Un grigio pomeriggio invernale, ragazzi e ragazze, giacche a vento e zaini sulle spalle, si radunano sul lato destro della Stazione Centrale di Milano. Qualche sorriso, qualche battuta, non di più: sono molto compresi del viaggio che stanno per intraprendere. Non partono per la settimana bianca, sanno che li aspetta il Treno della memoria. Quando il gruppo è completato ci si incammina nei sotterranei del binario 21. Un po’ di trambusto, possono vedere uno dei vagoni merci, poi il silenzio: chi ha organizzato il viaggio lascia la parola a chi su quel treno è salita bambina, decenni prima.

Il viaggio è lungo, più di ventidue ore durante le quali si legge, si discute, una classe mette in scena una piccola rappresentazione a partire dalle parole di diari e memorie di chi è stato deportato. Il sonno arriva quasi all’alba.

Il lavoro fatto nei mesi precedenti li ha preparati a vivere un’esperienza da cui torneranno trasformati: hanno studiato e ricercato, approfondito incontrando ex-deportati ed ex-deportate.

Il 27 gennaio è tutto dedicato alla visita dei Campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau: le poche baracche ricostruite, il ‘museo’ con l’agghiacciante raccolta di quello che rimane di migliaia di vite.

Chiedono alle guide e alle docenti spiegazioni o scambiano emozioni, con voci sommesse, per non profanare il silenzio e lasciare parlare il vento gelido.

Fotografie? Sì, certo hanno scattato fotografie per documentare il viaggio: immagini che mostrano il vuoto degli spazi e il silenzio, o le scritte e gli oggetti tante volte visti riprodotti nei libri che ora, proprio perché quasi toccate con mano, assumono una pregnanza diversa. Hanno fotografato anche le compagne e i compagni in gruppo, di schiena: però i protagonisti, lì, non erano loro.

Selfie? Sì, certo la sera a Cracovia, quando la tensione in parte si è allentata.

Durante il viaggio di ritorno sul treno si formano gruppi spontanei per rielaborare ciò che avevano vissuto, cresce la consapevolezza che quell’esperienza deve essere conosciuta da chi non ha potuto partecipare: si comincia a pensare cosa fare.

Il viaggio per le ragazze e i ragazzi non è finito: sentono che ora tocca loro diventare testimoni in un passaggio tra generazioni. Riordinano le foto e le commentano, approfondiscono le diverse tipologie di deportazione, producono un video in cui si intrecciano le loro parole con quelle lette nei libri. Gli incontri con le testimoni hanno generato in loro il desiderio di condividere con altri e altre lo spessore e la preziosità dell’esperienza, consci che la ricchezza conoscitiva e l’ampiezza emozionale legate a quegli incontri siano un’occasione da spartire con altri e altri, in un’assemblea aperta non solo alla scuola.

Negli anni successivi gli e le studenti hanno assunto il ruolo attivo di “testimoni”: in occasione della Giornata della Memoria, hanno collaborato e realizzato una lezione spettacolo sulla Shoah; hanno organizzato una serie di incontri, sapendo diversificare impostazione e linguaggio, sull’esperienza del viaggio ad Auschwitz e sulle deportazioni, rivolti sia a compagni e compagne di altre classi della scuola e di altri istituti, sia anche in qualche occasione pubblica.

Questa esperienza l’ho ripetuta con le classi più volte negli anni.

Una lettera aperta, firmata da almeno 460 intellettuali, celebrità e personaggi politici ebrei e israeliani, invita le Nazioni Unite e i capi di Stato ad affrontare «le condizioni di fondo dell’occupazione, dell’apartheid e della negazione dei diritti dei palestinesi» che sono assenti dall’accordo di cessate il fuoco di Gaza del presidente degli Stati Uniti Trump

Un gruppo di importanti leader e celebrità ebraiche chiede ai leader mondiali di chiamare Israele a rispondere delle sue azioni a Gaza e di usare il cessate il fuoco con Hamas come punto di svolta verso una pace giusta e duratura.

In una lettera aperta intitolata “Gli ebrei chiedono azione” pubblicata mercoledì, l’ex presidente della Knesset e presidente israeliano ad interim Avraham Burg, l’ex negoziatore israeliano Daniel Levy, la scrittrice canadese Naomi Klein e l’autore Peter Beinart sono affiancati da almeno 460 personalità pubbliche ebraiche che sollecitano sanzioni contro Israele e l’applicazione del diritto internazionale.

La lettera, indirizzata al Segretario Generale delle Nazioni Unite e ai capi di Stato di tutto il mondo, rappresenta il primo appello coordinato di questo tipo da quando il cessate il fuoco è entrato in vigore il 10 ottobre.

