l’interconnessione dell’insieme sociale e naturale: «Uno sguardo al femminile sui conflitti – scrivono le due curatrici – sulla ferocia della guerra, sull’odio vendicatore coinvolge diverse dimensioni della vita, della società, dell’essere: dalla violenza del linguaggio alla nozione di libertà, dalla giustizia astratta alle responsabilità affettive, ai modi di salvaguardare la pace o crearne le premesse». Da qui la necessità teorica e pratica di attraversare gli specialismi: «L’importanza di interrogare le opere delle scrittrici, delle artiste, delle ribelli, delle visionarie riteniamo sia un’azione importante e necessaria, non certo per trovare risoluzioni definitive, ma per offrire spunti di riflessione altri. Ecco così che un gruppo di studiose e scrittrici italiane e (non più) straniere mettono a confronto prospettive letterarie e artistiche sull’esperienza delle donne nei conflitti e le possibili strategie per superarle. Letteratura, cinema, arte, politica, ambiente sono alcuni degli ambiti di riferimento in cui si muovono gli interventi».
Nella ricchezza dei materiali offerti dalle differenti “pagine”, almeno due sono gli elementi sorgivi che sotterraneamente li attraversano e alimentano.
Il costitutivo “partire da sé”, che in questo versante pratico-teorico è subito un sé “differente” e storicamente non sottomesso, è il nodo fondo su cui convergono i complessi e talvolta contraddittori legami privati e pubblici, individuali e collettivi, umano-sociali e naturali, i cui fili vanno risaliti, nominati, messi alla prova, rivoluzionati secondo una nuova logica antipatriarcale. L’altro motivo fondamentale è la messa a nudo di come la posizione patriarcale, non riconoscendo la differenza, ricorra costitutivamente alla forza per imporre ed espropriare e come, proprio per questo, se ne faccia motivo di vanto e di esaltazione. Maschilismo, diritto della forza, dominio dell’utile, disconoscimento dell’ambiente naturale, nazionalismo, colonialismo, militarismo, guerra sono esiti diversi di un’unica concezione. La società capitalistica si mostra ambiente ideale per lo sviluppo di tale logica.
Splendide, a tale riguardo, sono le parole scritte nel 1943 dalla non innocentemente dimenticata statunitense Pearl S. Buck, premio Nobel per la letteratura, attentamente commentate da Valeria Gennero: «Coloro che nutrono pregiudizi razziali sono portatori di germi di fascismo. Coloro che vorrebbero costruire un grande potere commerciale internazionale nelle mani di pochi a spese del popolo sono portatori di germi di fascismo. Coloro che sognano l’America come prossima grande potenza imperialista sono portatori di germi di fascismo. Tutti coloro che segretamente o apertamente disprezzano i diritti degli esseri umani sono portatori di germi di fascismo. Sono questi che dobbiamo scoprire e privare del loro potere».
L’irresistibile eco profetica che la lettura odierna dà loro è in realtà conseguenza del fatto che i padroni del mondo sono pronti a far affiorare la permanente natura profonda del capitalismo solo nelle congiunture di pericolo o, all’opposto, quando hanno vinto la loro guerra di classe.
Di grande interesse anche lo sguardo anti-antropocentrico di queste Pagine, attente al prendersi cura del vivente non umano, ricorrendo, magari, allo sguardo decentrato di civiltà periferiche, che smascherano la funzione predatoria anche di certa “buona coscienza” ecologica: «La giusta necessità di usare fonti rinnovabili diventa il pretesto per appropriarsi di luoghi considerati vuoti – osserva Cristina Giudice – per questo si sono progettati campi smisurati per l’energia eolica», ma, denuncia l’artista sami Matti Aikio, da lei commentata, sono invece luoghi di percorso delle migrazioni delle renne che così vengono disorientate con effetti spesso tragici, che si ripercuotono poi sull’intero equilibrio umano-ambientale.
