Da La Stampa – Per quanto la maggioranza dei maschi di sesso maschile si ingegni ad apparire in primo piano nelle cronache, non riuscirà più a strappare il protagonismo alle donne. Da leader, da uccise-una-al-giorno, da bottino di guerra, da campionesse sportive, da pensatrici, da scienziate, da affaccendate nella cura, da premier, da combattenti rivoluzionarie… saremo sulla scena della storia da protagoniste, nel bene e nel male. Esistono, certo, quelle che considero la vergogna del mio sesso, ci sono sempre state e stanno aumentando, da collaboratrici all’ingiustizia e alla violenza attraverso l’avidità di potere, da invidiose, da puntelli del patriarcato, da femministe di Stato, come chiamano le femministe radicali tedesche le donne che fanno il gioco del governo di turno. Ma questo lo posso dire e scrivere io e altre come me, che si affannano da decenni a mostrare l’esistenza operativa della differenza di chi, tra le donne, si assume storicamente le conquiste della rivoluzione femminista nel mondo. Non è in alcun modo accettabile, invece, il revanscismo misogino di un noto giornalista –per fare un recente esempio – che sembra felice di titolare un pezzullo Le tre macho (Venerdì di Repubblica, 5/7/24), riferendosi a Giorgia, a Marine Le Pen, a Marina Berlusconi. La soddisfazione con cui scrive che “la moderna donna italica (sic!) non persuade, ordina”, e che “fa suo l’archetipo maschile del comando assoluto” testimonia dell’imbarazzo e dell’ansia (italica?) con cui è vista l’avanzata inarrestabile delle donne, ovunque e in qualsiasi modo le muova il desiderio o la brama, o l’eccellenza. Oggi sarebbe più che mai doveroso guardare a occhi aperti e limpidi la vergogna o la differenza positiva del mio sesso. Prendiamo le elezioni francesi, sapendo che sono le donne in tutto il mondo a determinare l’esito delle competizioni elettorali. In Francia, sono state il 30% dei votanti al ballottaggio mentre prima erano “quasi assenti”. Significa, niente meno, che hanno determinato la vittoria dei progressisti. Poi, ci stiamo impegnando a ringraziare gli sforzi delle vittoriose Jasmine Paolini, di Paola Egonu, delle pallavoliste italiane, oscurate dai media alla sequela delle vittorie di Sinner, a senso unico. Intanto, suggerirei ai giornalisti di provare a notare l’impegno delle tante che hanno raggiunto il potere pubblico e sono rimaste non assoggettabili dalla seduzione maschile: Ada Colau a Barcellona, Sonia Gandhi, Elisabetta I e II, Rosy Bindi, Simone Veil, e centinaia di altre che fanno la differenza femminile nella storia. Sono l’onore del mio sesso. Ma perfino le tre definite “macho” sono differenti nella loro ambiguità anche se sono di frequente la vergogna del mio sesso, ma il giudizio di quando e di come lo sono, può essere espresso solo da chi vuole bene al mio sesso, e ne sa riconoscere anche l’eccellenza, quando c’è. 

Dalla contraddizione dell’uguaglianza al “nostro strano potere”: abbiamo invitato Terranova a trascorrere un giorno con la filosofa per raccontarla

Cominciamo dalla fine. L’ultima cosa che Adriana Cavarero fa prima di salutarmi, dopo una giornata trascorsa insieme a parlare di femminismo, filosofia e narrazione, è portarmi nel suo studio, la stanza della sua casa veronese dove si ritira per scrivere. Proprio sopra la scrivania c’è una cornice con tre foto: in una c’è Hannah Arendt che fuma, in un’altra lei da giovane, la terza non si vede bene, è scivolata dietro le altre. Insieme la tiriamo fuori e scopriamo Adriana e la filosofa Judith Butler sedute su un muretto, la mano dell’una sulla spalla dell’altra, alla fine degli anni 90 a Berkeley, dopo qualche impegno universitario che le aveva viste insieme, uno dei molti. Cavarero indossa un cardigan a righe azzurre e viola, Butler una camicia scura. Non sono molto diverse da adesso le due filosofe, l’autrice di Nonostante Platone (Castelvecchi) e quella di Questione di genere (Laterza), spartiacque del pensiero femminista pubblicati parallelamente (il primo fu tradotto quasi subito in America) che hanno avvicinato due pensatrici straordinarie e spesso su posizioni diverse, se non opposte.

Mi piacerebbe sapere qualcosa in più del vostro dialogo, che non si è mai interrotto.

«Dialogo è una parola insufficiente, preferisco parlare di sforzo per capire il linguaggio dell’altra. Judith viene dallo strutturalismo postmoderno e io ho una formazione classica, non parliamo la stessa lingua madre, ma tra me e lei non è mai mancata la volontà di capirsi e di capire».

Uno sforzo che dovrebbe innervare sempre le discussioni fra donne. Per le femministe della mia generazione, la comunità filosofica femminile che ha creato a metà degli anni 80, Diotima, è rimasta un modello.

«Diotima è nata dall’incontro con Luisa Muraro, io ero una militante dell’uguaglianza, ma la posizione emancipazionista mi risultava insoddisfacente, mi rendevo conto che mi veniva chiesto di trasformarmi in un uomo e sentivo qualcosa che strideva. L’incontro con Muraro e con i testi di Luce Irigaray mi hanno permesso di esplorare la contraddizione dell’uguaglianza, rimettendola al suo posto di elemento strategico per la conquista della parità economica e dei diritti, per rivolgermi al più complesso pensiero della differenza sessuale».

In Tu che mi guardi, tu che mi racconti (Castelvecchi), scrive: “l’Uomo è contemporaneamente l’intera specie maschile e uno dei due generi. È neutro e maschile. È tutt’e due, nessuno dei due e uno dei due”. Trovo in queste righe uno sbocco per l’asfissia che provo nella guerra al femminile in perenne atto nella nostra lingua. Una guerra che mi sembra coincidere con l’occultamento fazioso della maternità.

«La propaganda sulla maternità pesa sulle donne attraverso molte forme: una, ricorrente, è l’idealizzazione della donna in carriera che molla tutto perché sente la vocazione di dover crescere i figli. Per non parlare del ricatto della natalità, come se partorire fosse un dovere sociale. Ma questo non può giustificare la censura, dobbiamo scappare dalle trappole senza dimenticare che siamo nate e nati tutti da un corpo femminile, perché solo un corpo femminile può partorire. È quello che Virginia Woolf chiamava “lo strano potere”, e rimane un potere anche se si sceglie legittimamente di non esercitarlo».

Oggi però molte femministe sembrano vedere solo la trappola, il limite. Credo serva più divulgazione approfondita, meno da slogan, per tenere la discussione sul materno su piani meno banalizzanti.

«In settembre uscirà per Mondadori un libro che ho scritto insieme a Olivia Guaraldo, Donna si nasce: gioca ovviamente con la famosa frase di Simone de Beauvoir secondo cui donne si diventa. Affrontiamo antiche e nuove questioni, è diretto a tutte e tutti, in particolare ai più giovani».

Non vedo l’ora. Nel frattempo, torno a Tu che mi guardi, tu che mi racconti: un libro chiave, non a caso Elena Ferrante ha scritto che per lei è stato uno spartiacque quando ha scelto il punto di vista dell’amica per raccontare la vita di un’altra.

«Hannah Arendt, che insieme a Platone e María Zambrano è la filosofa di cui più mi sono occupata, ha sostenuto che la Storia, quella con la maiuscola, non è che l’intreccio di molte storie. Io non sono una narratrice, ma la letteratura è una mia passione, mi è venuto naturale interessarmene, come è accaduto per la musica. Indagando la distinzione fra biografia e autobiografia, mi sono accorta della potenza che si sprigiona quando è l’altro a raccontare la tua storia, quando addirittura si arriva a chiedere: dimmi chi sono. Succede con la madre, che conosce di te un segmento che tu stesso non puoi ricordare, o con gli amanti, tra cui si stabilisce un rapporto di narrazione biografica reciproca».

Edipo e Ulisse sono i personaggi che lei porta come esempio perché ignari di una parte della propria storia e desiderosi di sentirla raccontare. È un caso che siano uomini?

«Le donne sono di solito grandi narratrici. Vede, noi due ci siamo viste poche ore fa e già a pranzo ci siamo raccontate dei momenti intimi della nostra storia personale. Gli uomini non hanno questa consuetudine, si scambiano interessi, opinioni, non narrazioni. Ovviamente parlo sempre di un maschile e femminile stereotipico, non di singole esperienze».

Anche se abbiamo parlato di femminismo e di letteratura, forse il libro che tutti dovrebbero leggere in questi tempi è quello in cui lei teorizza e dimostra l’oscenità della violenza, Orrorismo (Castelvecchi).

«Purtroppo, sì».

E non sappiamo più dove guardare, mentre le parole, cui entrambe abbiamo affidato la nostra vita, d’improvviso spariscono.

Alcune studentesse e studenti dell’Università di Verona come di altre università hanno chiesto ai docenti di dedicare le lezioni del 5 maggio 1999 alla riflessione sulla guerra nei Balcani; quello che segue è il testo del mio contributo.

Care studentesse, cari studenti, non ho cose risolutive da dirvi su quello che ci sta capitando. Che è una guerra, né più né meno. La stiamo facendo contro un paese che si chiama, ufficialmente, Repubblica federale di Jugoslavia, capitale Belgrado. Non è una guerra che loro fanno a noi, potrebbero anche provarci, ma tutti lo escludono, infatti l’Occidente ha inventato guerre unilaterali, che sono molto comode dal suo punto di vista, perché l’altro non è in condizione di rispondere. E noi facciamo parte dell’Occidente, sia pure un po’in bordo. Siamo dalla parte giusta, direbbe l’anziano filosofo torinese Norberto Bobbio.

Quello che ho da dire, ho deciso di dirlo in una lezione pubblica (ringrazio gli studenti che mi hanno dato questa idea) e ho chiesto al quotidiano il manifesto di pubblicarla. C’è bisogno di parole. I giornali, televisione compresa, sono pieni di discussioni sulla guerra, per fortuna, e io li leggo volentieri, ma le parole che mancano sono di un altro tipo. I giornali ragionano sulla guerra come se fosse una cosa sensata, più o meno giusta (o, secondo altri, più o meno sbagliata). Mancano le parole per quelli che sono rimasti di sasso, come me e come molti di voi. I soldi che prendo ogni mese li prendo da voi o da chi vi mantiene, li prendo dalle mie ex compagne di scuola elementare che, a undici anni, mentre io andavo alle medie, sono andate a fare marmellate da Boschetti, li prendo dagli operai che hanno costruito questo edificio dentro il quale voi studiate e io insegno. In cambio di che cosa? Di parole. Non parole che ci sono già. Le altre, per non restare sassi.

Nella mia vita è la seconda volta che l’Italia entra in guerra. La prima volta ero vecchia di due giorni, la guerra durò quasi cinque anni e i miei ricordi d’infanzia somigliano a quelli di un reduce. Credevo che la vita fosse fatta di bombardamenti, fosse anticarro, caccia che scendono in picchiata a mitragliare, dormire in cantina e sognare grandi mangiate di latte e pane.

Poi venne la pace e mi sono adattata. Poi, verso i dieci anni, mi portarono sull’Altipiano d’Asiago, dove ho fatto la conoscenza della Prima guerra mondiale. A distanza di quanti anni, trenta, l’Altipiano era ancora coperto di cicatrici e di reliquie. Diventarono i nostri giocattoli. Non ho ricordi orribili, perché sono stata protetta dall’infanzia e da mia madre. Però conosco la guerra: l’ho vissuta, l’ho guardata, l’ho toccata, me l’hanno raccontata.

Conosco un po’ anche la storia dell’Italia e sono arrivata alla conclusione che noi non possiamo più andare in giro a fare guerre. Invece sui giornali è scritto che sì, ne stiamo facendo una, lo dicono con parole contorte, che però equivalgono. Ma non riesco a convincermi. Agli inizi, ogni mattina leggevo i giornali sperando d’aver capito male. Adesso, sperando di leggervi la parola fine. Quando, nel 1992, cominciarono ad arrivare notizie terribili dalla Bosnia, io, aiutandomi con la mia ignoranza della geografia, cominciai a spingere la Bosnia distante dall’Italia, verso oriente, credo d’averla mandata in Asia, quasi in Mongolia. Questa volta il gioco non mi riesce, la geografia dei Balcani l’ho imparata, ma non mi abituerò all’idea.

Mai avrei creduto, e fino a due mesi fa in Italia nessuno, ne sono certa, ha pensato che la Nato ci avrebbe portato a fare la guerra nei Balcani. Proprio lì da dove è partita la Prima guerra mondiale, che si è tirata dietro sciagure immani, il nazismo, lo sterminio degli ebrei e degli zingari, la Seconda guerra mondiale. Chissà se negli Usa conoscono la storia dei Balcani… I professori d’università sì, gli altri mi chiedo, perché negli Usa fuori dalle università la cultura libresca circola molto poco, meno che da noi.

La peggiore ipotesi che potevo fare sull’Italia era l’introduzione della pena di morte. L’ho sempre escluso, sia chiaro, e continuo, però mi è capitato una volta di pensare: se dovesse succedere, emigrerò, non potrei vivere in un paese che ha la pena di morte. Adesso di colpo mi trovo a vivere in un paese che fa la guerra, è incredibile. Stiamo uccidendo i nostri vicini che non ci hanno fatto niente, stiamo distruggendo le loro case, le loro fabbriche, gli stiamo portando via il sonno, il lavoro, il combustibile, la salute, la vita. Le ragioni che ci hanno dato di questa guerra non stanno in piedi. Non si può aiutare degli innocenti ammazzando altri innocenti, così non si fa che moltiplicare il male. Forse ci aumenteranno le tasse per finanziare la guerra. Ho letto su un giornale: ci rifaremo con la ricostruzione. Ma non ci rifaremo della nostra disumanità.

Molti, per non disperarsi, si aggrappano all’intervento umanitario: dovevamo pure fare qualcosa per gli abitanti del Kosovo. Certo che dovevamo, per esempio non dovevamo fare i furbi quando la ex Jugoslavia è entrata in crisi; per esempio dovevamo proporre, come Europa, un piano di aiuti economici razionali e disinteressati; per esempio, non dovevamo dare soldi e pubblicità a giovanotti in cerca di avventure, e dare invece tutto il sostegno possibile agli oppositori politici più responsabili…

La notte, quando mi sveglio, preparo un discorso per spiegare agli alleati della Nato che l’Italia non può starci. Ma ci siamo già… Lo so, ma di notte posso ancora credere che no, senza contare che il discorso potrebbe tornar buono, chissà, per il nostro prossimo otto settembre.

Eccolo, anzi eccoli, perché ne ho preparati più d’uno: «Cari alleati, noi non ce la sentiamo di intervenire contro la Serbia perché noi che siamo suoi vicini, anzi un po’ congiunti, sappiamo che la penisola balcanica è un mosaico unico al mondo di popoli e di culture, che ogni tanto esplode e quando esplode bisogna assisterli con pazienza e sapienza perché le tessere si rimettano insieme. Bisogna ascoltare tutti e non mettersi con nessuno contro nessuno, e non pensare di avere noi la soluzione del conflitto perché soltanto loro sono in grado di ritrovare il delicato disegno della loro convivenza, lo hanno già fatto in passato, si sono insaccati in quella penisola da secoli e secoli e in tanti secoli di non facile convivenza hanno imparato il suo segreto anche se ogni tanto se lo dimenticano. È come eseguire una musica difficile. Se proprio vogliamo contribuire, diamo soldi, non è la soluzione, ma è sempre meglio delle bombe».

Secondo discorso: «A parte il fatto che la nostra Costituzione ci vieta espressamente di fare guerre che non siano di difesa, a parte il fatto che con voi abbiamo firmato un’alleanza a scopi difensivi soltanto e non risulta che la Jugoslavia abbia aggredito nessuno di noi, tenete conto che la nostra capitale, Roma, è anche la capitale del mondo cattolico e il Papa non è d’accordo con le guerre in genere e soprattutto con questa. È vero che non siamo tutti veramente cattolici e molte prendono la pillola anticoncezionale, molti usano il preservativo, divorziano, bestemmiano, sono gay ecc., tutte cose che al Papa non piacciono. Ma la guerra è un’altra faccenda e al Papa diamo ragione, ce l’ha! Voi, inoltre, vi state dimenticando che l’anno prossimo abbiamo il giubileo. Non dite che l’anno prossimo sarà finita, perché delle guerre si sa quando cominciano ma non quando finiscono. E poi, finisse pure tra una settimana, che sarebbe già troppo in là, noi dobbiamo prepararci fin d’ora, anzi siamo in ritardo. Come possiamo pensare alla guerra dovendo prepararci spiritualmente? E fare fronte all’invasione dei pellegrini? Rischiamo un caos spaventoso, nei lavori pubblici come nelle nostre anime».

Avrei concepito un altro discorso ancora, è il più forte, ma ho idea che a D’Alema non piacerebbe pronunciarlo. Ve lo dico: «Cari alleati, lasciateci fuori dalle guerre, non siamo adatti perché le nostre mamme ci hanno educati a dare bacini all’avversario. Appena si cominciava una baruffa, subito intervenivano le mamme a dividerci e poi “bacino, bacino”. Lo chiamano mammismo, ma è una civiltà anche questa. Giudicatela come vi pare ma siete avvisati che noi, dopo un po’, vogliamo dare bacini all’avversario».

Tu hai voglia di scherzare, mi dite. Sì, moltissima, respingo la retorica dell’“atroce guerra” che risuona in bocca di quelli che la guerra l’hanno decisa. Ma forse non è retorica, forse i nostri governanti non hanno deciso niente. Infatti, ripetono che era una scelta obbligata. A rigore, dunque, una non scelta. Se fosse così, dobbiamo tirare le conseguenze: altri hanno deciso per noi, ci hanno obbligati, forse siamo dalla parte della punta della spada (la parte sbagliata, direbbe Bobbio) e non dalla parte dell’impugnatura. Io questo non lo so, non sono in condizione di saperlo, né voi, del resto. Mi viene in mente un verso dei Sepolcri di Foscolo a proposito del potere politico: «…di che lagrime grondi e di che sangue».