«È con grande sollievo che accogliamo con favore il cessate il fuoco», si legge nella lettera. «Eppure non ci dovrebbero essere dubbi sulla fragilità di questo cessate il fuoco: le forze israeliane rimangono a Gaza, l’accordo non fa alcun riferimento alla Cisgiordania, le condizioni di base dell’occupazione, dell’apartheid e della negazione dei diritti dei palestinesi rimangono irrisolte».

Tra i firmatari figurano artisti, autori e attivisti come gli attori Ilana Glazer, Hannah Einbinder e Wallace Shawn, i registi premi Oscar Jonathan Glazer e Yuval Avraham, i comici Eric André e Leo Reich e lo scrittore premio Pulitzer Benjamin Moser.

Versione originale inglese:

New York – A group of prominent Jewish leaders and celebrities are calling on world leaders to hold Israel accountable for its actions in Gaza and to use the cease-fire with Hamas as a turning point toward a just and lasting peace.

In an open letter titled “Jews Demand Action” released Wednesday, former Knesset Speaker and interim Israeli President Avraham Burg, former Israeli negotiator Daniel Levy Canadian writer Naomi Klein and author Peter Beinart, are joined by at least 460 Jewish public figures urging sanctions on Israel and enforcement of international law.

The letter, addressed to the UN Secretary-General and global heads of state, marks the first coordinated appeal of its kind since the cease-firetook effect on October 10.

It is with great relief that we welcome the cease-fire”, the letter reads. “And yet there should be no doubt that this cease-fire is fragile: Israeli forces remain in Gaza, the agreement makes no reference to the West Bank, the underlying conditions of occupation, apartheid and the denial of Palestinian rights remain unaddressed”.

Signers include artists, authors and activists such as actors Ilana Glazer, Hannah Einbinder and Wallace Shawn, Oscar-winning directors Jonathan Glazer and Yuval Avraham, comedians Eric André and Leo Reich and Pulitzer Prize-winning writer Benjamin Moser.

da tvxs.gr,

Venerdì 17 ottobre 2025 il segretario dell’ufficio provinciale di Teheran per l’“Imposizione del bene e la proibizione del male” ha annunciato la creazione di un nuovo “Centro operativo per la modestia e l’hijab”, insieme all’organizzazione e all’attivazione di «oltre 80.000 volontari addestrati» e 4.575 istruttori e assistenti giudiziari (noti come zabet-e qazaei).

I funzionari lo hanno presentato come una campagna socio-culturale, che sarà condotta in collaborazione con istituzioni culturali e per la sicurezza. Non si tratta di una voce: molti media iraniani hanno pubblicato dichiarazioni sull’argomento.

Si tratta di una nuova forma di polizia morale? Non esattamente, ma è stata progettata per svolgere un lavoro simile attraverso una struttura diversa. Il cosiddetto “Setad” (nuova unità di polizia) è un organismo di elaborazione e coordinamento delle politiche che opera a livello nazionale sulla base della legge del 2015 “Misure a sostegno di coloro che impongono il bene e proibiscono il male”.

La legge è chiara: la “segnalazione” verbale o scritta è consentita a qualsiasi cittadino, ma l’applicazione pratica della misura è di esclusiva responsabilità dello Stato. In altre parole, i volontari non possono arrestare, trattenere o usare la forza.

Tuttavia, la legge consente ad alcuni assistenti di giustizia certificati, solitamente formati attraverso il Basij e certificati come “funzionari giudiziari”, di raccogliere documentazione e inviare segnalazioni dirette alla polizia e agli uffici della procura.

Il Setad non ha veri e propri poteri di polizia, ma costituisce una rete. Si tratta essenzialmente di un sistema coordinato di segnalazione, documentazione e trasmissione più rapida dei casi alle autorità, non di furgoni che prelevano le donne dal marciapiede.

Perché adesso?

Perché il regime è intrappolato tra la lettera della legge così e una realtà sociale che non può far tornare indietro. Dopo la rivolta di “Donna, Vita, Libertà” le leggi sull’obbligo dell’hijab non sono mai state abrogate, ma la loro applicazione non può essere garantita ed è contestata.

Alla fine del 2024, il governo ha annunciato il congelamento il nuovo disegno di legge sulla “Modestia e l’hijab” a seguito di consultazioni interministeriali; il vicepresidente Shahram Dabiri ha dichiarato che il Parlamento non dovrebbe «per il momento» mandarlo avanti, mentre a maggio 2025 il presidente del Parlamento Mohammad-Bagher Ghalibaf ha rivelato che un ordine scritto del Consiglio Supremo di Sicurezza Nazionale intimava al Parlamento di non promulgare la nuova legge. In altre parole: il testo esiste, ma è stato “congelato” dalla massima autorità per la sicurezza.

Questa sospensione ha messo in luce fratture interne sistema. L’importante esponente conservatore Mohammad-Reza Bahonar ha dichiarato apertamente che il disegno di legge sull’obbligo dell’hijab «non è più legalmente applicabile», un’ammissione sorprendente da parte di un fedele del regime.