da L’Altravoce Il Quotidiano
Annie Ernaux, Premio Nobel 2022, è una delle più grandi scrittrici del nostro tempo i cui libri in Italia sono stati tradotti e pubblicati solo a partire dal 2011 grazie a Lorenzo Flabbi e all’allora piccola casa editrice L’Orma. L’ultimo suo libro, “La scrittura come un coltello”, è una lunga intervista a lei dello scrittore franco-messicano Frédéric-Yves Jeannet, realizzata nel corso di un anno (2001-2002) via mail. Un dialogo a distanza sulla “pratica di scrittura”, sui libri pubblicati, sulla donna Ernaux, femminista di sinistra radicale, che non si pensa «mai come scrittrice, soltanto come qualcuno che scrive, che deve scrivere» perché ne sente la necessità e il desiderio. «Non aver fatto della scrittura il mio mestiere, non aver bisogno di pubblicare in fretta: posso prendermi il tempo di assecondare il mio desiderio». Scrivere a partire dal proprio desiderio la rende libera. «Molto presto mi sono resa conto che avrei potuto scrivere solo nella più completa libertà. Se ho potuto proseguire è perché ho conservato il mio lavoro di insegnante». L’interlocuzione con lo scrittore diventa un «esame di coscienza letteraria» che le dà la consapevolezza di «scrivere per incidere come la lama di un coltello nella realtà del mondo, per sovvertire con le parole le visioni dominanti» perché scrivere, per lei, è un’«attività politica», ossia «qualcosa che può contribuire al disvelamento e al cambiamento del mondo, oppure, al contrario, rafforzare l’ordine sociale e morale esistente». Una scrittura, la sua, tra «letteratura autobiografica, sociologia, storia» che fuoriesce dai canoni letterari della finzione e della ricerca del bello e fa della memoria «non quella ufficiale ma quella che ciascuna di noi costruisce semplicemente vivendo» un “documento storico” e delle sensazioni provate una fonte di realtà e verità. «Tutto – le persone, me stessa, le mie idee – mi appare, ed è, storia». «Il mio metodo di lavoro si basa essenzialmente sulla memoria che è “materiale”, mi riporta alla mente cose viste, udite, gesti, episodi con la massima precisione. Sono il materiale dei miei libri e le “prove” stesse della realtà. Cerco di produrre la sensazione di cui, per me, sono portatori l’episodio, il dettaglio, la frase. Questo vuol dire che la sensazione è un criterio di scrittura, un criterio di verità». Salvare dall’oblio «esseri e cose» di cui è stata «attrice, fulcro o testimone, in una società e in un tempo specifici» è la grande motivazione che la spinge a scrivere, un modo per salvare la sua stessa “esistenza”. Tutto ebbe inizio quando da bambina leggeva i romanzi a puntate sull’“Écho de la mode” e scriveva lettere a un’amica immaginaria, seduta sui gradini della scala, nella cucina stretta tra il bar e la drogheria dei suoi genitori. Il dialogo tra la scrittrice e il suo interlocutore procede immergendosi nei suoi libri pubblicati fino ad allora quali: “Gli armadi vuoti”, “Ciò che dicono o niente”, “La donna gelata”, “Il posto”, “Una donna”, “La vergogna”, “L’evento” “Non sono uscita dalla mia notte”, “Perdersi”, “Passioni semplici”, “L’occupazione”. Poi, ha continuato a scrivere e pubblicare senza essere «in rottura con i precedenti», ma esplorando «altri territori». “Gli anni” e “L’altra figlia” sono i due libri pubblicati dopo l’intervista e tradotti e pubblicati in Italia, a distanza di anni. È vero, come lei dice nell’intervista che «ci sono, e questo solo conta, libri che sconvolgono, aprono la mente, generano pensieri, sogni e desideri, ci accompagnano, e a volte fanno venire voglia di scrivere», come i suoi libri, che vanno letti e conosciuti. È questa la motivazione che mi ha spinta a decidere di riservare questa rubrica, a partire dalla prossima settimana e per tutta l’estate, ad alcuni dei suoi libri che mi/ci accompagneranno sotto l’ombrellone.
(L’Altravoce Il Quotidiano, rubrica “Io, donna”, 21 giugno 2025)
da il manifesto
Il 26 giugno saremo in ogni territorio con una mobilitazione diffusa per amplificare voci che si oppongono alla guerra, per creare spazi di confronto, pensiero e azione. Perché la pace non è un’utopia lontana, né un fatto privato o diplomatico. La pace è una pratica collettiva, un atto politico quotidiano, un bene comune da costruire insieme – qui e ora.
Siamo donne attive in molte città italiane, da nord a sud, impegnate nei movimenti per la pace, il disarmo, la giustizia sociale e ambientale.
Da questo impegno condiviso nasce UNO SPAZIO POLITICO AUTONOMO E FEMMINISTA che intreccia territori, saperi e pratiche di resistenza alla guerra e alla cultura della violenza. Una trama plurale, in divenire, radicata nei luoghi e capace di visione, che riconosce nell’esperienza delle donne – nei corpi che si mettono in gioco, nelle parole che si sottraggono alla retorica del nemico e ai linguaggi del patriarcato – una forza di trasformazione.
Viviamo un tempo in cui la guerra viene normalizzata, giustificata, persino celebrata. La violenza bellica è tornata a essere linguaggio ufficiale delle relazioni internazionali, strumento di potere, fondamento dell’economia globale.
Ogni giorno nella Palestina sotto occupazione e assedio siamo di fronte a ciò che Stéphanie Latte Abdallah ha definito FUTURICIDIO: la distruzione sistematica di esseri umani, delle condizioni minime per vivere, immaginare un domani, tramandare memoria e speranza. Ogni giorno assistiamo alla devastazione di vite e territori in Ucraina, all’estensione della guerra in Iran, così come al protrarsi di conflitti dimenticati in Sudan, Congo, Siria, Yemen, Myanmar e in molte altre aree del mondo. Guerre diverse, ma con radici comuni: una politica fondata sul dominio, sullo sfruttamento delle risorse e sull’indifferenza verso la vita umana e del pianeta.