O: di che sperma. Non è una parolaccia. Me l’ha suggerita quel film che s’intitola Sesso e potere dove si racconta di un presidente degli Usa il cui staff s’inventa una guerra (Sapete dove? In Albania, cioè un posto sconosciuto agli americani) per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da uno scandalo sessuale del presidente. Storia inventata prima che venisse fuori quella di Clinton con l’ormai famosa staggera Monica Lewinski. Nel cinema gli americani sono geniali. Va detto, però, che tra la pellicola e la realtà c’è una differenza tutt’altro che secondaria. Nella realtà, tutti i tentativi per coprire lo scandalo sono falliti e il presidente Clinton è stato messo alla gogna, in una maniera indecente, alla lettera, con tutti quei particolari, e per noi in Europa inaccettabile, ma non altrettanto negli Usa, la cui classe al potere ha una cultura, nel suo fondo, dura e bigotta. Basta leggere il bellissimo romanzo La lettera scarlatta di Hawthorne (1850). Solo che una volta la condanna del sesso libero ricadeva sulla donna mentre ora, in seguito al femminismo, può ricadere anche sull’uomo. Falliti i tentativi di coprire lo scandalo, il presidente Clinton ha salvato il potere riconoscendosi colpevole. E ora si sta rifacendo dell’umiliazione patita facendo una guerra giusta (che è peggio di una guerra finta, perché l’inganno non è esteriore ma interiore).

Per rendervi conto di quello che dico, guardate le foto del presidente Clinton in mezzo agli altri capi politici della Nato che festeggia i cinquant’anni a Washington, il 24 aprile scorso. Alto, pimpante, con il braccio destro alzato, sorridente. Si vede che si sta rifacendo della sua virilità messa alla gogna. Gli altri, tolto Solana, troppo onorato di essere in quella compagnia, hanno tutti l’aria di esibire una contentezza che non sentono.

Fra le distruzioni di questa guerra, quando dovremo fare i conti, prevedo che si dovrà mettere anche l’eredità del Sessantotto. La decisione di bombardare la Jugoslavia, infatti, è stata presa o sostenuta da uomini in gran parte di sinistra e provenienti dalle rivolte studentesche del famoso Sessantotto, da Clinton a D’Alema, passando per il segretario generale della Nato, Solana, e il ministro degli esteri tedesco, Fischer. La cosa che più mi urta, in questa faccenda, è che anche da noi gli intellettuali si siano messi a fingere, sui giornali e in televisione, una discussione sul bene e sul male, sulla guerra giusta e la guerra ingiusta, traendo in inganno le persone oneste e semplici, le quali persone possono credere che veramente l’intenzione di questa guerra fosse umanitaria e, soprattutto, che si possa giustificare una guerra con simili intenzioni.

In una celebre lettera del 1932, Perché la guerra?, quando ancora la Prima guerra mondiale era l’unica e non la prima di un elenco, lo scienziato Albert Einstein chiese a Freud se fosse possibile «dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino più capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione». Aggiunse subito che non stava tanto pensando alle «masse incolte». «La mia esperienza dimostra anzi che è proprio la cosiddetta “intellighenzia” a cedere per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata» (Freud, Opere 1930-1938, pag. 291).

Il contatto diretto con la realtà che dice Einstein, ce lo dà il nostro essere corpo. La realtà è corpo, sono corpi, non interamente certo, ci sono anche i minerali, stavo dicendo il sole, le stelle, la luna, ma sono corpi celesti e anche la società è corpo. E i corpi, quando si avvicina la guerra, tremano e sono in pena. Sanno che la guerra è fatta per distruggere, in un crescendo che non si saprà come fermare, tutto quello che piace ai corpi, come la casa, la tavola apparecchiata, il caffè, i vestiti, le fidanzate, i fidanzati, la luce, il tepore, l’amore. Perciò, io credo, il 24 marzo siamo rimasti di sasso, per passare nella realtà minerale, non essere più corpi, diventare tondi e insensibili. Le idee del bene e del male, mi dispiace per Platone, troppo spesso hanno ucciso e distrutto. Io vi consiglio di ascoltare piuttosto il vostro sentimento di corpi vivi, bisognosi, dipendenti, e ragionare di conseguenza.

Articolo uscito su “il manifesto”, 4 maggio 1999, e poi ripreso nel Quaderno di Via Dogana «Guerre che ho visto», di varie autrici, disponibile in Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, info@libreriadelledonne.it

Sin da quando ero alle elementari, vedendo i miei compagni di classe musulmani uscire da scuola durante il pranzo, mi sono sempre domandata cosa fosse effettivamente questo Ramadan di cui loro parlavano e in seguito, quando mi fu spiegato, ho sempre ritenuto fosse una prova ardua. Così quando la mia compagna di classe il mese scorso, a pochi giorni dall’inizio del Ramadan, mi ha proposto scherzando di fare un giorno di digiuno con lei, l’ho presa come una bella occasione per capire di più quella cultura che abita accanto a noi ma non è la mia.

Come mi aveva consigliato, mi sono svegliata alle quattro del mattino per fare colazione e poi sono tornata a letto, purtroppo per poco dovendo andare a scuola. Le prime ore di digiuno sono passate abbastanza in fretta, le lezioni mi tenevano impegnata, allo stesso modo i giri in corridoio. Non avevo fame né sete, mi mancava solo la mia pausa caffè, ma intorno alle quattordici la situazione si è fatta più critica, non tanto perché mangio intorno a quest’ora, ma soprattutto per il caldo e il lungo tragitto da scuola a casa della mia amica. Ho iniziato a sentire una gran fame e la mia pancia ha iniziato a contrarsi dolorosamente. Per di più la metro era bloccata e siamo state costrette a prendere un bus suppletivo pieno di persone che, strette strette, rendevano l’ambiente ancora più caldo e asfissiante ma finalmente siamo arrivate a casa dove abbiamo aiutato sua madre a finire di cucinare gli involtini per la cena. Per passare le ultime ore prima dell’iftar (fine del digiuno) abbiamo fatto un giro al parco vicino per poi tornare e scaldare la cena. Arrivati a casa la madre, il padre e il fratello della mia amica, abbiamo cenato; c’erano gli involtini, dei tacos, un po’ di insalata, ma soprattutto un delizioso tajine, piatto tipico marocchino di carne e spezie. Il tempo della cena è trascorso in fretta, a mia sorpresa non ero così affamata e sono rimasta incantata ad ascoltare i loro discorsi in marocchino, lingua che ritengo affascinante per la sua fluidità e anche con una strabiliante similarità, in certe cadenze e parole, con il dialetto lombardo.

Mi chiedo da dove venga questa mia grande curiosità verso religioni e tradizioni diverse che ormai da molto tempo convivono con il mondo occidentale. Io non ho ricevuto un’educazione cattolica, a differenza dei miei genitori, e i miei nonni sono religiosi. Ho chiesto loro informazioni su riti e tradizioni del cattolicesimo e so che ci sono tratti simili nelle grandi religioni monoteiste (per esempio durante la Quaresima). Ma credo che il mio desiderio di capire e conoscere sia spinto da un moto interiore di non limitarmi alla superficialità di leggere e studiare ciò che è diverso da me, al contrario, di viverlo in prima persona per renderlo davvero mio e vedere fatti e persone il più possibili rispondenti al vero e non attraverso le inevitabili lenti dei preconcetti. Quindi questo desiderio attiene più alla sfera esistenziale, che oltrepassa quella culturale, perché mi coinvolge in prima persona e chiama in causa le mie relazioni più strette. Riflettendo su questo punto, credo di essere arrivata al nocciolo della questione: sono convinta che la differenza sia innanzitutto ricchezza e non distanza. Voglio dire che vivere dall’interno un’esperienza che culturalmente non ci appartiene, mettersi nei panni di un’altra persona, è il primo passo verso una conoscenza autentica che può abbattere barriere che sembrano invalicabili e che può rendere le relazioni tra persone culturalmente diverse non solo limitate alla tolleranza una verso l’altra ma a una consapevolezza più profonda e completa l’una della cultura dell’altra. È così che un’esperienza che pare confinata nella sfera personale può assumere una valenza politica, nel senso più vero di questa parola: stare insieme, in una comunità solidale e variegata.

Da ied.it – IED News – «Sono per una progettualità senza confini, qualcosa che nel mondo di oggi corrisponda ai nostri bisogni ma anche ai sogni».

È con alcune sue parole che IED saluta Rossella Bertolazzi, appena scomparsa a Milano: donna dallo spirito indomabile e generoso, dotata di uno sguardo sagace, schietto e genuino sulla contemporaneità, sempre aperto al confronto con studenti, docenti, creativi, intellettuali. Femminista impegnata, professionista dalla cultura e dalla curiosità sconfinate nel campo delle arti visive, del design, delle contaminazioni virtuose fra i mondi del progetto.

Rossella Bertolazzi è stata questo, e molto altro.

Dal 2001 a capo della Scuola di Arti Visive IED Milano, ha trasferito in IED tutta la sua esperienza professionale e le competenze acquisite nei molti progetti che l’hanno coinvolta e in cui la relazione con studenti e docenti ha sempre occupato un posto centrale. In lei non è mai mancata un’entusiasta curiosità per tutto ciò che è nuovo e diverso, e che ha fatto nascere in IED percorsi formativi inediti, come quello di Sound Design.

Nel 2020 ha ricevuto il Premio Compasso d’Oro ADI alla Carriera in occasione della XXVI edizionedel riconoscimento mondiale nel design. «Le personalità e le imprese cui è stato conferito il Compasso d’Oro ADI alla Carriera hanno tutti ideato e creato opere che hanno fatto storia. Quando ho saputo del Premio mi sono chiesta: io cosa ho fatto? Nulla di tutto questo – così aveva dichiarato in occasione del conferimento del Premio. – Sono sempre stata un’outsider, da ragazzina ad esempio impazzivo per i film western; avrei voluto scrivere di cinema, invece ho scritto di società e ambiente. La possibilità di lanciare lo sguardo un po’ più lontano mi ha portata a fare molte cose nella vita, tutte apparentemente diverse, ma tutte con qualcosa in comune: la progettualità».

Ripercorrendo la sua carriera emergono le diverse redazioni e i contesti artistico-culturali in cui Rossella Bertolazzi ha operato: caporedattrice per Sapere, SE Scienza Esperienza, IKON, Ottagonoe per la testata dicultura materiale La Gola; direttrice per Cronache filmate del XX secolo, uno dei primissimi esperimenti di periodico multimediale e poi autrice televisiva per Mediaset, Telepiù e Rai. A fine anni Novanta è stata capo-progetto della trasmissione “La scuola in diretta” per Rai Educational, in collaborazione con il Ministero della Pubblica Istruzione e pensata per promuovere le nascenti consulte degli studenti. Ha preso parte alla giuria della Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo (Bjcem) per diverse edizioni. Ha curato mostre e collaborazioni come quella con Mini Bmw per “Personal Design: dall’oggetto al soggetto” (2003, con Studio Azzurro) e quelle per MINI Design Award su “Il Futuro della città: slow o fast? La luce” (2005), “La città su misura” (2006), “La città che comunica” (2007) e “Il futuro della Città: l’ambiente. Dare valore all’acqua” (2008), oltre alla partecipazione al Noir in Festival di Courmayeur con i lavori degli studenti IED. 

Nel 2017 ha curato, insieme a Davide Sgalippa della Scuola di Arti Visive IED Milano, la mostra La luna è una lampadina per i 50 anni dell’Istituto Europeo di Design, che ha preso forma negli spazi de La Triennale ricostruendo il contesto in cui IED è nato e si è evoluto attraverso lo sguardo e i tracciati geografici dei suoi Alumni. Un’incursione interattiva nelle aule del passato, in un percorso fatto di idee e progetti, volti e avvenimenti che hanno tracciato lo sviluppo del network IED insieme a quello della nostra società, dal 1966 ad oggi. Un percorso di memoria resa attuale nella riproposizione di un metodo progettuale nell’ambito di workshop creativi che per tre settimane hanno coinvolto attivamente studenti e pubblico. Nel 2019 infine, ha curato il volume Dialogues – Architecture Interiors Design sui 25 anni dello studio Locatelli Partners (Rizzoli International).

Oggi le sue intuizioni, i suoi insegnamenti restano in quanti l’hanno conosciuta, nelle generazioni che ha visto formarsi, crescere e affermarsi attraverso innumerevoli progetti di design.

(ied.it – IED News, 17 luglio 2024,  https://www.ied.it/news/ied-saluta-rossella-bertolazzi)

Rossella Bertolazzi non è più tra noi

di Laura Minguzzi

Rossella Bertolazzi della Libreria delle donne di Milano, tra le fondatrici del Circolo della rosa, vincitrice nel 2020 del Compasso d’oro, il primo e prestigioso premio mondiale di design, negli anni ’80 caporedattrice del mensile SE\Scienza Esperienza fondato da Giovanni Cesareo, non è più tra di noi.

Per come l’ho conosciuta io più di trenta anni fa, al Circolo della rosa, una donna di straordinaria vitalità, intelligenza, generosità e ironia. Una presenza unica e insostituibile. Una forza della natura si direbbe con parole comuni. Possedeva una versatilità molteplice che ha espresso in campi differenti, nella scrittura, nella comunicazione mediatica, nella capacità direttiva di un’importante istituzione europea ecc.. Sono indimenticabili per me le sue qualità di chef al Circolo della rosa, dove in occasioni speciali, con passione e inventiva metteva a punto originali menù con il gruppo relazionale Estia. Una figura che comunicava forza e desiderio di stare insieme, fare insieme. Sapeva coniugare il femminismo con la progettualità e l’amore per le relazioni, valorizzando quelle e quelli con cui lavorava alla Scuola di Arti Visive IED di Milano che ha diretto dal 2001. Non amava le luci della ribalta ma la sostanza delle cose e con il suo approccio diretto e sincero, scevro da formalismi, metteva a proprio agio e trasmetteva il piacere della compagnia. «Una donna burbera e dolcissima, con uno spirito da combattente, che le ha consentito di puntare sempre all’innovazione», così è scritto nelle motivazioni per cui le hanno conferito il premio oltre ai suoi titoli e meriti professionali. Cara Rossella, ci mancherai moltissimo, a me e a tutte le amiche e gli amici della Libreria e del Circolo della rosa.


Rossella e l’anello

di Silvia Baratella

Ho iniziato a frequentare la Libreria delle donne quindici anni fa e, dopo i primi tempi, a partecipare alle cene del sabato. In cucina c’erano le cuoche di Estia, tra cui Rossella Bertolazzi. La vedevo indaffarata insieme a Ida Faré, Stefania Giannotti e le altre quando passavo a prendere il vino, e man mano che mi sentivo più a casa, le stoviglie per apparecchiare i tavoli. Apprezzavo gli eccellenti risultati dei loro sforzi congiunti, i menù spiritosi delle cene speciali, scritti con rime, battute, giochi di parole, ma non avevamo molto tempo per conoscerci.

Una sera dopo una cena, quando quasi tutte erano andate via, Rossella e altre cuoche di Estia si sono sedute a chiacchierare. Mi sono seduta con loro e ho avuto la prima vera conversazione con lei. Rossella stava raccontando con brio la sua disavventura con un anello antico, un bellissimo gioiello di famiglia di una sua amica che lei aveva molto ammirato e che le aveva chiesto in prestito per far bella figura in un’occasione professionale importante. L’amica aveva acconsentito volentieri. Ma durante la giornata il dito si era gonfiato e l’anello non usciva più. Ricordo tutta una serie di peripezie: il sapone che non aveva funzionato, i tentativi inutili di farsi aiutare da gioiellieri, poi da medici. Aveva avvisato l’amica, che le aveva detto senza esitare di far tagliare l’anello perché il suo dito era più importante, ma lei non voleva sacrificare il cimelio di famiglia dell’amica. Alla fine, non mi ricordo più come, era riuscita a far sgonfiare il dito e a sfilare l’anello senza rovinarlo. Da quando qualche anno fa anche a me hanno iniziato a gonfiarsi le dita, controllo compulsivamente che gli anelli mi si sfilino, pensando sempre a Rossella: credo che mi abbia salvata da incidenti analoghi.

Gli anni sono passati. Ida non c’è più, la salute di Rossella è peggiorata gradualmente, colpendo anche la vista. Eppure per tanto tempo è venuta lo stesso a cucinare e mi stupisce ancora come fino a pochi anni fa ci sia riuscita lo stesso, al tatto, seduta a un angolo del tavolo di cucina con il necessario disposto intorno a sé. Poi c’è stato il Covid, il confinamento, tante cose sono cambiate, ma anche quando non cucinava più Rossella finché ha potuto è venuta in Libreria. E ora la sua compagnia ci mancherà terribilmente.


Rossella per me

di Fiorella Cagnoni

Oggi è morta a Milano Rossella Bertolazzi. Ha diretto per anni e anni la Scuola di Arti Visive dell’Istituto Europeo di Design, ha vinto il Compasso d’oro – il più antico e autorevole riconoscimento mondiale nel design. Ha anche ricevuto un Ambrogino d’oro.

Ma Rossella per me e per molte amiche milanesi, della Libreria e delle città, era la più grande cuoca del pianeta, la perfetta benché severa socia di scopone scientifico, la più sinuosa elegante e leggera ballerina malgrado la bella rotondità delle sue forme. La più attenta e affettuosa compagna di pensiero e di divertimenti, nella mai ridondante attenzione e amabilità lombarda.

Quante cene “pan e pachett” – quante nottate di poker con suo marito Giovanni Cesareo, il mio diletto Silvio, la Stefi, la Lipschitz… –

A sua figlia Magdalena Barile un abbraccio da qui a là.