A questa logica opponiamo pensieri e pratiche di pace. Rifiutiamo la semplificazione binaria dell’amico/nemico, la retorica dell’intervento armato, l’idea che la pace possa essere imposta con le armi. La guerra non è un’eccezione: è un dispositivo strutturale di potere, parte integrante di un sistema economico e politico che trae profitto dal disastro e dalla paura. «La forza è ciò che fa di chiunque le sia sottomesso una cosa», scriveva Simone Weil, e questo processo di spossessamento, che colpisce i corpi e le vite lo vediamo accadere ogni giorno, in ogni area dia guerra, ma anche nelle nostre città, dove il linguaggio bellico invade la politica, l’informazione, la scuola, la cultura.
Denunciamo l’ideologia della forza, la militarizzazione delle istituzioni, l’espansione dell’industria bellica, l’asservimento della politica estera e dei media a una narrazione che semplifica, censura,
distorce. Come sosteneva María Zambrano, infatti, può dirsi veramente umana solo una politica capace di ascoltare il pianto. Una politica che non rimuove il dolore, che non sacrifica le vite in nome della patria o della sicurezza, ma che sceglie la responsabilità, la cura, la giustizia.
In questa oscurità, come SPAZIO DI DONNE IN RELAZIONE E COSTRUZIONE COLLETTIVA, cercheremo di ascoltare, interrogare, dissentire, riaprire le domande che la guerra tenta sempre di soffocare, a partire dalla convinzione che sia necessario un IMPEGNO PER UNA TRASFORMAZIONE PROFONDA per smilitarizzare la società e le menti, per ridare senso alla convivenza.
La data del 26 giugno è stata scelta per rientrare nella settimana di mobilitazione europea indetta da Stop ReArm Europe.
FUORI LA GUERRA DALLA STORIA!
*Per adesione* scrivere a:
donnecontroguerra.pinerolese@gmail.com
ADESIONI (in via di aggiornamento):
Presidio di donne per la Pace Palermo / Presidio di donne per la Pace Caltanissetta / Donne contro ogni guerra – Gruppo del Pinerolese / Associazione La Città Felice – Catania / La Ragna Tela – Catania / UDI Siracusa / UDI Reggio Calabria / Coordinamento Donne CGIL – Catania / Donne catanesi per la Pace – Catania / Associazione CRIS Centro di Ricerca e Intervento Sociale – Perugia
/ UDI Modena / Donne in Nero Mestre e Venezia / UDI Catania / Donne insieme per la Pace – Firenze / Coordinamento nazionale ecofemminista / CISDA ETS – Torino / Terra di Lei terzo municipio Roma / Collettivo Donne di Baggio – Milano / Donne in Nero – Perugia / Associazione Culturale La Goccia – Perugia / Coordinamento Donne Lega SPI-CGIL Perugia / ANPI Sez. Partigiane d’Italia Perugia / Donne CGIL Perugia / Progetto Donna Integra di Magione Perugia / Donne di Sinistra Futura per la Pace Perugia / Coordinamento Donne SPI-CGIL Provinciale Perugia / Toponomastica Femminile Perugia / Rete Anti Violenza Perugia / Associazione Donne per la difesa della società civile Torino / Donne in Nero Rovereto / Donne in Nero Bari / Casa delle donne contro la violenza ODV Modena / UDI Madonie / UDI Napoli / Donne per la pace Berlino – Germania / Associazione G.A.I.A. Per le donne – Piossasco / Donne Casa per la Pace di Modena / Donne in Nero Modena / Collettivo DiEffe Napoli / Associazione Terra di Lei Napoli / Le Vicine di Casa Mestre / Donne in cammino per la pace Mondovì / Donne in Nero Fano / Silenzio per la Pace Milano / Donne in Nero Mirano (VE) / Casa delle donne di Pesaro / Donne in Nero di Padova / Associazione Donne per la difesa della società civile Torino / SvoltaDonna OdV Centro Antiviolenza Pinerolo / Donne in cammino per la pace di Pesaro / Associazione Differenza Maternità odv Modena / UDI Velia Sacchi Bergamo / Marea (rivista) Genova / Rete Donne in cammino per la pace Brescia / Donne in Nero Parma / Associazione Se Non Ora, Quando? San Donà di Piave / Casa delle donne – San Donà di Piave / Donne in cammino per la pace Cuneo / Donne della Comunità di Base Villaggio Artigiano Modena / Coordinamento Donne Val Pellice – Torre Pellice (TO) / UDI Perugia / Gruppo Donne dell’Associazione ColorEsperanza Aps Milano / Casa della donna Pisa / Gruppo “In silenzio per la Pace” Pisa / Collettivo Donne insieme Casale Monferrato (AL) / Nuova Società Futura Milano / UDI Ravenna / UDI Pesaro / Comitato Donne per il Consultorio di Bagheria (PA) / Associazione Il Graal Italia – Milano / UDI Cava dei Tirreni (SA) / ResistiAmo – Isola d’Ischia / UDI Carpi (Modena) / Donne in nero – Alba (Cuneo) / Gruppo Donne per la pace – Sondrio / L.E. 0 100 – Chioggia / Insieme Arte Amare – Chioggia / Gruppo Donne per la Pace – Sondrio / Pari Amore Catania / Associazione Maddalena APS – Centro Antiviolenza Napoli / Donne in Nero – Cassino / Se non ora, quando? – Cassino / Consulta delle donne – Capaci (PA) / (Donne) Fiab Modena APS / Donne in Nero Bergamo / Associazione Culturale Femminista Blu Bramante Modena / Gruppo di Lettura “Un libro insieme” Cagliari / UDI Carpi (MO) / Biblioteca di Quartiere San Sebastiano Cagliari /Centro Documentazione Donna Modena / Associazione Casa delle Donne Modena / Coordinamento 3 Donne di Sardegna Aps / Donne della Scuola di cultura politica Francesco Cocco – Cagliari / Coordinamento Donne dell’ANPI – sez. di Bagheria (PA) / Rete Bergamasca contro la violenza di genere – Bergamo / Coordinamento Donne SPI-CGIL Torino / Associazione ALTReMENTI/Biblioteca Popolare – Ponte Felcino Perugia
da il manifesto
Il dibattito in corso sul “fine vita”, e sul suicidio assistito in particolare, sembra attraversato da un grande equivoco, come se il punto fosse quello di dirimere il contrasto fra due diritti incompatibili fra loro: il diritto alla vita, da una parte, il diritto alla morte dall’altra. Come se questo, semplicemente, dovesse fare una legge sul suicidio assistito: stabilire se a dover prevalere sia, in assoluto, l’uno o l’altro di tali diritti. Come se fossero queste, semplicemente, le domande da rivolgere alla legge, da una parte o dall’altra: esiste, e va tutelato, un diritto a morire? Oppure: esiste, e va tutelato, un diritto alla vita? E come se, infine, fossero semplicemente queste le domande alle quali ha risposto la Corte costituzionale nelle due sentenze del 2019 e del 2024, cui ora la legge dovrebbe dare seguito.
In realtà le questioni in gioco, e le domande, sono altre, molto più articolate: in gioco non è la libertà di vivere o morire, e tantomeno una libertà assoluta, senza limiti; né il punto è quello di decidere una volta per tutte, attraverso una legge, se la vita debba avere la meglio sulla morte o la morte sulla vita. In gioco, piuttosto, è il mistero tanto della vita quanto della morte, e la sua insondabilità. Solo la morte, ha scritto Tolstoj, ci rivela finalmente a noi stessi, ed è appunto questo il senso della frase: che ognuno di noi è un mistero per sé stesso, ancora prima che per gli altri. Quello che può fare la legge, allora, è riconoscere questo diritto al mistero e proteggerne l’insondabilità, piuttosto che pretendere di scardinarlo autoritativamente. Qui, proprio qui, risiede l’importanza delle due sentenze della Corte costituzionale: nell’aver fissato dei princìpi rispettosi del mistero, e dunque tanto di un diritto alla vita quanto di un diritto alla morte, della sacralità di entrambi. Senza assolutismi, senza dogmatismi; in ultima analisi, senza soprusi nei confronti del diritto di ciascuno di coltivare dentro di sé l’idea della vita e della morte che meglio corrisponda alla propria sensibilità, o alla propria visione del mondo.
Cos’ha stabilito la Corte, in quelle due sentenze? Lo sappiamo: ha stabilito che il suicidio assistito, pur vietato nel nostro ordinamento, può tuttavia essere ammesso a quattro condizioni. Vale a dire: a condizione che la persona che chiede di essere aiutata a morire sia «affetta da una patologia irreversibile» (prima condizione) che sia «fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che trova assolutamente intollerabili» (seconda condizione) e sia «tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale» (terza condizione), salvo dover essere «capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (quarta condizione). E tutto si può dire, come si vede, meno che, in questo modo, la Corte abbia voluto pronunciare parole definitive. È vero il contrario: e proprio per questo, infatti, ci si può spingere a dire che le due sentenze, oltre che così importanti, sono anche bellissime. Dove la loro bellezza consiste nell’aver inscritto la fragilità della vita dentro una norma, riconoscendone la dignità d’essere anche nel momento più estremo. Naturalmente a non essere mai bello è il dolore; ma la bellezza può consistere nel riuscire ad accoglierlo, a comprenderlo, a compatirlo. A farlo anche proprio.
Ecco, questo dovrebbe fare ora la legge (come la legge dovrebbe fare sempre, del resto): essere capace, umanamente, della medesima compassione. Saper includere il limite, e saper dichiarare, di là da quel limite, anche una resa. «C’è un limite a quello che ciascuno di noi considera sopportabile e c’è una capacità di adattamento che consente talvolta di spostarlo oltre», ha osservato Giada Lonati, medica palliativista, in un libro pieno di sensibilità e delicatezza dedicato alle storie di alcune delle persone che la stessa Lonati ha accompagnato nei tratti finali delle loro vite (“L’ultima cosa bella”): «Poi per qualcuno di noi c’è una soglia superata la quale non ha più senso tollerare alcuna sofferenza. È come se il peso sulla bilancia si spostasse: fin qui era ancora accettabile, da qui in avanti non lo è più. E il confine lo stabilisce ogni essere umano per sé».
da Facebook e Instagram
10, 100, 1000 piazze per la pace è un’iniziativa che nasce da donne impegnate nei movimenti per la pace, il disarmo, la giustizia sociale, l’ambiente e attive in numerose città, paesi e territori italiani.