Paola Mattioli, Rossella Bertolazzi 2018

Da il manifesto – Alias – A MILANO. Triennale, la mostra di Gae Aulenti, a cura di Giovanni Agosti. Il percorso si sviluppa «in pause che liberano lo spettatore alla conoscenza e alla critica» (Aulenti). Edifici negozi mostre musei, e il teatro con Luca Ronconi. E in un gioco di carte, gli «attori» della sua vita professionale e privata…

Come avrebbe immaginato Gae Aulenti una mostra dedicata al proprio percorso creativo? Possiamo dedurlo da qualche suo pensiero: «Il sistema espositivo non può essere un semplice supporto del materiale da rappresentare, ma deve partecipare ad esso, esserne coinvolto e insieme coinvolgere lo spettatore, con chiara volontà». Quanto al percorso, dovrebbe essere immaginato «in modo che l’esperienza spaziale, procedendo per amplificazioni e variazioni continue, si sviluppi con forme autonome successive, in pause che liberano lo spettatore alla conoscenza e alla critica». Si coglie immediatamente un’idea espositiva orientata al teatro; non a caso il visitatore, con un upgrade di status, diventa spettatore. Il coinvolgimento è reale se contempla però anche uno spaesamento: perdersi per ritrovarsi con un’aumentata consapevolezza. Di qui la necessità di cambi di ritmo che interrompano la linearità del percorso e stimolino uno sforzo di conoscenza e di critica.

La mostra che la Triennale di Milano ha dedicato a Gae Aulenti (fino al 12 gennaio) prende avvio da una sala che immediatamente inghiotte lo spettatore nel meccanismo della macchina espositiva: sotto un soffitto di onde di stoffa si procede circondati dalle sagome ritagliate nel legno delle donne picassiane che corrono felici verso il mare. Il prototipo è il piccolo capolavoro dipinto dal malagueño nel 1922 durante le vacanze sulle spiagge di Dinard. La sala ripropone l’allestimento, pensato insieme a Carlo Aymonino e Steno Paciello, per la sezione italiana alla Triennale milanese del 1964, che era valsa a Gae Aulenti il Gran premio internazionale assegnato dalla stessa Triennale. Nel gioco di squadra quell’idea così teatrale è come una firma: infatti quindici anni dopo Aulenti avrebbe voluto un dettaglio di quell’allestimento sulla copertina del catalogo della sua prima mostra monografica al PAC di Milano. Questo impatto trascinante fa subito i conti con il brusco cambio di passo dell’allestimento del negozio Olivetti di Buenos Aires del 1968: macchine da scrivere e oggetti di design disposti su gradoni, ricavati entro spicchi di piramide che precipitano in direzione dell’osservatore. Così siamo calati immediatamente in un territorio aulentiano, nel segno di una calcolata discontinuità.

Una mostra su Gae Aulenti non poteva essere pensata secondo i canoni di una mostra di architettura. Anche per questo la curatela è stata affidata a Giovanni Agosti, che, come lui stesso ammette nell’introduzione alla guida che accompagna i visitatori (in attesa del catalogo, la cui pubblicazione è prevista per l’autunno: l’una e l’altro per i tipi di Electa), non è né storico dell’architettura, né del design, né del teatro, «ma solo uno storico dell’arte che le ha voluto però molto bene». Hanno affiancato Agosti Nina Artioli, nipote dell’architetto e contitolare dello studio Tspoon che ha progettato l’allestimento, e Nina Bassoli, curatrice del settore Architettura della Triennale.

Il congegno drammaturgico del’esposizione prevede una sezione «tradizionale» in cui sono esposti materiali documentari (incuriosiscono i diari e alcune lettere) e disegni, tra i quali spiccano gli splendidi lucidi a china e retino con le piante e gli alzati di alcuni dei progetti più famosi di Aulenti. È un lungo corridoio perimetrale che si innesta nel tratto superstite della Galleria dei disegni, che lo stesso architetto aveva progettato per la Triennale del 1994. Dal corridoio si può gettare l’occhio sulla «macchina evocatoria», come la definisce Agosti, che in tredici spazi incastrati l’uno nell’altro, rispettando l’ordine cronologico, restituisce, con spezzoni ricostruiti in dimensioni reali, altrettante tappe fondamentali della storia di Gae Aulenti.

Per una felice combinazione il percorso aperto dalla corsa delle amazzoni picassiane si chiude con i due progetti per, rispettivamente, la stazione Museo della metropolitana di Napoli (2001) e l’«aeroportino» di Perugia (2012), che è l’ultimo lavoro: una chiusura che suona come un commiato, con il tocco struggente dato dall’apparire sui monitor degli arrivi e partenze dei disegni dell’amatissimo nipote Pietro, inseriti come lampi nell’elenco dei progetti, realizzati e non, di nonna Gae.

Tra l’incipit e l’exit della mostra, lo spettatore ha sperimentato continui spiazzamenti. Davanti a lui si è palesato uno spaccato del negozio Fiat di Zurigo (1973) con le automobili disposte spericolatamente su una parabolica, come se la strada avesse fatto irruzione nel negozio. Ha messo piede nel salotto di casa Brion a San Michele di Pagana (1973), dove il senso di morbidezza dato dalla moquette è chiamato a una resa dei conti con le complicazioni introdotte dai rialzi, dai gradini e soprattutto dal brusco presidio dei pilastri.

I pilastri sono un marchio di fabbrica, una cifra «psichica» più che stilistica che pervade, in modo trasversale, i lavori di Gae Aulenti: dominano con la loro caratura drammatica sulla scena

della celebre Elektra scaligera con la regia di Luca Ronconi (1994); stipano lo spazio aggraziato dell’aeroportino di Perugia; si fanno foresta urbana nel rifacimento di Piazza Cadorna a Milano (2000); diventano elementi attorno ai quali far ruotare lo spazio labirintico immaginato per la mostra dedicata a Christo alla Rotonda della Besana a Milano (1973). Il pilastro è una sorta di costante drammatica che vigila sulla scena architettonica mettendosi di traverso rispetto a ogni rischio di percezione accomodante. È il segno, volutamente invasivo, del pensiero e dell’energia critica che abita ogni progetto della Gae.

Per lei, scriveva Alberto Arbasino, c’è un’equivalenza di piani tra «riflessioni critiche, idee, muri e mattoni», tutti allo stesso modo «strumenti culturali e concreti». Un concetto chiarito nel meraviglioso incipit dello scritto dedicatole in Ritratti italiani (Adelphi): «Gae Aulenti dice, con calma: mai Decoration; soltanto Design. Spiega meglio, criticamente: Struttura non superficie. Cioè Forma, non epidermide, né rivestimento».

Questa visione emerge liberata in tutta la sua drasticità nei due allestimenti teatrali riproposti nella «macchina evocatoria» della mostra milanese: l’Elektra, dove la reggia di Micene era trasformata in un mattatoio insanguinato, e le Baccanti (1977), sempre per la regia di Ronconi, al Laboratorio di Progettazione di Prato. In mostra ci si addentra nello spazio claustrofobico dove davanti a due letti d’ospedale gli spettatori (solo 24) assistevano alla recita di una parte del secondo stasimo della tragedia. La traduzione era di Edoardo Sanguineti, che dopo lo spettacolo ammise di aver capito «per la prima volta cos’è una tragedia greca».

Quello con Ronconi è un rapporto chiave per Gae Aulenti. Si erano conosciuti nei camerini della Scala nel 1974, dopo la prima contestatissima dellaWalkiria con le scene di Pier Luigi Pizzi. Lei si era fatta avanti per esternare tutta la propria ammirazione, e da lì era scattata la voglia di iniziare a collaborare. Ronconi, semplicemente «Luca», non poteva mancare nel mazzo delle 88 carte (disegnate da Giovanna Buzzi) dei personaggi, pubblici e privati, che hanno popolato i mondi di Gae Aulenti. Un «Gioco», in vendita a 20 euro, che è parte integrante del congegno della mostra. Come scrive Agosti «gli spazi sono degli stati in luogo, quasi la realizzazione delle didascalie di un dramma, dove gli attori sono quelli figurati dalle carte da gioco».

Ma sulla scena di Gae Aulenti si poteva entrare anche per vie privilegiate aperte in forza di tenerezza, come testimonia la foto indimenticabile di lei che tiene per mano la nipotina Nina nel tumulto del cantiere del Musée d’Orsay.

Da L’Urlo, anno XI, Speciale arte, maggio 2024 – Immaginatevi una ragazza milanese degli anni ’30 del secolo scorso, con occhi che brillano di curiosità e un cuore pieno di passioni travolgenti. Questa è Antonia Pozzi, una delle voci più intense e sensibili della poesia italiana del Novecento. Nata nel 1912 in una famiglia borghese, Antonia Pozzi si distingue presto per il suo talento letterario e il suo spirito ribelle. Le sue poesie esplorano i punti più reconditi dell’animo umano e riflettono la bellezza e il dolore della sua esistenza. Leggendola, abbiamo l’occasione di fare un viaggio colmo di emozione, essendo i suoi versi finestre aperte sui pensieri più intimi. Antonia Pozzi trovava ispirazione nelle montagne di Pasturo, un piccolo paese in Valsassina dove trascorreva le vacanze, e dove cercava rifugio dal tumulto della vita cittadina.

Dopo aver studiato nel nostro Liceo classico, si laurea in Lettere all’Università degli Studi di Milano. Nonostante il suo brillante percorso accademico, è sempre stata in conflitto con le aspettative della sua famiglia e della società dell’epoca. Tragicamente, la sua vita è stata breve: Antonia Pozzi si dà la morte nel 1938, a soli ventisei anni.

Ho avuto modo di conoscere Graziella Bernabò alla Libreria delle donne di Milano, una studiosa che ha svolto un ruolo importante nella divulgazione della vita e dell’opera di Antonia Pozzi e l’anno scorso è stata anche nel nostro liceo per una conferenza sulla poetessa. Ha accettato di rispondere ad alcune mie domande.

Come è nata la tua passione per Antonia Pozzi e cosa ti ha spinto a scrivere una biografia su di lei?

Verso la fine degli anni Settanta, alla Libreria delle donne di Milano, acquistai un libro di poesie curato da Biancamaria Frabotta (Donne in poesia. Antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra a oggi, con una nota critica di Dacia Maraini, Savelli, 1976). Benché riguardasse un’epoca successiva a quella di Antonia Pozzi (che aveva scritto i suoi versi tra il 1929 e il 1938), la raccolta iniziava proprio con alcune sue liriche, considerate come l’ideale introduzione alla scrittura di autrici più recenti. Rimasi estremamente colpita dall’originalità e dal vigore con cui la giovane poetessa – grazie a un linguaggio raffinato ma anche sensoriale, corporeo e comunicativo, quindi lontano dalle rarefazioni e dalle oscurità in auge nella lirica italiana degli anni Trenta – riusciva a esprimere la difficoltà da parte di una donna di trovare un proprio posto nel mondo. Successivamente lessi, in varie edizioni man mano accresciute, la sua raccolta di poesie, le lettere, i diari e i saggi critici; ed ebbi anche la possibilità di visitare una bella mostra dei suoi scatti fotografici. Potei apprezzare in questo modo la sua ardente personalità di donna e la sua poliedrica creatività; e mi venne allora il desiderio di restituirle in qualche modo, con un lavoro adeguato, quella voce che le era stata negata in vita, non solo dalla famiglia – ligia a convenzioni aristocratico-borghesi – ma anche dall’ambiente culturale in cui era inserita all’Università Statale: il gruppo del filosofo Antonio Banfi, innovativo per l’epoca ma ancora chiuso all’alterità femminile.

Quali poesie ti hanno colpito maggiormente in occasione del tuo primo accostamento ad Antonia Pozzi?

Inizialmente sono stata impressionata soprattutto da “La porta che si chiude” e da “Rossori”: due liriche in cui la poetessa esprime con inedito vigore l’angoscia di non ritrovarsi più nel proprio corpo, quindi il senso di «depersonalizzazione» che le derivava dall’impossibilità di vivere conformemente ai propri desideri più profondi. Su questo pesarono sia l’opposizione del padre al suo rapporto d’amore con il grande classicista Antonio Maria Cervi, sia varie incomprensioni con lo stesso uomo amato, che, pur volendole bene, era imbarazzato dalla sua indole appassionata e poco convenzionale, essendo su vari piani tradizionalista e di fatto inscritto in un sistema patriarcale. Le poesie che ho citato sono oltretutto storicamente interessanti rispetto alla situazione della donna in età fascista.

Com’era l’indole di Antonia Pozzi? Puoi raccontare qualche aneddoto a questo proposito?

In realtà Antonia, di per sé, non era assolutamente chiusa e cupa: al contrario era libera, ardente, innamorata della vita per tutto ciò che essa poteva offrirle: dal contatto profondo con la natura, soprattutto con la montagna attraverso l’alpinismo, agli studi, ai viaggi, al rapporto con gli altri, comprese le persone più umili. Antonia sapeva trarre piacere anche dalle piccole cose. Alcuni passi di diario della prima adolescenza, poi diventati temi scolastici, ci mostrano, per esempio, quanto riuscisse a divertirsi con gli amici al Palazzo del Ghiaccio di Milano. La sua amica Elvira Gandini, principale testimone della mia biografia, oltre a moltissime vicende importanti di Antonia, mi riferì un semplice, ma indicativo, episodio. Una volta si trovavano insieme a sferruzzare, come spesso le ragazze facevano in quell’epoca, e Antonia stava completando una sciarpa di un vivace colore arancione; a un certo punto se la accostò al viso, dicendo, con un sorriso radioso (il suo sorriso era molto bello, a detta di vari testimoni): «Mi dona?». Nel suo studio di Pasturo ho potuto vedere fiori essiccati e tanti piccoli oggetti, a volte proprio minuscoli, che Antonia conservava perché erano legati a lieti momenti di vita e ai viaggi che spesso faceva in Italia e all’estero. Fu il mondo esterno, inteso come famiglia, uomini amati e compagni di università, a inibire più volte, nel corso della sua breve esistenza, questa capacità di gioia che le era connaturata.

Quali sono state le maggiori sfide nella ricerca e nella scrittura della biografia di Antonia Pozzi? Hai scoperto qualcosa di inaspettato durante il tuo lavoro?

Sono partita da un’idea tradizionale di biografia ma poi, grazie a un lungo lavoro con alcune storiche della Libreria delle donne, ho capito che le categorie interpretative utilizzate per le vite degli uomini non erano assolutamente adatte a raccontare la vita di una donna in genere, tantomeno di una poetessa che, come Antonia Pozzi, si poneva al di fuori degli schemi della sua epoca, dato che, a dispetto dei molti condizionamenti subiti, era interiormente libera e in anticipo sui tempi, perciò tanto poco capita nel suo tempo quanto meravigliosamente capace di parlare al nostro presente. Per cogliere il senso della sua vita ho evitato stereotipi, luoghi comuni e discorsi generici, basandomi invece sulle molte testimonianze orali che ho potuto reperire, sulla ricostruzione delle sue reti di relazioni (affettive e intellettuali) attraverso le lettere, i diari e altri materiali dell’archivio Antonia Pozzi di Pasturo. Ma soprattutto mi sono concentrata sulla vivida e originale simbologia delle sue liriche, cercando di rintracciarvi il suo più autentico sentire, i suoi desideri più profondi: penso, per esempio, allo schietto eros di donna espresso dai molti e carnali fiori che compaiono nei suoi versi, oppure alla forza femminile delle sue montagne, insieme concrete e mitiche, sorta di ancestrali madri capaci di riscattare dall’inautenticità del vivere sociale. Ho scoperto così, anche al di là delle mie previsioni iniziali, un meraviglioso immaginario poetico che, nell’esprimere in modo pregnante l’anima e il corpo di una donna, non trovava niente di analogo nella lirica contemporanea ad Antonia Pozzi, mentre precorreva per certi aspetti la poesia di altre grandi autrici del secondo Novecento: da Sylvia Plath ad Anne Sexton, a Ingeborg Bachmann, ad Alda Merini, per fare solo pochi nomi.

Antonia Pozzi ha iniziato a scrivere poesia da giovanissima. Che consiglio daresti ai giovani poeti e poetesse che vogliono seguire le sue orme?

Ai giovani, ragazzi e ragazze, che avvertono in sé una vocazione poetica, consiglierei di leggere molti poeti di epoche e paesi diversi; e di partire certamente da sé, dalla propria soggettività, avendo però sempre chiaro che la vera poesia non può essere immediata ed effusiva, in quanto richiede un notevole senso critico e un duro lavoro di elaborazione formale. Questo Antonia Pozzi lo aveva ben chiaro, come affermò Eugenio Montale, suo scopritore, e come appare dalle tante varianti presenti nei suoi autografi, che attestano un accurato lavoro di lima, evidente anche nelle sue liriche dell’adolescenza.

Qual è, secondo te, l’eredità più importante che Antonia Pozzi ha lasciato alle generazioni future?

Antonia Pozzi ha lasciato al mondo l’eredità di una poesia che potremmo definire della “relazione” con la totalità dell’esistente, quindi con le persone, gli animali, i luoghi e le cose (le «cose sorelle», come le chiamava lei). Una poesia che partiva dalle sue esperienze personali, ma che, nel suo grande respiro, sapeva restituire il senso vivo della natura, le profondità del cuore umano, la bellezza e il dolore del mondo, comprese le tragedie della storia: la guerra e la miseria dei ceti più svantaggiati.

Come è stato il tuo percorso professionale e personale da biografa? Ci sono momenti particolarmente significativi che vorresti condividere con noi?

Ho sempre amato le biografie: ne ho lette molte e ne ho scritte due: La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci, Roma 2016 e Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, Viennepierre, Milano 2004; nell’ultima versione Àncora, Milano 2022. Dietro il mio modo di intendere questo genere di scrittura c’è il rapporto, iniziato negli anni Ottanta, con un gruppo di storiche della Libreria delle donne, insieme alle quali ho sviluppato l’idea di una biografia non romanzata, perché basata su una lunga ricerca delle fonti scritte e orali, ma assolutamente non fredda. Penso infatti che, se si vuole scrivere un libro su una persona che ci interessa profondamente, ci deve essere la disponibilità a porsi nei suoi confronti con un’assoluta empatia e a immergersi nel suo mondo. Questo comporta il fatto di ricostruirne con pazienza e impegno non solo le vicende e i contesti, ma anche i luoghi prediletti, le abitudini, le letture, gli interessi culturali, gli svaghi e qualunque ulteriore elemento, non importa se minimo, utile a delinearne la fisionomia, perché a volte anche particolari apparentemente insignificanti, se interrogati con attenzione e disponibilità, possono contribuire alla comprensione più articolata e profonda di una vita. Questo mio modo di lavorare ha comportato per me innumerevoli scoperte, tanto su Antonia Pozzi quanto su Elsa Morante; ed è sfociato in due volumi che mi hanno dato molta soddisfazione, perché hanno contribuito a promuovere la conoscenza di queste due grandi autrici, oltre che tra gli addetti ai lavori, presso un ampio pubblico, come ho potuto constatare in occasione delle numerose presentazioni che mi è capitato di farne nel tempo.

Antonia Pozzi mi ha insegnato che la poesia può essere un rifugio, un modo per comprendere e affrontare le complessità della vita. Dalle parole di Graziella Bernabò abbiamo capito bene la ricchezza e il tormento del suo animo poetico. Ma se volete davvero vivere la sua poesia, immergetevi nelle sue parole, leggetele, sussurratele. Scoprirete una giovane donna che, nonostante le difficoltà, ha saputo trasformare il suo dolore in bellezza eterna.

Da la Repubblica – Per il New York Times il primo volume della tetralogia della scrittrice che non ha mai rivelato la sua identità, è il libro del secolo. Superando Franzen e Bolaño, tra quelli usciti dal 2000. Il commento dello scrittore che ha collaborato alla sceneggiatura della serie.

Le classifiche sono un gioco, ma i giochi vanno presi sul serio. E questa specie di sentenza del New York Times serve a ragionare su un po’ di cose: in questa classifica, nei primi dieci posti c’è Franzen con le sue “Correzioni”; Whitehead con il grande romanzo americano; ci sono scrittori di romanzi storici e distopici. C’è un immaginario perfettamente americano. E poi c’è il romanzo fatto di tanti romanzi di Bolaño; e al primo posto un romanzo lunghissimo pubblicato nel tempo in quattro volumi, che racconta la vita intera di due amiche cresciute insieme in un rione poverissimo di Napoli e che poi si dividono e si riuniscono per l’intera esistenza, attraversando la storia del Paese, la politica e la letteratura, la camorra e gli amori fallimentari, la povertà e la ricchezza, l’invisibilità e il successo. Cioè, l’immaginario di una scrittrice napoletana che forse su per giù racconta la sua vita nella sua città, supera (certo, è un gioco, ma questo dice il gioco) l’immaginario americano per gli americani.

I giochi vanno presi sul serio, così come sul serio è stata presa la quadrilogia di Elena Ferrante negli Stati Uniti (e non solo lì, ovviamente). E davvero non bisogna per forza svelare il mistero del rione dove passa il treno, diviso dal resto della città da un tunnel che sarà il momento epico e decisivo dell’amicizia di Lenù e Lila, quando lo attraverseranno per la prima volta per andare a vedere il mare, e sveleranno a loro stesse ancora inconsapevoli, e ai lettori ancora inconsapevoli, il destino che le attende: Lila ostinata e feroce avrà paura del diluvio e vorrà tornare indietro, nel rione – dove infatti resterà tutta la vita; Lenù, timida e impaurita, che scopre dentro sé stessa che indietro non vuole tornare – e infatti andrà via per il mondo. Ma senza la spinta della sua amica non avrebbe mai scoperto di essere quella che sarà. Non bisogna per forza svelare il mistero del perché quel tunnel, quel mare lontano, quell’amicizia, l’ostinazione di due bambine a non essere ignoranti e succubi come le loro madri, colpisce in pieno l’immaginario dei lettori di tutto il mondo: sono loro che trasformano quel tunnel nel loro tunnel del loro rione della loro cittadina; della loro magra o grassa esistenza.

Non bisogna per forza svelare il mistero dei romanzi popolari. Ma dobbiamo sapere che noi italiani di grandi romanzi popolari ne abbiamo fatti pochi, pochissimi, e la scrittrice a cui la Ferrante si è esplicitamente ispirata, Elsa Morante, quando ne ha fatto uno, “La storia”, è stata insultata da amici e nemici, da destra e sinistra. Ma ha avuto dalla sua parte, pronti a combattere al suo fianco, i suoi lettori, migliaia e migliaia. Esattamente come li ha avuti, e li ha adesso Elena Ferrante. È questa la forza dei romanzi popolari, riuscire a cogliere dentro il melodramma di una vita intera, di un mondo che non sparisce mai ma ritorna a ogni età, la forza ancestrale dell’esistenza degli esseri umani. E di conseguenza conquistarli, tenerli accanto, sentirli dalla propria parte.

È questa la risposta alla decisione dei circa cinquecento critici che hanno proposto L’amica geniale come miglior libro degli anni Duemila, ed è una risposta generica e semplice, ma specifica e profonda allo stesso tempo: provate a cercare un tema, un conflitto, un genere narrativo, un mito letterario, un archetipo o qualcosa che vi riguardi direttamente, che sia successo nella vostra vita: e nell’Amica geniale c’è. Chiunque lo legga sente che lo riguarda, è questo il miracolo.

Nell’averci a che fare per lavoro, avendolo dovuto scavare e rivoltare e cercare di comprendere in tutti i modi, quello che ho capito è che questo romanzo è ciò che si può definire opera-mondo. E c’è di più. Non so se è un azzardo, anche perché la Ferrante è invisibile e parla poco, ma questo ritmo avvolgente che ti trascina per molte centinaia di pagine, sembra avere una consapevolezza di fondo, ma anche una inconsapevolezza di fondo: è come se chi lo ha scritto fosse andato avanti, con la certezza che i personaggi, veri o inventati che fossero, potessero vivere, cadere, incontrarsi più volte, perdersi, sparire, tornare, vendicarsi, soccombere – fare tutto questo un po’ da soli, mentre la storia si scriveva, andando avanti. Ora, ogni scrittore sa che questo è impossibile, che il controllo è il punto di partenza di ogni libro. Ma ogni scrittore sa anche che un libro speciale, può diventare tale solo se a un certo punto sovrasta chi lo scrive, lo tira da una parte, decide il cammino, fa la rivoluzione. E questo può succedere soltanto se l’impianto iniziale è così perfetto che libera i personaggi e li fa vivere da soli.

Ecco, nessuno dei romanzi che compare in questa classifica, è così “popolare” e libera così tanto i personaggi, togliendo loro le briglie. Anzi, alcuni di questi sono amati per quanto lo scrittore li sopravanzi. Molti dei romanzi di questa classifica sono di scrittori in atto di pensare; Elena Ferrante non sembra mai in atto di pensare.

E così, in cima agli altri, c’è questa storia lontanissima, nel tempo e nello spazio, dal New York Times. Ma lì lontano, in quelle famiglie povere con tutti a dormire negli stessi letti, con l’idea che la scuola sia costosa e inutile, appare Dickens, appaiono i pionieri americani e i primi emigrati, c’è l’inizio di tutto, e c’è l’inizio della ribellione di due ragazzine a un mondo che le aveva già destinate a non essere altro che quello che già c’era.

E quindi le aveva destinate a non entrare in un libro, a non diventare mai letteratura.

Da il manifesto – Hebron Road è la strada che da sempre ha dato la possibilità di raggiungere Al Khalil (Hebron) da Gerusalemme. Se una volta questa via era continua, oggi è interrotta dall’enorme muro che Israele ha costruito dopo la seconda intifada nel 2002. Palazzi abbandonati a fianco di grattacieli nuovi danno vita a un contrasto che assume tratti surreali quando si inizia a scorgere l’immensa struttura di cemento che blocca l’orizzonte.

«Questa strada è un microcosmo, rappresenta la situazione generale in tutte le sue contraddizioni» dice Emily Jacir, direttrice del centro culturale e residenza artistica Dar Jacir. Il centro sorge proprio su questo grande viale a Betlemme. Una struttura costruita nel 1880 da un avo di Emily, che oggi ospita artisti da tutto il mondo e, soprattutto, da tutta la Palestina storica, rendendolo luogo di eredità radicate nella terra. «I palestinesi non hanno accesso ai musei di Gerusalemme dove è conservata la nostra storia», dice Emily, che aggiunge «la nostra comunità è frammentata e disseminata in tutto il mondo, la nostra narrazione è interrotta».

Dar Jacir è un luogo di salvaguardia del patrimonio culturale palestinese: «Quando le persone vedono le vecchie fotografie di questa strada, riconoscono il nostro passato. Noi veniamo da qua». «I nostri vicini sono i campi profughi di Aida e di Azza, qui lavoriamo molto con i bambini, offriamo corsi di musica, agricoltura, arte e danza – prosegue Emily – questo è uno spazio interdisciplinare e transgenerazionale dove le persone si riuniscono per vivere insieme, farsi domande e creare progetti».

Ad Al-Khalil, al capo opposto di questa lunga strada, è stato concepito il progetto Artist + Allies x Hebron (AAH), fondato dal fotografo sudafricano Adam Broomber e dall’attivista palestinese Issa Amro. Il collettivo artistico si propone di preservare l’arte e la natura agricola della Cisgiordania meridionale e di sostenere gli artisti palestinesi e internazionali impegnati nella resistenza culturale contro l’occupazione.

Dalla collaborazione tra Dar Jacir e AAH è nata l’esposizione South West Bank: Landworks, Collective Action and Sound a Palazzo Contarini Polignac, come evento collaterale alla 60a Biennale di Venezia. I territori palestinesi non hanno mai avuto uno spazio all’interno dei Giardini, pur essendo sempre rappresentati da un notevole numero di artisti. Quest’anno le proteste contro il genocidio a Gaza hanno portato alla chiusura del padiglione israeliano.

«Penso che sia molto importante che in un momento come questo la Palestina sia presente alla Biennale» sostiene Broomberg. La mostra South West Bank comprende sia le opere di artiste palestinesi, come Dima Srouji e Shaima Hamad, che quelle di internazionali. Tra queste il progetto fotografico “Anchor in the Landscape” di Adam Broomberg e Rafael González, che riflette sul ruolo totemico dell’ulivo nell’identità palestinese.

L’albero era già stato protagonista di un’altra opera firmata AAH, “H2 – Counter Surveillance”. Per sensibilizzare sull’uso pervasivo della video sorveglianza da parte dello Stato israeliano, gli artisti hanno inserito alcune telecamere di sorveglianza tra le fronde degli alberi, registrando giorno e notte le colonie israeliane. I filmati sono stati proiettati in tempo reale in musei di tutto il mondo, capovolgendo la prospettiva di ipervigilanza militare di Israele.

Adam Broomberg, di famiglia ebraica di origini lituane, è nato e cresciuto nel Sudafrica dell’apartheid, in cui riconosce somiglianze e differenze con l’occupazione nei territori palestinesi. Tra gli obiettivi del collettivo AAH c’è anche quello di portare la comunità internazionale in Cisgiordania, «perché si può parlare e parlare, ma una volta lì, ci vogliono cinque minuti per capire cosa significano discriminazione e apartheid», spiega Broomberg. Il fotografo è stato definito antisemita e ha perso la sua posizione di professore all’università di Amburgo per le sue dichiarazioni a sostegno della Palestina. «Il lavoro culturale come questo funziona, perché altrimenti non vorrebbero fermarci», sostiene Broomberg: «Penso che l’arte sia un modo sottile di rendere le persone consapevoli di ciò che sta accadendo».

A due passi dall’enorme struttura divisoria di cemento armato, Dar Jacir sembra un’oasi in mezzo al caos. Ulivi, diversi tipi di piante e grandi alberi che «nascondono il muro ai nostri occhi per qualche istante», dice Bisho, un giovane artista di Betlemme in residenza. Il ragazzo palestinese, che si occupa di riciclo di tessuti e tinture naturali, racconta di aver trovato un luogo di pace ma anche di incontro, dove gli artisti palestinesi scambiano idee e visioni con quelli internazionali. Bisho crede «nella condivisione delle esperienze. Per noi è difficile spostarsi e quindi siamo molto aperti a scambi con gli stranieri, è una possibilità di viaggiare senza muoversi».

Chissà se era una provocazione quella dello scrittore Walter Siti quando ha dichiarato a Rivista Studio, in questi giorni, in riferimento al Premio Strega, che «[…] vincerà una donna, e sarà così per ancora due o tre anni, e poi finito un ciclo si tornerà a un regime normale». Certo è che ha sentito la necessità di aggiustare il tiro dopo che si è alzato il vento della polemica. «Viviamo in una società che accetta ancora la disparità di genere e mi è evidente la necessità di riportare l’attenzione sui libri scritti da scrittrici» ha aggiunto. «Il mio augurio è che nella società del futuro si possa tornare a concentrarci sull’opera letteraria indipendentemente dal genere, dall’orientamento sessuale o dall’etnia di chi l’ha scritta». L’idea che lo spazio (conquistato) delle donne sia una tendenza, una moda del momento, mi appare un’affermazione pericolosa che però riesce a farmi sorridere: una forma di esorcismo maschile verso la rivoluzione femminista, oramai inesorabile persino ai loro occhi, al punto che c’è bisogno di minimizzare, o fare dell’ironia. La seconda idea invece, che per superare la disparità di genere sia necessario il ritorno al neutro, mi fa sorridere e basta. Poi a smorzare il sorriso subentra una rabbia pacata. Una rabbia che immagino condivisa dalle donne che come me sanno bene che nel mondo contemporaneo e anche in quello del futuro l’opera letteraria delle donne, come ogni altra opera intellettuale o pratica, non è neutra affatto, come non è neutro il trattamento che ai lavori delle donne è stato riservato ed è ancora riservato in molti campi della cultura. E se gli effetti dell’atteggiamento discriminatorio nei confronti dell’opera creativa delle donne sono stati ampiamente denunciati, smontati, superati grazie all’impegno e all’ingegno del lavoro condiviso di donne di tutte le generazioni, e della cooperazione anche con gli uomini, rimane in buona parte ignorato nel dibattito odierno il peso del neutro (o per meglio dire del neutro-maschile) e dell’universale nelle generazione di opere creative, lo schiacciamento esercitato da questo costrutto moderno, figlio prediletto dell’Illuminismo, sulla soggettività femminile. Solo la creazione di un nuovo ordine simbolico, a partire da sé, ha permesso alle donne di pensare al di fuori dall’ordine patriarcale prestabilito, e di dare vita così a un linguaggio proprio, nuovo, vivo, vissuto, ardente, politico, sessuato. Prendendo in prestito un’espressione di Adriana Cavarero, «eliminando la parola donne si elimina il soggetto che ha davvero compiuto la rivoluzione»1. Anche parlare della vittoria delle donne come di un trend passeggero cancella la storia del femminismo, oltre che rinforzare la posizione neoliberista che il femminismo possa diventare l’ennesimo brand, operazione che sta sfociando in ideologia da più parti, consegnandoci sui media di ogni genere una versione semplificata, altamente digeribile oltre che politicizzata (per non dire strumentalizzata) del “femminismo” contemporaneo. Ma il punto non è solo la storia e la portata del femminismo, a cui dobbiamo riconoscere ed essere grate per il cambiamento sociale a cui assistiamo: è l’esistenza di una società femminile, a cui tutte le donne e tutti gli uomini partecipano attivamente. Nelle parole di Luisa Muraro, «prima della scelta femminista, c’è la risposta del fare società femminile, che resta sempre cosa buona, con o senza femminismo»2. Se a vincere lo Strega è una donna anche quest’anno (Donatella Di Pietrantonio con L’età fragile) lo dobbiamo anche, e soprattutto, all’esistenza di questa società, ed è questa la più grande rivoluzione. Se teniamo presente infatti che «la nostra civiltà si è sviluppata facendo mediazioni al neutro-maschile, come se le donne non esistessero per se stesse», come afferma sempre Muraro, è evidente che il futuro non sarà affatto riaffacciarci sul panorama uggioso del neutro, ma continuare a salpare verso rotte nuove e inesplorate, alla ricerca di parole che provengono da dentro di noi, che sono corpo e che in quanto corpo tracciano un cammino, lo segnano, lo animano. Sono parole che noi donne andiamo in giro scovando e che germogliano dall’interno quando incontriamo l’Altra e l’Altro, nella scintilla del dialogo, dello scontro, dello scambio, del corpo a corpo. Fare società femminile, e poi femminista, è anche questo, generare nella mediazione, saper confliggere, e imparare da questo processo. Inanellando parola dopo parola, corpo dopo corpo, ne sta giovando oggi anche il panorama letterario, che non sempre coincide però con quello intellettuale, e su questo dovremmo ancora lavorare facendo uno sforzo in più nel creare confronti e spazi di conversazione. Vedo nella possibilità di un confronto con autori come Siti, tuttavia, nella sopita città di Milano, un’opportunità di moltiplicazione del senso libero del partire da sé nell’incontro con l’alterità della soggettività altrui. Perché il contrasto, non inteso come ostacolo ma come componimento, è un qualcosa da tenere vivo, tantopiù in un mondo in cui espressioni come “disparità di genere”, grazie alla libertà femminile, si sono svuotate di senso. La logica della spartizione dei poteri edificata dalla cultura maschile deve essere finalmente superata con prospettive nuove, tra cui la possibilità proprio di rapporti diversificati e forti, «rapporti dove le diversità entrino in gioco come una ricchezza e non più una minaccia»3[3]. A questo proposito, come ha scritto la Libreria delle donne di Milano già negli anni Ottanta, la “disparità”, se vista dalla prospettiva relazionale tra donne, diventa un’attribuzione di valore e una vera e propria pratica femminista. Tolto il bisogno di sentirsi alla pari non solo con l’uomo ma con le altre donne, entra in gioco quel “di più” che ognuna di noi ha con sé, ed ecco che il nostro essere diverse ci appare come una risorsa e una leva nei nostri rapporti a fare di più, meglio e insieme. Ed è così che una parola logora assume un nuovo, scintillante significato.