Viviamo in un’epoca segnata da una drammatica escalation bellica: dalla distruzione sistematica della Palestina, dove l’offensiva militare su Gaza si configura come un vero e proprio futuricidio (Stéphanie Latte Abdallah), alla devastazione di vite e territori in Ucraina, dall’estensione della guerra all’Iran ai conflitti dimenticati in Sudan, Congo, Siria, Yemen, Myanmar e in molte altre aree del mondo, si delinea un quadro globale in cui la guerra si impone come norma e linguaggio dominante.
Questo contesto, fatto di violenza diffusa, impunità e disumanizzazione, richiede una risposta collettiva, visibile, radicale. La mobilitazione del 26 giugno nasce da qui: dalla necessità urgente di rifiutare la logica del dominio, la retorica dell’intervento armato e l’idea che la pace possa essere imposta con le armi. La guerra non è un’eccezione: è un dispositivo strutturale di potere, parte integrante di un sistema economico e politico che trae profitto dal disastro e dalla paura.
Per questo denunciamo la militarizzazione crescente, l’espansione dell’industria bellica, la narrazione dominante che censura e distorce. E rilanciamo una politica capace di “ascoltare il dolore”, che non sacrifica le vite in nome della patria o della sicurezza ma sceglie la responsabilità, la giustizia, la convivenza.
Il 26 giugno saremo in piazza per aprire domande, per affermare che la pace non è un’utopia, ma una possibilità concreta. Una pratica da esercitare ogni giorno, a partire dai corpi, dalle parole, dall’esperienza delle donne come forza trasformativa.
La data del 26 giugno è stata scelta per rientrare nella settimana di mobilitazione europea indetta da Stop ReArm Europe.
Per informazioni e mappa delle piazze: https://www.facebook.com/share/191TLpMK3v/ https://www.instagram.com/100piazze_pace
email: donnecontroguerra.pinerolese@gmail.com tel. +39 349 775 9198 +39 331 845 4499
Presidio donne per la Pace di Palermo
Presidio donne per la Pace di Caltanissetta
Donne contro ogni guerra – Gruppo del Pinerolese
Ezzideen Shehab non ha ancora trent’anni, è nato e cresciuto a Jabaliya, e dopo dieci anni vissuti all’estero, dove si è laureato, è tornato a Gaza e ha dedicato la sua vita a curare. Ma quella missione gli è stata sottratta, ha scritto nell’ottobre scorso in un articolo pubblicato da The Nation che, nonostante il tempo passato, vale ancora la pena di leggere (e di cui riportiamo qualche passaggio): «Gli strumenti di cui ho bisogno per curare vengono distrutti, e le vite che ho giurato di proteggere vengono decimate. […] Ho visto i bambini morire perché abbiamo esaurito qualcosa di così basilare come gli antibiotici. Molti dei miei colleghi sono stati uccisi, semplicemente per aver fatto il loro lavoro. Altri sono stati bloccati in aree pericolose, incapaci di raggiungere gli ospedali dove sono così disperatamente necessari. Ogni giorno rischiamo la nostra vita, sapendo che anche i luoghi destinati a guarire sono diventati bersagli. […] Settantadue membri della mia famiglia sono stati uccisi. Ospedali, scuole e case – luoghi destinati a proteggere – sono stati cancellati. Ogni spazio che una volta prometteva la sicurezza è stato trasformato in polvere. […] Ho perso il conto di quante volte io e la mia famiglia siamo stati sfollati. Siamo stati costretti a fuggire da un edificio distrutto all’altro, alla ricerca di sicurezza che non esiste».
Dal giugno 2024 ha raccontato quel che ha visto e vissuto nella Striscia e nelle strutture sanitarie in cui ha operato (tra cui il Pronto Soccorso dell’Indonesian Hospital e l’Alrahma Medical Centre) anche dall’account personale che ha aperto su X (ex Twitter), in cui si presenta così: «Hello, sono un medico a Gaza. A volte uno scrittore. Che rivela storie nascoste, una voce per chi non ha voce. Testimone delle profondità più oscure dell’umanità».
«Ogni giorno mi muovo tra le rovine, cucendo ferite che il mondo non vedrà mai. E di notte scrivo, perché certe verità non possono restare sepolte», dice ancora nell’appello apparso sulla piattaforma di Chuffed.org con cui chiede sostegno per poter pubblicare il suo primo libro (aperto alle sottoscrizioni fino al prossimo 19 luglio). «Se le mie parole vi sono arrivate, non è per caso. È perché il dolore esige di essere testimoniato. […] Aiutatemi a portare questo libro nel mondo. […] perché la memoria, una volta scritta, non può essere cancellata».