  1. A. Cavarero, Mai dire donna, intervista di P. Tavella, in Il Foglio, 16 agosto 2023, https://www.ilfoglio.it/societa/2023/08/16/news/mai-dire-donna-la-filosofa-femminista-adriana-cavarero-contro-la-neolingua-che-parla-di-persone-con-utero–5590326/ ↩︎
  2. L. Muraro, Imparare a parlare bene delle donne, in Via Dogana 3, maggio 2018, https://puntodivista.libreriadelledonne.it/imparare-a-parlare-bene-delle-donne/ ↩︎
  3. Sottosopra. Più donne che uomini, Libreria delle donne, gennaio 1983. ↩︎

Da il manifesto – Troppo facile vantarsi a urne chiuse e risultati festeggiati, ma ho sempre dubitato dell’attesa grande vittoria della signora Le Pen. Arrivata prima alle elezioni europee, certo. Ma altrettanto certamente non gradita alla maggioranza degli elettori, quel circa 69 per cento che non l’aveva votata. E tanti altri tra i non votanti, che poi sono in parte corsi alle urne proprio per manifestare questa scelta: non possiamo consegnare il paese alla destra estrema.

Inoltre, detesto Macron e il suo modo di fare politica, ma quando ha deciso di andare subito al voto non nego di aver apprezzato il suo coraggio tattico, e forse più che tattico. Un primo risultato paradossale è stato spingere la sinistra a unirsi e a diventare motore della reazione al rischio di destra.

Qui in Italia, alla vigilia del secondo turno, c’è stato un proliferare di voci preoccupate sul rischio che si rimanesse abbagliati da questa sinistra francese, larga, plurale, e sbilanciata verso il partito dell’esecrabile Mélenchon. Il quale però, tra uno slogan a effetto e l’altro, ha detto subito che bisognava fare le desistenze a favore degli odiati macroniani contro i candidati del Rassemblement National.

Un estremismo stranamente realistico? Mi è già capitato di ricordare che anche il Marx del “manifesto” scriveva che i comunisti, laddove siano in gioco alleanze determinanti per gli interessi di classe, scelgono “i democratici”.

I problemi oggi sono diversi da quelli aperti nel 1848. Ma non proprio del tutto. L’aspetto farsesco della situazione mi sembra questo: Tony Blair si è precipitato a dare una serie di “consigli”, con uno scarso senso dell’opportunità, al neo primo ministro laburista Starmer, che forse si è sbilanciato in affermazioni troppo di sinistra, come chiedere un cessate il fuoco a Gaza e il riconoscimento di uno Stato ai palestinesi, il rifiuto di proseguire la politica di deportazione di immigrati in Africa. Blair insiste invece sulla priorità di reprimere l’immigrazione irregolare per non rischiare il successo del populismo di Farage.

Riecco la ricetta oltre che assurda mi sembra già usurata: la sinistra può vincere contro la destra attuando direttamente, e più rigorosamente, le sue stesse politiche!

La sinistra invece dovrebbe sottrarre alla destra il voto che una parte sempre troppo ampia dei cittadini le assegna dando risposte diverse al disagio che soprattutto strati popolari e di ceto medio impoverito esprimono con quel voto.

Qui ci vorrebbe un pensiero a sinistra molto radicale, per riconiugare da capo parole appesantite da qualche secolo di fraintendimenti più o meno tragici: capitalismo e mercato.

Il capitalismo, per dir così abbandonato a se stesso, cioè all’egoismo materiale e alla competizione accesa fino alla guerra, non funziona. Distrugge il pianeta e per quanta ricchezza monetaria e materiale produca, solo in troppo piccola parte viene redistribuita, e comunque costringe a un modo di vivere che alla fine produce infelicità e malattie.

Ma bisognerebbe prendere finalmente atto che il rimedio non può essere quello di immaginare un potere supposto saggio che rimette il mondo a posto facendo decidere tutto allo Stato, limitando se non eliminando il mercato.

Andrebbe ripresa una intuizione troppo dimenticata del femminismo della differenza quando ha detto che al mercato, per sovvertirlo, bisogna portare tutto: non solo lavoro, merci e denaro, ma sentimenti, affetti, relazioni, capacità di gestire non mortalmente i conflitti, e i desideri più profondi.

Non solo regole, necessarie, per mitigare il suo carattere selvaggio (oggi invocate anche da chi il capitalismo lo difende). Ma una vera rivoluzione simbolica.

Da Il Tascabile – «Il letto, mio caro, è tutta la nostra vita. Qui si nasce, qui si ama, qui si muore»: sono le parole della protagonista di un breve racconto di Maupassant del 1882 che s’intitola, per l’appunto, Il letto. La donna, di cui non conosciamo e non conosceremo il nome, è allettata da giorni e descrive così in una lettera al suo amante, l’abate d’Argencé, quel tempo di degenza obbligata:

Mio caro amico, sono malata, soffro veramente, non posso lasciare il letto. La pioggia batte contro i vetri e io me ne sto a fantasticare languidamente al caldo, nel tepore dei piumini. Ho qui un libro che amo e che mi sembra fatto con un poco di me stessa. Devo dirvi quale? No. Mi rimproverereste. Poi, dopo aver letto un po’, mi metto a pensare, e voglio dirvi a cosa. Dato che da tre giorni sono a letto, penso proprio al mio letto, e persino nel sonno continuo a pensarci. Se solo possedessi la penna di Crébillon, scriverei proprio la storia di un letto.

Costretta a trascorrere il suo tempo distesa, la donna fantastica, legge, scrive lettere, pensa. E pensa proprio al giaciglio che la accoglie, e ci pensa così intensamente che perfino mentre dorme il letto – quel letto – diviene il pensiero fisso delle sue giornate. Oh, se solo avesse il talento di un grande scrittore come Crébillon! Ma no, è soltanto una donna, senza nome né (apparentemente) talento. Una donna malata, che pensa al suo letto, mentre è a letto. Quasi cinquant’anni dopo – è il 7 gennaio del 1926 – un’altra donna, con un nome e un talento, scrive una lettera alla sua amante, in quei giorni costretta a letto per una breve malattia: «Solo per chiederti come stai – hai la febbre? 38? 39? 40? Non ti senti bene? Mezzo addormentata sorseggi il tè, mangiucchi una fetta di pane tostato, e poi verso sera ritorni luminosa e remota e irresponsabile distesa nel tuo baldacchino come un minuscolo chicco nel guscio?». L’amante ammalata risponde: «Sei un angelo ad avere scritto. E mi piace il tuo atteggiamento nei confronti della malattia: “luminosa e remota”, quando la maggior parte delle persone avrebbe detto “calda e appiccicaticcia”».

Già, Vita Sackville-West – l’amante ammalata – ha proprio ragione: nessuno più di chi le ha scritto quelle parole, ovvero Virginia Woolf, è capace di raccontare la malattia in modo così diverso, originale, inconsueto. A testimoniarlo, appena qualche giorno dopo quello scambio di lettere, è il breve e indimenticabile saggio On Being Ill, “Dell’essere malati”, pubblicato per la prima volta proprio sul numero del gennaio 1926 della rivista “New Criterion”, diretta da T.S. Eliot. In Dell’essere malati, Woolf riflette – e ci fa riflettere – su come il fatto di essere costretti a letto da una malattia non sia sempre, non sia solo, una sciagura. È anche, più spesso di quanto crediamo, un’occasione. Lo è nel senso etimologico del termine. Se pensiamo alla parola occasio, dal latino ob + cídere, subito ci rendiamo conto che la parola “occasione” porta con sé un movimento di caduta, una parabola discendente. La malattia è un’occasione perché ci ac-cade, “ci cade davanti”. O siamo noi che, andando avanti, ci cadiamo dentro. Eppure questa caduta, avverte Woolf, non è necessariamente un male. Molto spesso, infatti, “cadere ammalati” significa essere costretti a cambiare prospettiva, ad abbandonare la verticalità, a divenire orizzontali. Sdraiati a letto, non più feminae e homines erecti, obbligati a rinunciare alla postura che l’evoluzione, la storia, il mondo, ci chiedono per essere parte attiva del consorzio civile, noi, gli ammalati, i distesi, gli inetti, abbiamo improvvisamente la possibilità di abitare un altro spazio, di guardare qualcosa di diverso. Qualcosa che, in piedi, continuava a sfuggirci e che da sdraiati, invece, ci si rivela.

Con la malattia la simulazione cessa. Appena ci comandano il letto, o sprofondati tra i cuscini in poltrona alziamo i piedi neanche un pollice da terra, smettiamo di essere soldati nell’esercito degli eretti; diventiamo disertori. Loro marciano in battaglia. Noi galleggiamo tra i rami nella corrente; volteggiamo alla rinfusa con le foglie morte sul prato, capaci forse per la prima volta dopo anni di guardarci intorno, o in alto – di guardare, per esempio, il cielo.

Quella che credevamo una disgrazia, la malattia, può diventare, in alcuni casi, uno stato di grazia, una modificazione posturale che, imponendoci di abbandonare le file dell’esercito degli eretti, degli attivi, dei produttivi, ci obbliga (o autorizza) a sostare, a non agire, a osservare. Il cielo, per esempio. «Diventati una foglia, o una margherita, supini, lo sguardo rivolto in alto» – continua Woolf – «scopriamo che il cielo è qualcosa di così diverso, ma così diverso che ne siamo scioccati. Ecco dunque cos’è che da tanto tempo andava avanti senza che lo sapessimo! […] Solo i supini sanno ciò che dopotutto la Natura non si dà affatto la pena di nascondere – che alla fine sarà lei a trionfare».

I supini lo sanno. Sanno ciò che gli eretti dimenticano, tutti presi dalla propria verticalità, dalla propria “rettitudine”, per usare il termine che la filosofa Adriana Cavarero mette al centro del suo saggio Inclinazioni. Critica della rettitudine, proprio per ragionare sulla «centralità della postura verticale, tanto cara all’individuo sovrano e ai suoi sogni di autonomia» e che per la filosofa, come per Woolf, non è che un «patetico abbaglio». Chi si pensa dritto e intero, chi guarda sempre davanti a sé, chi procede senza sosta nell’esercito degli eretti, illudendosi di dominare lo spazio – e dunque il mondo – confortato dal proprio orientamento verticale, (o dalla propria erezione), è completamente fuori strada. Ignaro, o dimentico, «di ciò che dopotutto la Natura non si dà affatto la pena di nascondere – che alla fine sarà lei a trionfare».

Essere orizzontali, per Woolf, significa avere la possibilità di sfuggire a questo abbaglio, a questa fatale dimenticanza. Significa allenare lo sguardo a un’altra prospettiva, una prospettiva eccentrica, fuori dal centro di un’autoreferenzialità che è in realtà miope. A letto, distesi come «una foglia, o una margherita», al cospetto di un cielo che non ricordavano, i supini ritrovano i confini di un corpo vulnerabile e vivo, che patisce, che dipende da un altro, dagli altri, che è in contatto con i propri bisogni, con la propria parzialità. E, insieme, con la propria creatività. Sì, perché è proprio quando siamo distesi, ammalati, che siamo più disponibili a lasciarci attraversare dall’incomprensibile. Spesso, quando siamo in piedi, e in salute – scrive ancora Woolf – «il senso usurpa il ruolo del suono. L’intelligenza domina sui sensi. Ma nella malattia, con la polizia non più in servizio, le parole liberano il loro profumo, sussurrano come fanno le foglie, ci coprono di luci e ombre». Liberi dall’imperativo categorico del dover capire, del dover dare senso e ordine al mondo, affrancati dall’asse verticale della ragione, i supini fantasticano, leggono, scrivono. Proprio come la donna protagonista del racconto di Maupassant. Proprio come Virginia Woolf, che scrive Dell’essere malati subito dopo – o dovremmo dire grazie al fatto – di essere stata costretta a letto per un mese, nell’autunno del 1925.

Quello di Woolf non è certo l’unico caso. Sappiamo bene che la maggior parte della Recherche Proust la scrive a letto. E che è a letto, mentre è ammalato di pleurite, che il grande poeta Attilio Bertolucci compone la sua seconda raccolta di versi, Fuochi in novembre, del 1932. Ed è sempre a letto che, dieci anni prima, nel 1922, Katherine Mansfield, malata di tubercolosi, scrive uno dei suoi racconti più belli e più crudeli: La mosca. Ed è ancora a letto, o addirittura stesa sul pavimento, che Karen Blixen, malata da tempo di sifilide, scrive o detta uno dei suoi capolavori: la raccolta di racconti Capricci del destino, pubblicata nel 1958. Perfino Via col vento, il romanzo di Margaret Mitchell da cui sarà poi tratto il celebre film, nasce in posizione orizzontale: l’autrice inizia a scriverlo proprio perché costretta a letto per settimane a causa della frattura di una caviglia. La storia della letteratura è piena di scrittrici e scrittori orizzontali. Autori e autrici per cui stare a letto, o a terra, o su un divano è non solo la condizione migliore, ma talora l’unica condizione, la condizione necessaria per creare. Edith Warthon, che da ragazzina è solita leggere stesa sul tappeto della biblioteca paterna, da adulta scrive quasi solamente a letto, libera – così dice – dalla dittatura femminile del corsetto, che asfissia qualsiasi slancio creativo. Mark Twain e George Orwell scrivono a letto. William Wordsworth scrive addirittura a letto e al buio… non si sa come. E così Truman Capote, che in una intervista del 1957, dichiara: «Sono uno scrittore assolutamente orizzontale. Se non sono sdraiato a letto o su divano, non riesco a pensare». «Io sono verticale/ ma preferirei essere orizzontale», scrive dal canto suo Sylvia Plath, in una delle sue più celebri poesie, I am vertical.

Io sono verticale

ma preferirei essere orizzontale.

Non sono un albero

con radici nel suolo

succhiante minerali e amore materno

così da poter brillare

di foglie a ogni marzo,

né sono la beltà

di un’aiuola ultradipinta

che susciti grida di meraviglia,

senza sapere che presto

dovrò perdere i miei petali.

Confronto a me,

un albero è immortale

e la cima di un fiore, non alta,

ma più clamorosa:

dell’uno la lunga vita,

dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera,

all’infinitesimo lume delle stelle,

alberi e fiori

hanno sparso i loro freddi profumi.

Ci passo in mezzo

ma nessuno di loro ne fa caso.

A volte io penso

che mentre dormo

forse assomiglio a loro

nel modo più perfetto

con i pensieri andati in nebbia.

Stare sdraiata è per me più naturale.

Allora il cielo ed io

siamo in aperto colloquio,

e sarò utile il giorno

che resto sdraiata per sempre:

finalmente gli alberi mi toccheranno,

i fiori avranno tempo per me.

In questa bellissima poesia, che troppo spesso è stata banalizzata e interpretata solo come uno dei tanti annunci della poeta americana rispetto al suo futuro suicidio, c’è molto altro, c’è ben altro. Anche Plath, come Woolf, si pensa supina, come foglia o margherita, vicina alle radici degli alberi, ai traffici minerali del terreno, ai fili d’erba che guardano le stelle. «Sono verticale / ma preferirei essere orizzontale» non è semplicisticamente il verso-manifesto di chi è vivo ma preferirebbe morire. È il canto di chi sa la richiesta di verticalità che le fa il mondo – la richiesta di assennatezza, appropriatezza, conformità all’esercito degli eretti – la separa da ciò che le è più caro, da ciò che le permette di essere vicina a sé stessa.

Sylvia Plath, come Virginia Woolf, come Truman Capote, come William Wordsworth, come Amelia Rosselli – che in un suo celebre verso tratto da Serie ospedaliera scrive proprio questo: «non staccarsi dalle cose basse scrivendone / supina» – per essere vicina a sé stessa deve disertare. Sottrarsi al traffico quotidiano, rinnegare il negotium, in favore di un otium che non è semplice inerzia, pigrizia, al contrario, è un’inattività attiva, una inoperosità fertile che pesca nel doppio fondo dell’esistenza, nei suoi recessi, nelle sue falde, in tutto ciò che è basso, e perciò stesso in aperto colloquio con l’alto. È dal basso che ci si accorge del cielo. È da stesi che si vedono le nuvole. Nuvole come «isole felici, pecorelle, cavolfiori e pannolini – che si asciugano al sole» (sono versi di Wisława Szymborska, questi). Nuvole come quelle che Marina Cvetaeva vede mentre, distesa a terra nel bosco, sta scrivendo una lettera al giovane letterato Aleksandr Bachrach: «Caro, vi scrivo tra il muschio, nel cielo avanza una enorme, minacciosa nube nera – rilucente. Stavo leggendo la Vostra lettera e di colpo ho avvertito la presenza di qualcosa… Il muschio corto mi punge le braccia, scrivo distesa, se sollevo la testa eccola, lucente». Lucente sul corpo della poeta stesa sulla nuda terra, nell’umidore del muschio, la nuvola avanza e entra nella scrittura, il cielo finisce sulla pagina, la contamina, alimenta, decentrandola dalla sua autrice, che è insieme testimone e cantrice di qualcosa di più grande, di cui è ospite e ospitante, orizzontale e protesa. Il cielo fa così. Preferisce i supini. Visita gli orizzontali. I corpi guasti, stanchi. I corpi in abbandono. Gli inservibili. Come inservibili sono i corpi dei burattini Totò – nel ruolo di Jago – e Ninetto Davoli – in quello di Otello – gettati in una discarica a cielo aperto alla fine del film Che cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini.

Otello: Iiiiih, che so’ quelle?

Jago: Quelle sono… sono le nuvole…

Otello: E che so’ le nuvole?

Jago: Mah!

Otello: Quanto so’ belle! Quanto so’ belle!

Jago: Oh, straziante, meravigliosa bellezza del Creato!

Dice così Jago, con la sua faccia verde, che si illumina tutta, proprio quando non ha più un ruolo, quando la pantomima è finita, quando non c’è nessun filo a tenerlo in piedi. Orizzontale, derelitto, incongruo, e per ciò stesso rinato al mondo che lo coglie dall’alto, e che può cogliere perché è in basso. Lì dove la vita accade come una scoperta. Un ritorno. Un mistero.

(*) Sara De Simone ha conseguito un dottorato di ricerca in Letterature comparate alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha tradotto, con Nadia Fusini, “Scrivi sempre a mezzanotte”, il carteggio tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West (Donzelli, 2019). È vicepresidente dell’Italian Virginia Woolf Society. Ha scritto “Nessuna come lei. Katherine Mansfield e Virginia Woolf: storia di un’amicizia” (Neri Pozza, 2023).

Caro Presidente,

siamo due donne legate da un’amicizia politica più che ventennale. Una di noi vive in Calabria, a Catanzaro, l’altra in Veneto, a Spinea (Venezia). La nostra relazione politica, fatta di scambio, fiducia, stima, affetto e amore per il mondo, ci ha tenute sempre unite, nonostante la distanza geografica. Entrambe ci sentiamo prima di tutto donne e poi cittadine di questo Paese dove siamo nate, cresciute e abbiamo vissuto la nostra vita, restando fedeli a noi stesse. Abbiamo deciso di scriverLe per avere da Lei una risposta a domande che ci siamo poste dopo che ha firmato, senza alcun rilievo, la legge approvata dalla Camera sull’autonomia differenziata. Ci siamo chieste: «Il presidente della Repubblica non è il garante dello Stato e dell’unità nazionale (art. 87 della Costituzione)? Non è dovere dello Stato assicurare a tutte/i le/i cittadine/i uguali diritti (art. 3 della Costituzione)? Lo Stato non ha il dovere di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza?» Presidente ritiene che l’autonomia differenziata risponda a questi dettati costituzionali, di cui Lei è il garante? Non siamo due costituzionaliste ma sappiamo leggere la realtà con sapienza femminile, a partire dalla nostra esperienza. Capiamo, per esempio, che quella legge demolirà il tanto o poco di buono che ancora resta del Servizio Sanitario Nazionale, voluto da una donna, la Ministra Tina Anselmi, che aveva come principi fondanti la solidarietà, l’universalismo e la gratuità delle cure per tutte/i, da Nord a Sud. Sappiamo come il primo colpo per indebolire e frantumare quel sistema, come la pandemia da Covid19 ci ha mostrato, l’hanno dato la riforma dell’art. V (n. 3/2001) della Costituzione e l’introduzione in essa del pareggio di bilancio (20.04.2012). L’autonomia differenziata, che dà a ogni regione la possibilità di trattenere e spendere le entrate fiscali esclusivamente all’interno di sé stessa e non più distribuirle a livello nazionale, rilancerà o distruggerà definitivamente quel sistema sanitario? Lei come noi conosce le disuguaglianze tra Nord e Sud, tra la Calabria e il Veneto, il cui presidente Zaia si è già affrettato a chiedere 9 deleghe delle 23 previste, e per la sanità il problema non è garantire alle regioni ricche del Nord una sanità di eccellenza e al Sud i Livelli Essenziali di assistenza (LEP). Noi, come Tina Anselmi, pretendiamo una buona sanità uguale per tutte/i, da Nord a Sud dove, tra tanti disastri e mala politica, non manca la buona sanità. Io l’ho trovata a Catanzaro al Centro oncologico “Ciaccio-De Lellis” dove sono stata curata con professionalità e umanità dal dottore Stefano Molica e dal personale infermieristico. Non ho avuto la necessità di emigrare al Nord, come sono costrette tante/i calabresi. L’autonomia differenziata fermerà l’emigrazione sanitaria o l’aumenterà? Le eccellenze che abbiamo anche nel Sud da chi saranno garantite? I mali che Lei e noi conosciamo della sanità pubblica – carenza di posti letto, mancanza di personale medico e infermieristico, costretto a turni massacranti, lunghe liste d’attesa che spinge chi se lo può permettere a rivolgersi a pagamento al privato e chi no a restare in attesa o rinunciare a curarsi, anche nel ricco Nord – chi li risolverà? La fiscalità regionale con le assicurazioni private che lucrano solo profitti, come negli USA? No, tutto andrà per il peggio. E che dire della scuola, Presidente? Ogni regione avrà il suo sistema scolastico finanziato dalla fiscalità regionale e dalle Fondazioni private? È questa l’unità nazionale di cui è garante? Presidente, noi siamo propense a pensare che quella legge non la doveva firmare, perché l’ha fatto?

Con cordialità

Franca Fortunato e Adriana Sbrogiò

(Quotidiano del Sud Calabria, 6 luglio 2024, rubrica “Io, Donna” curata da Franca Fortunato)

Franca Fortunato e Adriana Sbrogiò fanno parte della rete delle Città Vicine. Questa lettera si può firmare: https://chng.it/tZBNY6JvjW

L’apertura della legislatura in cui la guerra è costituente di un presunto “arco costituzionale” europeo

Interpreto il comunicato di Disarmisti esigenti a cui partecipo con altre donne.
Il nostro presidio, di Disarmisti esigenti e altri, dal 16 al 19 luglio davanti alla sede del Parlamento europeo rimarca un impegno preciso: contrastare l’uso della retorica della pace di chi poi vota a presidente della Commissione UE Ursula von der Leyen.E l’abitudine di votare solo per motivi di schieramento partitico, andando poi ad appoggiare con il voto gli aiuti militari a Zelensky.

Lo illustriamo in una conferenza stampa a Roma, il 9 luglio 2024, alle ore 11:00, presso la Libreria D’Amico, via Silvio D’Amico 1.

Ci chiediamo se sia utile che buona parte della sinistra cosiddetta radicale del gruppo Left sostenga la posizione che sia giusto che l’“aggredito” resista militarmente all’“aggressore”. Molti, tra cui molti elettori del PD che pure è un pilastro della maggioranza per la guerra, si proclamano e si credono pacifisti. Ma dimostrano di non avere alcuna strategia, alcuna vertenzialità contro i governi che fomentano la violenza della guerra, sono assenti e in silenzio assoluto nei momenti in cui viene deciso di accettare solo una “pace giusta”, cioè di andare avanti fino alla completa sconfitta militare dell’avversario, legittimando così concretamente la corsa agli armamenti e ai massacri. Lo abbiamo visto quando, in Italia, si sono approvati gli aiuti militari all’Ucraina.

Noi siamo molto sospettose anche rispetto a certe “unità contro la destra” che considerano l’opposizione contro la guerra addirittura divisiva. Non è forse il clima bellico, con la militarizzazione dell’intera società, il più fertile incubatore dei fascismi?

Noi donne e uomini di Disarmisti Esigenti saremo a Strasburgo appunto per vigilare e documentare, per mettere in evidenza che ci vuole coerenza tra parole e opere! Vogliamo cercare eurodeputate ed eurodeputati onesti, disposte/i a lavorare per i popoli che non vogliono essere massacrati, a prendere seriamente l’impegno di opporsi alle guerre, perché facciano da sponda istituzionale ai movimenti di base che si danno da fare con le azioni dirette, le obiezioni, la disobbedienza civile nonviolenta!

Non sarà affatto facile, perché l’atlantismo e la guerra contro la Russia sono il perimetro dell’“arco costituzionale” che, a livello europeo, andrà a formare la nuova versione della “maggioranza Ursula”. Ma è probabile che anche chi voterà contro la Commissione UE sarà a favore della sua politica di sostegno all’“autodifesa armata” dell’Ucraina in forma di guerra ad alta intensità.
Quello che invece noi sosteniamo è che, nelle condizioni tecnologiche e sociali contemporanee, da “villaggio globale” di fatto, non si può più immaginare una “guerra giusta”, come ha capito, tra i leader mondiali, Papa Francesco.

Ad esempio in Africa, dove sono del tutto estranei alle dispute territoriali in Ucraina, come conseguenza del conflitto che ha ostacolato le esportazioni di grano, la fame ha già fatto più morti delle centinaia di migliaia dei soldati periti sul campo di battaglia.
Non esiste nessuna causa territoriale che oggi valga la pena di difendere con le armi. Perché esse provocano problemi sempre peggiori di quelli che si ripromettono di risolvere, comportano il rischio di escalation incontrollabili, fino alla guerra atomica. E perché ogni rivendicazione tribale ci distoglie dal compito principale che oggi compete a tutte e tutti ai quattro angoli del Pianeta, alla comune umanità che siamo: la pace con la Natura, una nuova civilizzazione che riduca gli inquinanti, con tutto ciò che comporta in cambiamento degli stili di vita troppo lussuosi per la sostenibilità. La guerra costa e inquina più di ogni altra cosa, dev’essere evitata. L’essere a Strasburgo di pochi pacifisti che attivano il rapporto tra i popoli e gli eletti mi sembra uno sforzo da sostenere.

Bassam Aramin, palestinese, già condirettore del Parents Circle-Families Forum, ha trascorso sette anni in un carcere israeliano per il suo ruolo nella resistenza palestinese. Nel 2007 sua figlia Abir, dieci anni, è stata uccisa da un soldato israeliano. Vive a Gerico, in Cisgiordania.

Prima di tutto vorrei chiederti di raccontare brevemente la tua storia e di come sei entrato nel “Parents Circle”.

Ho trascorso sette anni nelle carceri israeliane, ci sono entrato quando avevo diciassette anni. Proprio in prigione ho visto un film sull’Olocausto, ed è così che ho scoperto della sua esistenza. Fino ad allora pensavo fosse una bugia, mi dicevo: «Non ne ho mai sentito parlare…». All’epoca fu molto difficile per me guardare quelle immagini; quella visione mi ha segnato al punto che, venticinque anni dopo, ho conseguito un master sull’Olocausto. A muovermi era stato il desiderio, la necessità di saperne di più sull’altra parte.

Quando sono stato rilasciato, sette anni dopo, mi sono sposato, ho avuto sei figli, e nel 2005 sono stato uno dei co-fondatori dei “Combatants for peace”, un’organizzazione israelo-palestinese impegnata in un’azione non violenta contro «l’occupazione israeliana e tutte le forme di violenza» in Israele e nei territori palestinesi, costituita da ex soldati israeliani e ufficiali che si sono rifiutati di prestare servizio nei territori occupati ed ex detenuti palestinesi.

Il 16 gennaio 2007 un poliziotto israeliano di servizio al confine ha sparato e ucciso mia figlia Abir, che all’epoca aveva dieci anni. Le ha sparato alle spalle da una distanza ravvicinata colpendola alla testa. È caduta a terra e due giorni dopo è spirata all’ospedale Hadassah, dove era stata ricoverata.

Due giorni dopo sono entrato nel “Parents Circle – Families Forum”, realtà che già conoscevo perché uno dei cofondatori di “Combatants for peace”, Rami Elhanan, aveva subìto un lutto, aveva perso la figlia Smadar in un attentato suicida palestinese il 4 settembre 1997, dieci anni prima della morte di mia figlia Abir. Avevo conosciuto Rami nel 2005 ed eravamo presto diventati molto amici. Due anni dopo eravamo legatissimi, praticamente di famiglia. Nei media palestinesi avevo letto anche del lavoro di Robi Damelin, per cui insomma conoscevo l’associazione, la apprezzavo, era davvero un impegno nobile. Certo nemmeno nel peggiore dei miei incubi immaginavo che mi sarebbe capitato di entrare a far parte di un gruppo di parenti di vittime.

È stato così che sono entrato nei “Parents Circle”, organizzazione che oggi conta oltre settecento famiglie di israeliani e palestinesi che hanno perso un proprio caro. Con Rami negli anni ci siamo talvolta detti che per quanto tra la morte di Smadar e quella di Abir siano passati dieci anni, l’assassino è lo stesso, è lo stesso criminale ad averci portato via le nostre figlie: l’occupazione israeliana, che ha provocato la resistenza e ha portato violenza e atrocità.

Quando sei entrato nel “Parents Circle” i tuoi famigliari ti hanno seguito? Dopo una tale tragedia sarebbe stato facile far prevalere il desiderio di vendetta.

È stato decisivo il fatto che fossi già un attivista pacifista; se non fossi stato impegnato con i “Combatants for peace” non so come sarebbe andata, credo che difficilmente sarei entrato a far parte dei “Parents Circle”.

All’epoca per la mia famiglia è stato molto difficile e doloroso, ma alla fine siamo entrati tutti. Mia moglie già conosceva il mio impegno. Ci è voluto più tempo per mio figlio Arab: quando aveva tredici anni aveva così tanta rabbia da assentarsi qualche volta da scuola per andare a tirare pietre. Mi ci sono voluti quattro anni per fargli capire che quella non era la strada giusta. Dopo si è unito anche lui ai “Parents Circle” e lì ha trovato un amico israeliano della sua età, con cui ha cominciato ad andare in giro a raccontare la sua storia. Il suo amico si chiama Yigal Elhanan: è il figlio di Rami. Così anch’io ho potuto finalmente fare pace con me stesso e con mio figlio.

Come hai reagito ai fatti del 7 ottobre, qual è stata la prima cosa che hai pensato?

Vorrei parlare anche dell’8 ottobre… il 7, l’8 ottobre… dipende da come si vedono le cose. Naturalmente non posso ignorare il 7, ma per noi palestinesi è come se fossero due cose separate. L’8 ottobre è stato l’inizio dell’ennesima operazione militare, che è la nostra quotidianità ormai da settantacinque anni. Per gli israeliani il 7 ottobre è stato invece vissuto come qualcosa di inedito dopo l’Olocausto.

Devo dire che per me quanto successo a partire dall’8 ottobre fino ancora a oggi non è stata una grande sorpresa. Anche parlandone con Rami ci siamo spesso ripetuti che non si può pensare di chiudere due milioni di persone in una scatola, chiudere il coperchio e ignorarle. Non può funzionare; temevamo che sarebbe successo qualcosa, che ci sarebbe scoppiato tra le mani e così è stato il 7 ottobre. In confidenza, la mia prima previsione era che fino a che Israele non avesse ammazzato 15-20.000 palestinesi, tra soldati, bambini, donne innocenti, non si sarebbe decisa a trattare per concludere l’operazione. Purtroppo ero stato troppo ottimista: abbiamo superato i 35.000 morti e ancora non è finita. Sfortunatamente questo è un conflitto feroce, l’occupazione si è fatta estremamente brutale, e a pagarne il prezzo sono principalmente degli innocenti, donne e bambini che non c’entrano nulla, la parte più debole sia in Palestina sia in Israele, anche se è più dura per i palestinesi: noi non abbiamo posti dove scappare, non abbiamo rifugi né qualcuno che ci avvisi. Ci hanno chiesto di andarcene a sud e poi ci hanno bombardato.

I membri di Hamas che hanno condotto l’attacco del 7 ottobre fin da bambini hanno assistito alle atrocità commesse da Israele contro Gaza. Hanno agito per vendetta. Se non cerchiamo la pace, se non poniamo fine a questa pulizia etnica, a questo genocidio che si svolge sotto i nostri occhi, sfortunatamente dovremo aspettarci altri 7 ottobre. Perché l’origine di questa tragedia è l’occupazione; entrambi, israeliani e palestinesi, ne sono vittime.

Fino a che continuerà l’occupazione siamo destinati a veder versato altro sangue, da entrambe le parti. La sicurezza di Israele dipende dal riconoscimento della dignità dei palestinesi; se vuole davvero la stabilità, deve far pace con i palestinesi.

Come siete riusciti a continuare il vostro lavoro in un periodo tanto difficile?

È dura. Siamo tutti esseri umani e ognuno guarda alla sua parte. Vediamo ciò che succede ai palestinesi e non ce ne capacitiamo, ma poi vediamo anche i bambini israeliani, le donne, quei ragazzi al rave… Come dicevo, siamo esseri umani, ma noi del Parents circle siamo anche persone abituate a vedere la dignità dell’altro, per cui guardiamo a entrambe le parti. Sin dal primo giorno abbiamo deciso di far sentire la nostra voce e di mantenere fede al nostro impegno. Per noi l’unica via d’uscita rimane il dialogo, il parlarsi l’uno con l’altro e l’agire insieme contro l’occupazione e contro ogni atto di violenza. Diversamente noi sappiamo bene cosa ci attende: un futuro doloroso, segnato dalla perdita di un proprio caro, un dolore, una ferita al cuore dalla quale non ci si riprenderà mai. Dopo il 7 e l’8 ottobre abbiamo cominciato a parlare tra di noi, anche se è stato faticoso, tanto più che non possiamo incontrarci fisicamente, visto che anche la Cisgiordania, dopo il 7 ottobre, è finita sotto assedio, per cui i nostri meeting, tutte le attività, le conferenze, dobbiamo tenerle via internet, su Zoom, su Skype…

Per quanto riguarda i coloni, la situazione è peggiorata?

Si parla sempre di Gaza perché lì la situazione è più grave, ma ci si dimentica della Cisgiordania, dove dal 7 ottobre a oggi sono morte più di quattrocento persone, e più di settemila sono state arrestate. Immaginate, settemila persone in una popolazione di cinque milioni.

Poi ci sono le atrocità dei coloni, che sono organizzati in bande paramilitari legalizzate perché di fatto supportate dall’esercito. È un problema grave: per loro non esiste alcuna legge. Loro non ci considerano persone: ogni giorno prendono di mira i nostri villaggi, le nostre auto, i nostri bambini, persino i nostri animali. Quando gli israeliani si interrogano su come sia potuto accadere il 7 ottobre, devono comprendere che tutto ciò è stata una reazione alla loro brutalità, alla loro oppressione. Chi vive sotto occupazione non accetterà mai questa situazione, vorrà reagire e questo è il risultato. Sfortunatamente, ci saranno ancora altre vittime, altro sangue.

La tua comunità, i palestinesi attorno a te come vedono questo sforzo per tenere aperto il dialogo con l’altra parte?

Non è facile: siamo una minoranza che nuota controcorrente. Nel mio caso nessuno mi ha mai dato del traditore, non ho mai sentito pronunciare quella parola. Conoscono la mia storia: ho passato sette anni nelle carceri israeliane, ho perso mia figlia, quindi ho il diritto di parlare.

Magari ti sorprenderà, ma oggi è più facile essere un attivista pacifista in Palestina di quanto non lo sia in Israele. In Israele ti possono arrestare per un post su Facebook, e parliamo dell’“unica democrazia del Medio Oriente”; lì le persone ora hanno paura; si sente sempre parlare di agguati contro gli attivisti israeliani, di docenti universitari costretti a dimettersi per aver condiviso qualcosa in un gruppo WhatsApp. Tra i palestinesi non ci sentiamo minacciati, le persone apprezzano quello che facciamo. Certo ora che a Gaza sono in corso dei massacri è tutto più difficile ma, nonostante la rabbia, le persone apprezzano ciò che facciamo.