Il suo ultimo messaggio su X è del 12 giugno scorso. È stato visualizzato, ripostato, condiviso e pubblicato in tutto il mondo innumerevoli volte. Da alloradi lui non si hanno più notizie.
Non c’è internet.
Non c’è segnale. Nessun suono. Nessun mondo al di là di questa gabbia.
Ho camminato per trenta minuti tra rovine e polvere. Non in cerca di una via di fuga, ma di un frammento di segnale, quanto basta per sussurrare: «Siamo ancora vivi».
Non perché qualcuno stia ascoltando,
ma perché morire inascoltati è la morte definitiva.
Gaza ora è in silenzio.
Non con la pace, ma con l’annientamento.
Non un silenzio di quiete, ma di soffocamento.
Hanno tagliato l’ultimo cavo.
Nessun messaggio parte. Non entrano immagini.
Anche il dolore è stato proibito.
Ho incrociato i cadaveri di edifici, di case, di uomini, alcuni che respiravano, altri no.
Tutti cancellati dalla stessa mano che ha cancellato le nostre voci.
Questo non è un assedio di sole bombe.
È un assedio della memoria: una guerra contro la nostra capacità di dire «Noi eravamo qui».
I bombardamenti non si sono mai fermati, soprattutto a Jabaliya.
Bombardano le strade dove i bambini chiedono l’elemosina.
Bombardano le file dove le madri aspettano la farina.
Bombardano la fame stessa.
Niente cibo. Niente acqua. Nessuna uscita.
E chi ci prova, chi cerca aiuto, viene colpito.
Qui la gente muore e nessuno lo sa.
Non perché l’uccisione si sia fermata, ma perché l’uccisione della connessione è riuscita.
Internet è stato il nostro ultimo respiro.
Non era un lusso; era l’ultima prova della nostra umanità.
Ora non c’è più.
E nel buio, massacrano senza conseguenze.
Ho trovato questo debole segnale SIM come un uomo morente trova una fiammella.
Mi sono trovato sotto un cielo spezzato, rischiando la morte, non per salvarmi, ma per inviare questo.
Un unico messaggio.
Un’ultima resistenza.
Se state leggendo, ricordate:
abbiamo attraversato il fuoco per dirlo.
Non siamo stati silenziosi.
Siamo stati messi a tacere.
E quando i collegamenti saranno ripristinati,
la verità sanguinerà attraverso i fili,
e il mondo saprà ciò che ha scelto di non vedere.
da Il Post
Oggi chi lo pratica fuori dai termini consentiti è perseguibile, per via di una legge del 1861
La Camera dei Comuni del Regno Unito (la camera bassa del parlamento) ha votato a favore della decriminalizzazione dell’aborto: con 379 voti a favore e 137 contrari è stato approvato un emendamento che modifica le leggi che regolano l’aborto in Inghilterra e Galles, in modo che le donne che interrompono la gravidanza al di fuori del quadro legale attualmente previsto non possano più essere perseguite penalmente.
L’emendamento è stato presentato a un disegno di legge più ampio che si occupa di criminalità e polizia: per entrare in vigore è necessario che tutto il disegno di legge venga approvato da entrambe le camere del parlamento e riceva l’assenso reale. Il testo gode comunque di ampio sostegno, e dovrebbe passare senza particolari problemi.
Nel Regno Unito l’aborto è disciplinato dall’Abortion Act del 1967, che consente l’interruzione volontaria di gravidanza sulla base del parere di due medici ed entro la ventiquattresima settimana. Il termine è esteso nei casi in cui la gravidanza comporti un pericolo grave per la salute della donna o del feto. Quella del 1967 rappresenta una deroga all’Offences Against the Person Act del 1861, introdotto quando le donne non potevano ancora votare: costituisce ancora oggi la base giuridica per i reati contro la persona e prevede, tra le altre cose, che una donna che decide di abortire possa essere punita con l’ergastolo.
Negli ultimi anni diverse donne sono state effettivamente arrestate e processate per aborto illegale. Si stima che siano state più di cento negli ultimi dieci anni, e almeno sette dal dicembre del 2022.
Due casi in particolare hanno fatto aumentare le richieste e le pressioni per la decriminalizzazione. Nel 2020 Carla Foster, una donna di 45 anni già madre di tre figli, era stata condannata a più di 2 anni di carcere per aver interrotto la gravidanza alla 32esima settimana grazie alle pillole abortive che aveva ricevuto comunicando all’organizzazione che l’aveva sostenuta di essere incinta di sette settimane. Un mese dopo la sua condanna è stata dimezzata e infine sospesa.
Lo scorso maggio Nicola Packer, una donna londinese di 41 anni, era stata assolta dall’accusa di aver assunto la pillola abortiva oltre il limite di tempo consentito (10 settimane) dopo un processo durato più di quattro anni. Nel 2020, in pieno lockdown da Covid, Packer aveva eseguito un test che aveva confermato la gravidanza. Non volendo diventare madre aveva ottenuto dei farmaci abortivi tramite una consulenza in telemedicina, prevista nel Regno Unito, ignara però di essere a circa 26 settimane di gestazione. Dopo aver assunto i farmaci era andata in ospedale per una complicazione e l’ospedale aveva chiamato la polizia.
Packer era stata dunque arrestata e accusata in base alla legge del 1861. Dopo sei ore di camera di consiglio, la giuria l’aveva assolta all’unanimità. «Non so come qualcuno possa giustificare una cosa del genere: sprecare cinque anni della mia vita che non torneranno mai più indietro, prolungare il trauma in modo continuo. Non lo augurerei a nessuno. Sono stati i peggiori quattro anni e mezzo della mia vita», ha detto qualche settimana fa Packer all’uscita dall’aula.
L’emendamento approvato ora alla legge del 1861 non cambierà le disposizioni del 1967 in base alle quali l’aborto è permesso fino alla 24esima settimana previa autorizzazione di due medici, ma non considererà più un reato le eventuali violazioni. Presentandolo in aula, la deputata laburista Tonia Antoniazzi ha citato il caso di Packer e quello di una donna di nome Laura (il cognome non è stato diffuso) incarcerata per due anni per aborto illegale mentre il compagno violento, che l’aveva costretta ad assumere la pillola abortiva, non aveva subito alcuna conseguenza.
L’emendamento è stato sostenuto pubblicamente da sei facoltà di medicina; dalla British Medical Association, il principale sindacato dei medici; e da varie organizzazioni e associazioni che si occupano di diritti riproduttivi, oltre che dai movimenti femministi. Ranee Thakar, presidente del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists, associazione professionale con sede a Londra, ha detto che il voto favorevole all’emendamento è «una vittoria» per le donne e per i loro diritti riproduttivi, soprattutto in un momento in cui tali diritti sono ostacolati in molte parti del mondo.
Parlando ai giornalisti dal Canada, dove si trova per la riunione del G7, il primo ministro britannico Keir Starmer ha detto che avrebbe appoggiato l’emendamento se fosse stato in aula, dicendo anche di essere da sempre un sostenitore dell’aborto libero, sicuro e legale.
da il manifesto
I recenti attacchi israeliani contro obiettivi militari in Iran non rompono la logica che da decenni domina la regione: quella di una guerra per procura, in cui i popoli sono solo pedine da sacrificare
In un sud-ovest asiatico attraversato da tensioni sempre più profonde, il popolo iraniano si ritrova ancora una volta intrappolato in una storia che non ha scritto. Senza voce nei processi decisionali, senza alcun potere sui giochi di forza regionali e internazionali, milioni di persone diventano bersaglio passivo di dinamiche che non hanno nulla a che vedere con la loro sicurezza o il loro futuro.
I recenti attacchi israeliani contro obiettivi militari in Iran non rompono la logica che da decenni domina la regione: quella di una guerra per procura, in cui i popoli sono solo pedine da sacrificare. Nonostante alcuni osservatori interpretino queste operazioni come un tentativo di indebolire le strutture militari della Repubblica Islamica o persino di favorire un cambio di regime, resta un’unica certezza: chi paga il prezzo più alto sono sempre i civili. Uomini, donne, bambini, esclusi dalla pianificazione della guerra come dalla progettazione della pace.
Nel frattempo, il popolo iraniano si trova a fronteggiare non solo una minaccia esterna, ma anche una profonda crisi interna. A seguito degli attacchi israeliani, il governo degli ayatollah, nel nome dell’emergenza, stringe ancora di più il pugno. Il paese ha visto un’escalation di repressione: arresti notturni di attivisti, incursioni nelle case dei dissidenti e gravi limitazioni all’accesso a internet in varie province. Il governo sfrutta lo stato di guerra per legittimare la violenza istituzionale, restringere lo spazio pubblico e controllare il discorso politico. In Kurdistan e nel Sistan-Baluchistan, regioni già martoriate dalle rivolte degli ultimi anni, la stretta è stata particolarmente feroce. Sono le stesse regioni che durante le recenti rivolte hanno pagato il prezzo più alto in termini di vite umane.
Non è una novità. La Repubblica Islamica ha affinato nel tempo una strategia che potremmo definire “ingegneria del conflitto etnico” o “dividi e impera” con lo scopo di indebolire i movimenti di protesta. Fomentando la paura del federalismo e creando un’artificiale contrapposizione tra centro e periferia, le istituzioni statali sono riuscite a marginalizzare le rivendicazioni di giustizia sociale delle nazionalità oppresse; kurdi, baluci, arabi, turkmeni.
La realtà sul terreno dimostra che le comunità storicamente discriminate, nonostante la repressione persistente, hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo centrale nella resistenza civile contro l’autoritarismo. Lo fanno chiedendo uguaglianza giuridica, partecipazione politica, giustizia sociale. Lo fanno nonostante tutto, pagando un prezzo altissimo. Perché ogni richiesta, ogni voce libera, viene letta come un attacco, come una richiesta di separatismo. Ogni resistenza come tradimento.