Alcuni sondaggi di qualche settimana fa registravano un crescente appoggio per Hamas tra i giovani in Cisgiordania, tu cosa ne pensi?

Mi dispiace, ma se vivi sotto occupazione e qualcuno attacca l’occupante tu ne gioisci. A essere sincero penso che il 7 ottobre per molti palestinesi, dovunque fossero, sia stato un giorno felice. Noi di “Parents Circle”, impegnati per una via nonviolenta, sappiamo che non è così che si può ottenere un cambiamento. Il prezzo che si paga è sempre troppo alto. Dobbiamo far capire agli israeliani: «Avete speso miliardi e miliardi in tecnologia militare, nel costruire muri, nella sicurezza, e poi è arrivato il 7 ottobre. Tutto questo non è bastato a proteggervi. L’unica cosa che può garantire davvero la vostra sicurezza è un accordo di pace con il popolo palestinese». Dopodiché i palestinesi dovranno rispettare i patti e difendere i loro confini, come è accaduto tra Giordania e Israele e tra Egitto e Israele. Ognuno ha il diritto di difendersi, certamente, ma nessuno ha il diritto di occupare la terra altrui. Chi vive sotto occupazione non chiede il permesso per resistere. Resisterà comunque, intanto la nostra gente muore, muoiono i nostri figli. Dobbiamo porre fine a questa spirale, e lo si può fare solo riconoscendo la dignità dei palestinesi e il loro diritto di popolo all’autodeterminazione, ad un proprio stato.

Quando parli ai giovani cosa dici? È dura per un ragazzo cresciuto a Gaza o in Cisgiordania…

Assolutamente. Se sei palestinese la tua vita è difficile ovunque, che tu sia in Cisgiordania, nei campi profughi o a Gaza. Quello che dico sempre è che i palestinesi non hanno ucciso sei milioni di israeliani; neppure gli israeliani – finora – hanno ucciso sei milioni di palestinesi. Ebbene, oggi c’è un ambasciatore tedesco a Tel Aviv e uno israeliano a Berlino. E solo quattro anni dopo l’Olocausto, dopo sei milioni di morti, Israele e Germania intrattenevano regolari relazioni diplomatiche. Se ci sono riusciti loro, possiamo farcela anche noi. Siamo destinati a condividere questa terra, che potrà essere organizzata con uno, due o cinque stati, altrimenti la condivideremo comunque ma come due enormi tombe per i nostri figli, le nostre famiglie, la nostra gente.

Nessuno sparirà solo perché l’altra parte lo desidera. Siamo qui, insieme, e possiamo dimostrare di poter vivere in libertà e uguaglianza, dignità e giustizia sociale. Senza che nessuno occupi l’altro. Sfortunatamente abbiamo a che fare con una minoranza, oggi al potere, che porta avanti un tipo particolare di razzismo e di discriminazione. Il problema non è che noi siamo scuri e loro biondi. È che proprio non riescono a immaginare di dover condividere questa terra con nessun altro al di fuori degli ebrei, e per questo vorrebbero sbatterci fuori dal confine. Questo è il problema principale, e finché non si sbarazzeranno del loro senso di superiorità e capiranno che qui ci siamo anche noi e che non ce ne andremo da nessuna parte; che non è scritto da nessuna parte che dobbiamo continuare ad ammazzarci l’un l’altro, solo allora capiranno che c’è un’unica soluzione logica. Certo, è difficile, ma la pace si fa con i nemici, non con gli amici.

Se guardiamo indietro nella storia, all’impero romano, dov’è finito, ora? Lo sapete quante nazioni nella storia hanno cercato di occupare questa terra, la Palestina? Dove sono ora? Noi siamo ancora qui e ci rimarremo.

In una conferenza che ho ascoltato su YouTube dici che i gazawi sono più ottimisti degli israeliani di Tel Aviv. Puoi spiegare cosa intendi dire?

Certo, è molto difficile capire che cosa significhi per un popolo vivere sotto occupazione, sotto assedio per decenni. Le persone devono conservare una speranza, altrimenti impazziscono. Hanno più speranza perché soffrono di più: sono costretti a credere che in futuro vinceranno, che si troverà una soluzione.

Nessuno pensa di distruggere Israele; se lo chiedi loro, le persone rispondono che ciò che vogliono è la pace. Chiedilo alle madri: vogliono solo poter mandare i figli a scuola e vederli tornare indietro tutti interi, al sicuro. Lo stesso vale per gli abitanti della Cisgiordania, è un valore fondamentale. Gli israeliani sono diversi per un motivo: soffrono della mentalità della vittima. Sin da bambini crescono portando sulle spalle il peso di una lunga e tragica storia: schiavitù, antisemitismo fino ad arrivare all’Olocausto… così non è facile crescere ottimisti. Vedono un mondo pieno di nazisti, antisemiti o negazionisti. Le cose non stanno così; dovrebbero accantonare questa mentalità e vedere gli altri per quel che sono, smettendo di averne paura. D’altro canto, non si può continuare a far pagare il prezzo dell’Olocausto a noi palestinesi. Il fatto è che noi siamo le vittime delle vittime.

Come ti sei appassionato alla storia degli ebrei e alla vicenda della Shoah?

Quando ero piccolo sentivo dire che «Hitler aveva ucciso sei milioni di ebrei», ma non sapevo chi fosse; per me era solo un nome, una storia inventata. Nulla del genere poteva essere davvero accaduto. Poi, in prigione, mi è capitato appunto di vedere un film sull’Olocausto. Pensavo di godermi appunto una storia, poi ho visto le scene di tortura, gli arresti, le invasioni, e anche se mi trovavo nelle loro prigioni, dopo pochi minuti mi sono ritrovato a piangere, a provare empatia per quegli innocenti. Quello che avevo visto era davvero troppo per me, era una cosa contro la natura umana e la legge degli uomini. Mi ripetevo: è solo un film, non è la realtà, non è possibile che un essere umano faccia cose del genere ad altri esseri umani… Così ho sentito il bisogno di saperne di più. Devo dire che l’interesse nasceva anche dal bisogno di capire il brutale comportamento dei soldati israeliani quando venivano al mio villaggio. Sono le stesse cose che si vedono oggi a Gaza; quei soldati sono macchine per uccidere, non distinguono tra bambini, vecchi, insegnanti, donne, per loro sono tutti uguali. Quel film l’ho visto quando avevo credo diciassette anni e mezzo, non avevo idea di ciò che era successo ai palestinesi nel 1948, non sapevo della Naqba, della catastrofe. In prigione ho imparato che solo conoscendo il nemico lo puoi sconfiggere. Così ho studiato l’ebraico, la lingua del nemico, e poi ho approfondito la loro storia, ho anche visitato i campi di concentramento. Nella vita, più cose sai, meglio puoi agire. In arabo diciamo che quando impari qualcosa di nuovo cominci a soffrire, perché dopo non puoi più tacere. Ed è questo che è successo a me.

Come si svolge la tua giornata? Cosa stai facendo in questo difficile momento?

La nostra non è una vita quotidiana normale: per andare al lavoro devi passare i checkpoint e talvolta puoi metterci anche due-tre ore, è un disastro. Se sei studente, per raggiungere la scuola devi passare dal checkpoint di Anata, è quasi impossibile arrivare in orario. In Palestina non abbiamo il senso del tempo. Tra di noi ci diciamo: «Ci vediamo alle sei o forse alle nove» perché non possiamo saperlo prima. Immaginati di poterti aspettare di incontrare un checkpoint ogni minuto, quando sei in viaggio per andare a trovare la tua famiglia o quando rincasi dal lavoro; lo devi sempre preventivare, per cui non riesci mai a gestire il tempo, non sei libero di muoverti. In più non hai libertà di parola, vivi sotto una dittatura, sotto una brutale occupazione militare. In ogni momento potrebbero venire a prenderti e metterti in galera, senza accuse, anche per dieci anni! La chiamano “detenzione amministrativa”. Poi, dal momento che non sai le cose, non hai neppure un avvocato. Immagina, quando sentiamo parlare di democrazia, di diritti umani, di libertà di parola, noi sappiamo esattamente di cosa si parla: loro possono giocare con questi termini davanti al resto del mondo, ma non davanti a noi palestinesi. Dovrebbero confrontarsi su questo innanzitutto con noi, visto che siamo qui.

Si è molto parlato dell’inadeguatezza dei leader di entrambe le parti.

Si parla di “entrambe le parti” ma qui non ci sono due parti, ce n’è una sola, gli occupanti: un governo fascista e radicale. Non lo diciamo noi palestinesi, sono gli stessi israeliani a dirlo. Per noi è come se da settantacinque anni ci fosse lo stesso governo. Un governo che porta avanti l’occupazione, le detenzioni, le confische, che costruisce sempre più insediamenti, ruba altra terra, uccide altre persone, incarcera… Dal 1967 si stima siano stati incarcerati oltre un milione di palestinesi. Questo per dire che per noi sono tutti la stessa cosa. Ma questo governo attuale, sempre in base alle denunce fatte dagli israeliani, comprende anche due persone che in passato sono state accusate di terrorismo e incitamento all’odio dai tribunali israeliani. Penso a Itamar Ben-Gvir e a Bezalel Smotrich, per esempio. E loro sono i responsabili della sicurezza, te lo immagini?

Ora ci hanno vietato di andare nelle scuole a parlare ai ragazzini della nostra esperienza, di pace e riconciliazione. Per loro siamo molto pericolosi, e in effetti lo siamo, visto che ci contrapponiamo al loro programma di razzismo, odio e tenebre. Per questo ci combattono, accusando noi di essere terroristi. Un terrorista che mi accusa di essere terrorista è per me un grande onore, ma non è questo il punto: il punto è che noi rimaniamo determinati a diffondere il nostro messaggio di pace e riconciliazione contro questo brutale governo e continueremo fino a che non saranno costretti a vederci, a riconoscerci.

Sul lato palestinese fortunatamente ci sostengono, non hanno nulla contro di noi, siamo stati a visitare il presidente molte volte, tutte le autorità ci appoggiano, perché anche loro vogliono la pace, ma non sono loro ad avere potere. E come potrebbero? Ogni giorno nelle strade di qualsiasi città palestinese ci sono i soldati israeliani. Quindi come si può parlare di “entrambe le parti”? Anche il presidente palestinese ha spiegato che per spostarsi nella sua Ramallah gli serve un permesso rilasciato da israeliani e americani.

Vuoi aggiungere qualcosa?

Spesso quando parlo in pubblico concludo con le parole di Martin Luther King: alla fine ci ricorderemo non delle parole dei nostri nemici, ma del silenzio dei nostri amici. Per favore, non restate in silenzio.

(Una Città n° 301 / 2024 – aprile-maggio, traduzione di Stefano Ignone)

Da Doppiozero – È decisamente confortante assistere al ritorno in libreria, tra inediti e ristampe, degli scritti e dei diari di Susan Sontag, saggista, romanziera, drammaturga, cineasta, attivista di sinistra e femminista, molto famosa fin dagli anni Sessanta. Una mente multiforme, il cui pensiero, pur muovendosi nelle diverse pieghe della sua contemporaneità, supera in modo folgorante l’esame del tempo che passa, arrivando a noi con la ferma padronanza delle prospettive teoriche e l’ostinazione di un nucleo antagonistico di sorprendente agilità che punta dritto ai problemi, in ragione di un tenace desiderio di conoscenza.

I saggi raccolti in Sulle donne (a cura di David Rieff, Einaudi 2024) coprono gli anni dal 1972 al 1975, e li vorrei scorporare in due momenti per cercare di rendere conto di alcune fra le molte sollecitazioni e riflessioni di un tema sì ben identificato, ma variamente declinato, nel tempo e in paesi diversi. Naturalmente gli scritti sono tutti legati, più o meno sottotraccia, da un contesto che è costituito sempre, nell’orizzonte di lavoro di Sontag, di fatti, viaggi, incontri, libri e lotte. Scenario primo dei suoi bersagli sono, negli anni della guerra del Vietnam, il neoliberismo, l’anticapitalismo e l’antimperialismo, la sua postazione quella di un’intellettuale anticonformista e anti-ideologica, anche tra le femministe. Tre saggi e una lunga intervista definiscono il primo campo, con al centro il corpo delle donne, il secondo campo è costituito da un lungo e importante saggio (“Fascino fascista” del 1974, già ristampato in Sotto il segno di Saturno, Nottetempo 2023), da uno scambio polemico, di grande interesse, tra l’autrice e Adrienne Rich (poeta e saggista, suo un classico del femminismo, Nato di donna, 1976), e da un’intervista che riprende e rilancia alcuni momenti della storia intellettuale di Sontag.

Nella prima parte salta agli occhi con grande evidenza come il suo pensiero sia insieme per certi aspetti datato e per molti altri di estrema lungimiranza, il che significa che la lente storica con cui lo leggiamo oggi registra uno sguardo critico, finemente antropologico, in grado di cogliere elementi naturali, culturali, sociali ed economici propri del suo tempo, ma di rivelare anche, spesso, piccole o abbaglianti verità, balenio di intuizioni che ancora ci interrogano. Se prendiamo ad esempio il saggio di apertura, “Invecchiare: due pesi e due misure”, la messa a fuoco più rilevante riguarda la brutalità dell’asse patriarcale che, distribuendo a uomini e donne privilegi e potere in modo violento e dispari, rende l’invecchiamento femminile «osceno», perché quel corpo è ormai orfano di ogni potenza desiderante (attribuita solo alla giovinezza), e dunque soggetto a un giudizio sociale umiliante, una «demonizzazione della femminilità» che è arrivata persino a cristallizzarsi «in caricature mitiche come la megera, la virago, la vamp e la strega». Questo da un lato, ma dall’altro è la subalternità interiormente introiettata a rendere le donne complici attive di questa minorità. Distinguendo tra vecchiaia e invecchiamento, Sontag vede in quest’ultimo «un’ordalia dell’immaginazione – un malessere morale, una patologia sociale –» tale che la donna finisce per viversi con «vergogna» e «disgusto»; si innestano qui pagine ancora importanti sul teatro della femminilità, sulle forme di un’autorappresentazione asservita al gusto dominante (e dominato dall’uomo, con «regole» utili a rafforzare «le strutture del potere»), sull’acquiescenza delle donne, nutrita di bugie, riflesso penoso di un insultante paternalismo (ricordo le donne-specchio di Woolf, le donne-alibi di de Beauvoir). I profondi pregiudizi e gli inveterati privilegi maschili, che hanno costruito nei secoli un così radicato «tabù estetico», indicano chiaramente le forme di una manipolazione culturale tale da lasciare ben salda nelle mani degli uomini la leva del potere, perno e volano di ogni ragionamento sulla sessualità e sul corpo delle donne. Sesso, potere, soldi: non ne siamo uscite del tutto nemmeno oggi, se è vero che le donne vecchie sono diventate una buona fetta del mercato cosmetico mondiale da blandire, e le più giovani, afferma una recente indagine, chiedono come regalo per il loro diciottesimo compleanno interventi estetici soprattutto sul seno. Affari e profitti colossali.

Altri due scritti intitolati alla bellezza (Fonte di discredito o di potere e Come cambierà?) annodano un filo costante del suo pensiero, il rapporto tra estetica ed etica, e ripropongono la questione del potere, il potere, ben noto a tutte noi, della seduzione, con il suo volto bifronte, che per un verso garantisce il piacere dello scambio erotico e vitale, dall’altro si riduce a potere di “attrarre” e dunque nega se stesso, perché rinuncia a essere trasformativo della relazione. Se “farsi bella” diventa un lavoro, un dovere di sopravvivenza in un mondo diseguale, allora la bellezza stessa diventa in definitiva un’altra fonte di auto-oppressione. Ma ancor peggio, ci racconta il secondo articolo, la bellezza e il consumismo vanno a braccetto, perché non solo la bellezza naturale non esiste, ma in quanto mito è una perversa invenzione maschile che imprigiona le donne e, «democratizzandosi», fa pensare che si possa e si debba acquisirla per diventare «uniche, eccezionali».

È il vecchio gioco del divide et impera, pensiero che torna prepotente in “Il terzo mondo delle donne”, assieme ai temi già in parte nominati, dal mai intaccato privilegio maschile, ai pregiudizi, all’oppressione millenaria che radica una delirante idea proprietaria del corpo dell’Altra e che, in Occidente, a fronte dell’avvento della libertà femminile, arriva troppo spesso al femminicidio. Necessità dunque di una rivoluzione economica, culturale, linguistica, necessità che il cambiamento passi da una nuova coscienza femminile, necessità di un’etica sessuale non più incardinata nell’eterosessualità, lotta alla mistica della natura (non a caso La mistica della femminilità, di Betty Friedan, è del 1963) e al biologismo, lotta per il potere e non per la parità, lotta agli stereotipi sessuali sul lavoro…

Alcune questioni di questo lungo ragionamento tornano in modo aspro anche nella seconda parte del libro, a partire da “Fascino fascista” in cui, con lucida passione, Sontag mette a fuoco l’intreccio perverso di etica ed estetica sia nel libro dedicato ai Nuba sia nei film documentari di Leni Riefenstahl (in particolare Il trionfo della volontà e Olympia), sottolineandone una continuità tale da non permettere da non permettere alcuna riabilitazione in nome dell’arte (è una tematica questa che ritroviamo nella conversazione finale per la rivista “Salmagundi”, con richiami a Kracauer e Benjamin). Premesso che quei due documentari – scrive Sontag – «sono indubbiamente magnifici […] ma non hanno una reale importanza nella storia del cinema come forma d’arte», tuttavia un «giro di ruota culturale» non può rendere «irrilevante» il passato nazista di Riefenstahl, l’insieme di opere tanto funzionali e fondative dell’estetica fascista da essere finanziate direttamente da Hitler e Goebbels: masse «in inquadrature panoramiche», «primi piani in cui è isolata una singola passione, una singola, perfetta sottomissione», estasi della vittoria, culto del capo, e ancora i corpi nudi dei primitivi, i bellissimi Nuba (un’intera comunità destinata all’estinzione), e infine il legame intrinseco e «naturale» fra fascismo e sadomasochismo. Non si salva il passato di una donna solo perché è una donna.