Ma la crisi che oggi attraversa l’Iran va ben oltre i suoi confini. La crisi attuale evidenzia come la mancanza di democrazia e di responsabilità istituzionale abbia trasformato il Paese in un campo di battaglia per le potenze esterne. Inoltre, i programmi nucleari, gli investimenti militari e l’opacità delle strutture decisionali hanno non solo logorato le risorse nazionali, ma anche creato terreno fertile per le ingerenze straniere.
Il popolo iraniano oggi sopporta due violenze: quella interna, dello Stato che reprime, censura, tortura; e quella esterna, delle potenze che si contendono l’influenza su un Paese mai pacificato. A queste si aggiunge una terza violenza, più sottile ma non meno devastante: quella dell’abbandono internazionale. Per la gran parte della popolazione, quello che conta è che la guida suprema Ali Khamenei lasci finalmente il potere. Ma non per questo è disposta ad accettare le ingerenze straniere, di Israele e di chiunque altro. A rendere ancora più incerto l’orizzonte c’è l’assenza di una alternativa politica forte e riconosciuta e di un progetto concreto per il dopo-Repubblica Islamica, un vuoto che, come le proteste brutalmente soffocate degli ultimi anni hanno mostrato, alimenta una profonda inquietudine collettiva sul destino del Paese.
In questo contesto, è responsabilità della comunità internazionale, in particolare dell’Unione europea e degli stati difensori dei diritti umani, andare oltre un ruolo meramente osservativo.
L’Europa e l’Italia devono offrire una narrazione indipendente sulla realtà iraniana: una narrazione che non sia subordinata agli interessi geopolitici ma che sia coerente con i diritti umani e la giustizia sociale. Esercitare una pressione diplomatica efficace sulla Repubblica Islamica per fermare la repressione interna, sostenere apertamente i media e gli attivisti indipendenti, facilitare vie sicure per l’asilo politico degli attivisti in pericolo e supportare i movimenti democratici non violenti: sono queste le azioni concrete che possono dimostrare che l’Europa è davvero dalla parte dei diritti umani.
(*) Maysoon Majidi è una regista, attrice e attivista nata nel Kurdistan iraniano, impegnata in difesa dei diritti delle donne e delle minoranze. Fuggita dall’Iran nel 2019, è approdata a Crotone nel 2023. Accusata di essere una scafista, ha trascorso dieci mesi in carcere. Nel febbraio del 2024 il Tribunale di Crotone l’ha assolta con formula piena, per non aver commesso il fatto.
da La Stampa
Come cittadine iraniane costrette a vivere fuori dall’Iran ma per questo libere di parlare a volto scoperto senza temere persecuzioni e arresti, vogliamo lanciare un appello urgente alla comunità internazionale affinché fermi gli attacchi contro le città iraniane da parte di Benjamin Netanyahu, accusato dalla Corte dell’Aja di crimini di guerra nei confronti della popolazione palestinese della striscia di Gaza. La società civile iraniana assiste inerme al prezzo più alto. Si tratta di una società civile giovane e progressista, che da anni lotta per porre fine alla dittatura religiosa della Repubblica Islamica con coraggio e determinazione, a costi altissimi. È la stessa società civile che, dopo l’assassinio di Mahsa Jina Amini, si è sollevata sostenendo il movimento “Donna, Vita, Libertà”. È stata la disobbedienza civile delle donne a far indietreggiare il regime, portando il Paese a un cambiamento sociale ormai irreversibile. Il popolo iraniano è sceso in piazza a mani nude, sfidando arresti, torture, detenzioni arbitrarie e morte: non ha chiesto l’intervento militare di potenze straniere per abbattere il regime, ha chiesto invece il riconoscimento e il sostegno al cammino verso la libertà e la giustizia intrapreso da chi, da oltre quarant’anni, promuove i valori di democrazia e uguaglianza. Oggi le voci più autorevoli di questa società civile sono sorvegliate a vista. Ogni loro parola sulla crisi attuale può costare il carcere. Eppure è a loro che dobbiamo dare ascolto, non ai missili.
Gli attacchi degli ultimi giorni, che nonostante la retorica bellica colpiscono sì i pasdaran ma anche civili e oppositori, non porteranno la libertà. Israele, o qualsiasi altra potenza straniera, non può e non deve essere l’artefice del cambiamento in Iran. L’Iran sarà libero. Ma sarà libero grazie alle sue figlie e ai suoi figli. Non con la violenza esterna, ma con la forza di una società civile che continua a resistere.
Chiediamo a chiunque creda nei valori della pace e dei diritti umani di condannare fermamente, e con indignazione, l’uccisione di civili in Iran e nel resto del mondo, scendendo in piazza, firmando petizioni e promuovendo ogni azione utile per fare pressione sulla comunità internazionale affinché fermi un altro massacro. Fate tutto ciò che è in vostro potere per fermare questa pericolosa escalation militare.
La storia dell’umanità insegna che nella guerra non ci sono vincitori: tutti ne escono sconfitti. La democrazia non può essere realizzata attraverso la guerra e la distruzione.