La lettura di questo articolo sul New York Times stranisce Adrienne Rich, che obietta a Sontag di non essere ben informata sulle proteste femministe per la presenza di questi film nei diversi festiva, ma soprattutto per aver tradito il saggio precedente, Il terzo mondo delle donne, dopo il quale molte si aspettavano opere con «un rigoroso rispecchiamento dei valori femministi». Ridotto a «puro esercizio intellettuale», questo scritto secondo Rich mostra Sontag vittima di una vera scissione tra l’acutezza intellettuale e la base emotiva della conoscenza, che è la forma in cui meglio si profila la colonizzazione patriarcale. La replica è esplosiva e tagliente, mostra lo scatto orgoglioso di una mente indipendente, sempre lontana dal cercare approvazione o dall’inchinarsi a qualsiasi dettato ideologico, indica con veemenza una «persistente aberrazione della retorica femminista: l’anti-intellettualismo», afferma che il «discredito delle virtù normative dell’intelletto […] è una delle radici del fascismo». La lotta alla misoginia, che passa dal separare le «eccezionali» da tutte le altre, come ha già scritto Sontag, vive della consapevolezza che una cosa è accettare «con compiacimento» il proprio privilegio partecipando «all’oppressione di altre donne», dunque tradendole, altra cosa è rivendicare la libertà di pensare, di distinguere, di contestualizzare, per non sacrificare tutto a una generica «storia patriarcale» («Sono una femminista militante, non una militante femminista», leggo nel diario). Quel «sospetto nutrito contro il pensiero e le parole rientra a pieno nella grande tradizione dell’anti-intellettualismo americano» ribadirà ancora nel 2002, e le donne non devono peccare dello stesso errore. Errore ancora attuale, sul quale molto avremmo tutti da pensare, così come, per una migliore comprensione, va contestualizzata la sua polemica contro il separatismo, in cui l’affinità con Simone de Beauvoir le impedisce di capire la necessità storica di quel taglio generatore di libertà femminile che dobbiamo a Irigaray e Lonzi. Ora l’ultimo nodo da rilevare, con rispetto e discrezione, riguarda quella crepa interiore, intuita da Rich, e che la lettura dei diari (Rinata e La coscienza imbrigliata nel corpo, Nottetempo) conferma come sua dolorosa ferita, a riprova che se il pensiero vitale e polemico di Susan Sontag è invecchiato benissimo, certo il suo corpo di donna ha pagato un alto prezzo all’eresia della sua mente.

Da Doppiozero – Siamo in un’epoca di “caos cognitivo” che si è preso molti cervelli nel mondo. Spesso anche quelli che si ritenevano cervelli migliori, a sinistra, paiono brancolare nel buio e non comprendere cosa accade veramente nella realtà quotidiana. Concordemente nei luoghi di osservazione indipendenti, si pensa sia perché la sinistra istituzionale si è adattata all’andamento confuso del cosiddetto capitalismo neoliberista finanziario. Il fatto è che questo adattamento collabora con la fine del pensiero critico attraverso l’elaborazione del cosiddetto “politicamente corretto”, altrimenti pensabile come morale pubblica imposta soprattutto attraverso i media, social compresi. Il combinato disposto caos cognitivo e politicamente corretto conduce velocemente in uno stato mentale e comportamentale che potremmo definire di dominio, poiché si esplica soprattutto attraverso slogan, parole d’ordine, formule morali, ma soprattutto al fumo con cui si ricopre ogni cosa grazie all’attivazione continua dell’appello ai “diritti”. Si dimentica, allo stesso tempo e a sinistra, che nel sistema giuridico occidentale i “diritti” sono individuali e si richiamano strettamente a proprietà individuali. Tutto questo, fino al femminismo della seconda ondata compreso, le donne lo avevano chiaro, perché in tutto questo non erano mai state considerate, grazie al cielo. Si dà il caso che, oggi, il femminismo come soggetto politico, si sia diviso in correnti, in pratiche differenti, in prese di posizione molto distanti tra loro. Tutto grazie al mercato neoliberista dei diritti. Così sinistra istituzionale e femminismi difensori della libertà individualistica si trovano d’accordo nel dare addosso al femminismo della origini che “non crede di avere (solo) dei diritti”.

Questa premessa si è resa necessaria per dare molti motivi alla necessità di raccogliere dati e testimonianze confluiti nel libro Vietato a sinistra. Dieci interventi femmnisti su temi scomodi, curato da Daniela Dioguardi, femminista della differenza sessuale, cioè del femminismo della libertà non individualistica. L’eccellente introduzione di Francesca Izzo, spiega molto chiaramente come, lei e molte altre, si siano trovate allontanate «da partiti e organizzazioni della sinistra a cui erano appartenute o avevano guardato con simpatia». La mia premessa dà una traccia per capire i motivi di questo allontanamento che trova ulteriori ragioni nella lacerazione prodotta, anche tra donne, da temi e appelli “divisivi”. Mi sembra chiaro che la divisione deve ringraziare i dettami politicamente corretti che ammaliano anche una parte delle femministe, creando nella mente una forbice dicotomica. Eccone alcuni: affido condiviso che “cancella la madre”; prostituzione come “lavoro” parificato agli altri neoliberisti; maternità surrogata come diritto ad avere figli a prescindere dall’unità psicofisica materna; identità di genere che nega l’unità psicofica di ogni corpo; gender per tutti, a prescindere se c’è una donna di sesso femminile o una donna di gender femminile, e via così di dicotomia in dicotomia, di identità spacciate per fluidità, ecc. ecc. L’inaccettabilità, sia logica sia umana, di queste risorse della confusione del presente, risulta sottolineata da un’evidenza: ogni dicotomia che si presenti nella storia tende a cancellare le donne di sesso femminile dalla cittadinanza e dall’autorità guadagnata dal pensare radicalmente. Forse una nuova era che tende all’insignificanza del soggetto sessuato? Forse un revanchismo misogino di maschi che intendono riprendersi di nuovo l’autorità assoluta?

Fatto sta che le autrici del libro si sono sentite nella necessità di mettere nero su bianco «i problemi che ci stanno di fronte, non affrontabili accumulando e sovrapponendo diritti. Si tratta invece di rivoluzionare i fondamenti, i paradigmi della cittadinanza perché l’ingresso delle donne significa la rottura e lo sconvolgimento defgli assetti istituzionali», compreso tutto quanto supporta questi assetti, come fa il “politicamente corretto”. Le esperienze e i contributi di riflessione contenuti nel libro (scritti da Silvia Baratella, Marcella De Carli Ferrari, Lorenza De Micco, Anna Merlino, Daniela Dioguardi, Caterina Gatti, Cristina Gramolini, Roberta Vannucci, Doranna Lupi, Laura Minguzzi, Laura Piretti, Stella Zaltieri Pirola) cercano di rispondere alla domanda: perché per porre fine alle discriminazioni e alle violenze si deve annullare la differenza sessuale? Scrive Francesca Izzo: «Nei fatti ciò che viene dissolto è la donna (dell’uomo non se ne parla…) per raggiungere un’uguaglianza secondo imperativi sociali pensati e voluti dagli uomini per gli uomini». Perciò chi, a sinistra, aderisce ai veti all’espressione della dissidenza rispetto agli “Imperativi sociali”, chi cerca di marginalizzare le femministe del pensiero della differenza, dovrebbe prendersi la responsabilità politica e storica di rappresentare la misoginia contemporanea. «Cosa succede quando la sinistra cosiddetta progressista si chiude al confronto su alcuni temi e l’inclusione diventa dogma? Oltre a lasciare spazio in maniera allarmante alla destra sugli stessi temi, rischia di contribuire all’affermazione di nuove censure e ingiustizie, anziché allo sviluppo di nuove pratiche democratiche». Non lasciamo ai posteri l’ardua sentenza. I tempi che corrono hanno già giudicato.

Vietato a sinistra. Dieci interventi femministi su temi scomodi, a cura di Daniela Dioguardi, introduzione di Francesca Izzo, Castelvecchi, pp. 91, euro 14,00

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Nellie Bly

Da il manifesto – Il giornalismo sotto copertura lo ha inventato una donna. Nel 1880 Nellie Bly (nella foto), pseudonimo di Elizabeth Cochrane, si finse pazza per farsi internare nell’ospedale psichiatrico di Manhattan. Da dentro poté vedere e raccontare per il New York World di Joseph Pulitzer le condizioni in cui erano tenute le ricoverate. Donna era Barbara Ehrenreich, giornalista, scrittrice e attivista che per mesi lavorò in incognito per un’impresa di pulizie, esperienza raccontata in Una paga da fame: come (non) si arriva a fine mese nel paese più ricco del mondo. Quando è morta, nel 2022, il New York Times l’ha definita una «Esploratrice del lato oscuro della prosperità».

Donna è la francese Florence Aubenas che nel 2009 si iscrive a un ufficio di collocamento di Caen per svolgere un’inchiesta sulla reale situazione dei disoccupati in Francia. Ne uscirà un libro intitolato Le quai de Ouistreham, da cui è tratto un film con Juliette Binoche e diretto da Emmanuel Carrère. Donna è la giornalista di Fanpage che si è finta adepta di Gioventù nazionale per raccontare la realtà razzista e antisemita che anima il gruppo giovanile del partito di Giorgia Meloni.

Poiché nel mio piccolo anch’io ho dieci anni di esperienza come inchiestista in incognito, so che cosa significa infilarsi in luoghi che sarebbero di difficile accesso se ci si presentasse con la reale professione. Al di là dell’identità da darsi, dell’aspetto o dell’atteggiamento da assumere, il giornalismo undercover è prezioso perché può raccontare una realtà dal di dentro, senza maschere, senza filtri. Si può scoprire l’imbroglio, la corruzione, il ladrocinio, la violenza, oppure viene a galla il non detto che è sotto gli occhi di tutti, ma che si preferisce ignorare.

È, questa, l’esplorazione del lato oscuro di cui parla il New York Times e proposito della Ehrenreich che non svelò nulla di illecito, ma gettò in faccia all’America il suo lato rapace, la sua capacità di sfruttare il lavoro senza farsi domande perché così va il mondo, perché la legge te lo permette e quindi ti assolve.

Qui devo dirlo, c’è una diversa sensibilità anche fra giornalisti e per spiegarlo mi tocca raccontare un’esperienza personale. Quando lavorai in incognito come cameriera ai piani in un grande albergo di lusso a Milano, proposi l’inchiesta a un importante settimanale di politica e attualità le cui firme erano soprattutto di uomini. Mi risposero che sì, era interessante, ma in fondo raccontava solo che culo si fanno le cameriere d’albergo e lo rifiutarono perché non faceva notizia. Pubblicai con un’altra testata, anche quella con parecchie firme maschili, ma più sensibili agli anfratti della società e vinsi il premio cronista dell’anno per la Lombardia. Entrambe le testate erano di sinistra.

Se le inchieste di Günter Wallraff, che si finse operaio, alcolista, studente in cerca di alloggio, o quelle di Fabrizio Gatti che si è infiltrato nelle rotte dell’immigrazione irregolare, nel caporalato dell’agricoltura e dell’edilizia hanno svelato le illegalità e irregolarità di un occidente a cui i disperati fanno comodo, quelle delle giornaliste finte donne delle pulizie o finte pazze o finte lavoratrici precarie mostrano la parte indecentemente tollerata della società in cui viviamo.

È una realtà che a volte si nutre di indifferenza, altre viene subìta o combattuta, altre ancora è votata. Quando qualcuno fa cadere le maschere si produce un gioco di specchi e siccome non sempre gli specchi rimandano un’immagine edificante, a qualcuno fa più comodo additare non ciò che è stato svelato, ma chi ha tolto quel velo.

Da il manifesto – E se un premio internazionale per la pace fosse assegnato, in questo 2024, all’unico movimento al mondo che vede impegnati ex combattenti e obiettori di coscienza da entrambi in fronti di un conflitto ancora in corso? Intanto, ai «Combatants for Peace», associazione bi-nazionale di israeliani e palestinesi che dal 2006 porta avanti una storia di pacifica resistenza, è dedicato il libro Combattenti per la pace. Palestinesi e israeliani insieme per la liberazione collettiva, curato da Daniela Bezzi (con contributi di Ilaria Olimpico, Luisa Morgantini e Sergio Sinigaglia), per Multimage edizioni. E un campo per la pace si svolgerà in Israele il 1° luglio a opera di Combatants e di altre organizzazioni (fra cui Standing Together, Ir Amim, Peace Now).

La speranza attiva è sopravvissuta anche al 7 ottobre e a quel che ne è seguito a Gaza, confermano le due direttrici dell’associazione, Rana Salma ed Eszter Koranyi. I militanti auspicano una soluzione di «mutuo rispetto e riconoscimento, che possa restituire ai cittadini israeliani e palestinesi una vita di libertà, sicurezza, democrazia e dignità in entrambe le loro patrie». Fin dagli incontri segreti durante la seconda Intifada fra alcuni palestinesi che stavano combattendo o erano stati in carcere, e alcuni israeliani che erano nell’esercito, «si era arrivati alla conclusione che non esistono soluzioni militari» spiega Sulaiman Khatib, uno dei fondatori. Via via si sono aggiunte persone che non avevano partecipato ad attività militari.

Il lavoro comune dei Combatants si svolge anche sul terreno, nella cosiddetta area C della Cisgiordania, per aiutare le comunità palestinesi durante i raccolti e mitigare le aggressioni dei coloni. E poi sostegni economici alle vittime, visite organizzate, seminari formativi come le Freedom Schools, tentativi diplomatici… Il perno sono due annuali, solenni commemorazioni, capaci di radunare decine di migliaia di persone: la Joint Memorial Ceremony che, alla vigilia della celebrazione ufficiale della nascita dello Stato di Israele, introduce il concetto di un memoriale dedicato ai caduti di entrambi i fronti; e il ricordo della Nakba palestinese, perché pace e riconciliazione implicano un confronto con la storia. Nel 2024, per ragioni di sicurezza, le due cerimonie sono state preregistrate e seguite in streaming in tutto il mondo.

Le storie personali di quindici fra i membri dell’associazione si intrecciano con le tormentate vicende israelo-palestinesi nei decenni. Maia Hascal non approvava l’obiezione di coscienza dei soldati israeliani finché non ha trascorso settimane nei territori occupati. Galia Galil, la cui nonna nata a Jaffa era ebrea ma si definiva palestinese, si arruola a diciott’anni ma davanti alla violenza cerca un’altra via e un cartello pacifista per strada le fa capire che «il momento per fermare la guerra è durante la guerra stessa». Jamil Qassas ha partecipato all’Intifada e ha perso un fratello per mano dell’esercito occupante, ma un giorno vede sua madre piangere davanti alla notizia di bambini israeliani uccisi in un attentato, e da allora lotta «per la libertà per il mio popolo, ma in modo pacifico». Sulaiman Khatib negli anni trascorsi nelle carceri israeliane capisce che esistono narrazioni opposte del conflitto (e questa è una presa di coscienza comune a molti membri) ma che «apparteniamo alla stessa terra» e «abbiamo nemici comuni: odio, paura, trauma collettivo».

Chen Alon, diventato negli anni da soldato un «esperto militare dei territori occupati», alla fine firma la petizione dei refusenik (soldati che rifiutano di servire nei territori) e inizia il cammino che fonda i Combatants. Nathan Landau, arruolato nell’esercito israeliano, capisce che la guerra non è affatto romantica, è paura e disagio psico-fisico; al funerale di un amico riflette: «1948, 1967, 1973, prima Intifada, seconda Intifada, la guerra sarà sempre il nostro orizzonte se non fermiamo la spirale». Per Bassam Aramin, militante fin da piccolo, il confronto con una guardia carceraria è l’inizio di una scoperta che lo porta a incontrarsi con ex soldati israeliani. Nel 2007 sua figlia di dieci anni viene uccisa fuori dalla scuola. Bassam lotta per la giustizia, ma continua il dialogo perché «è stato un soldato israeliano a sparare ad Abir, ma cento ex soldati hanno costruito un giardino a lei dedicato».

«Ai primi incontri segreti c’ero anche io», scrive Luisa Morgantini. Era l’epoca in cui le manifestazioni pacifiche palestinesi venivano represse e Hamas colpiva i civili con le azioni suicide. Il risultato della violenza era devastante; e Israele continuava a espandere le proprie colonie (illegali). Proprio in quel contesto, fiori sbocciano. Familiari delle vittime israeliane e palestinesi si uniscono nel dolore. Nel 2004 nasce Breaking the Silence, soldati che escono dall’omertà. Si mobilitano politici delle due parti, viene anche presentato un Piano di pace. Certo sui Combatants come sulle altre forze pacifiche – minoritarie – piovono le accuse, sia in Israele («traditori») che in Palestina («normalizzatori»). Ma «oggi più che mai c’è bisogno di chi si oppone alla violenza, per una pace giusta e l’autodeterminazione del popolo palestinese, libero da apartheid, colonizzazione e occupazione militare».

Ricostruire la storia travagliata di quei popoli, per superare la quale occorrono i «costruttori di ponti» capaci nelle loro comunità di «tradire la compattezza etnica» mettendo tutto in discussione (anche se stessi): ecco il compito che nel libro spetta a Sergio Sinigaglia. Il conflitto non inizia con la creazione dello Stato di Israele nel 1948 ma è secolare. Negli ultimi anni, poi, «si sono viste tutte e due le società subire un processo di involuzione: una sempre più avvolta in una logica militarista e oscurantista; l’altra, un tempo laica, ormai egemonizzata dall’integralismo islamista». Ma i Combatants sono un seme per la futura realtà. Sarebbe piaciuto ad Hannah Arendt il cartello che compare nella foto che chiude il libro: «Nei tempi più bui, dobbiamo rifiutare di perdere la nostra umanità – altrimenti che senso ha vivere?».