Allo stesso tempo, i rappresentanti della Magistratura insistono sul fatto che le vigenti normative sull’hijab «restano in vigore». La contraddizione non è superficiale: rivela un vicolo cieco, in cui lo Stato emana leggi che non riesce a imporre alla società civile, e ciascuno dei vari centri di potere improvvisa.

Il funzionamento del nuovo “Centro Operativo”

Il regime sta spostandosi dalla repressione per le strade (il classico modello della polizia morale) a un ibrido di “vigilanza” organizzata, sanzioni amministrative e sorveglianza digitale.

Dal 2023-24, le autorità hanno ripristinato le pattuglie, ma hanno introdotto anche misure di controllo “intelligenti”: uso massiccio di telecamere a circuito chiuso, monitoraggio delle targhe, riconoscimento facciale nelle università e l’app NAZER che consente a funzionari e cittadini di denunciare “infrazioni” all’interno di auto e sui mezzi di trasporto.

I proprietari ricevono SMS automatici che li avvisano che verranno sottoposti a multe o al sequestro del veicolo. I rapporti delle Nazioni Unite nel 2025 confermano questa svolta verso il controllo digitale: ora droni, app e flussi di dati supportano l’imposizione dell’hijab, mentre il pubblico la rispetta sempre meno. Il piano Noor del 2024 dimostra come si possano applicare rapidamente questi meccanismi.

Il controllo è ripristinato?

Non proprio. Le strade di Teheran assomigliano a un referendum perpetuo, con comportamenti diffusi di disobbedienza nonostante le periodiche repressioni. Per questo i funzionari adottano un modello di governance che cerca di disciplinare il rispetto della legge: volontari che avvertono e registrano, assistenti che segnalano e intensificano i controlli, telecamere e app che consentono di punire senza arresti spettacolari. Si applica la legge attraverso procedure burocratiche e pixel, non attraverso la persuasione.

Una situazione che ricalca l’esempio delle patenti per motocicli alle donne. Anni fa, il Tribunale Amministrativo dell’Iran ha stabilito che non esisteva alcuna base giuridica per vietare alle donne di ottenere la patente. Tuttavia, la polizia stradale continua a sostenere che “la legge” lo vieta. Solo il mese scorso, un ex-vicecapo della polizia stradale ha ammesso ancora una volta che non esiste uno specifico divieto legale, ma solo uno per ragioni pratiche.

Questo è lo stesso schema: la legge tace, l’applicazione rimane rigida, i diritti sono «teoricamente possibili», ma se ne nega la fruibilità. Il nuovo Centro Operativo si inserisce perfettamente in questa impasse amministrativa.

La violenza strutturale contro le donne

Questa politica si inserisce in un contesto più ampio di violenza strutturale contro le donne. Un rapporto del Centro per i Diritti Umani in Iran (gennaio 2025) ha registrato un aumento dei femminicidi e la mancanza di una legge protettiva completa, pene irrisorie per i “delitti d’onore”, una legislazione che rafforza la tutela maschile e una rete inadeguata di case-rifugio e di assistenza per le donne.

Parallelamente, organizzazioni internazionali hanno segnalato un aumento generalizzato delle esecuzioni capitali nel 2024, comprese quelle femminili, nel contesto di un clima generale punitivo e repressivo. L’imposizione dell’hijab rientra in questo contesto.

L’economia e la politica del corpo

La politica del controllo sul corpo delle donne è sostenuta dall’economia. Nel 2024 in Iran le donne erano solo il 13,4% della forza lavoro, contro il 66,3% degli uomini (secondo la Banca Mondiale e l’ILO), uno dei tassi più bassi a livello mondiale. Non si tratta di una “preferenza culturale”, ma di una scelta politica: diritto di famiglia, modalità di assunzione e precarietà del lavoro inficiano l’indipendenza economica delle donne. Uno Stato che proclama la “modestia” e ostacola l’accesso al lavoro e alla sicurezza delle donne produce economicamente la disuguaglianza che poi disciplina attraverso il codice di abbigliamento.

Quindi cosa sta succedendo?

Le autorità stanno cercando di risolvere un problema di legittimità attraverso la burocrazia. La polizia morale si fa ancora vedere di tanto in tanto, ma ad un costo politico alto, e provoca reazioni. Il Centro Operativo sotto il Setad promette qualcos’altro: una rete burocratico-digitale che sposta la responsabilità all’esterno (sui “cittadini”), standardizza la documentazione (tramite assistenti) e automatizza le sanzioni (tramite telecamere e app).

Legalmente, i volontari non possono arrestarti; praticamente, possono assediarti con una rete di segnalazioni che porta a multe, avvisi o rinvii a giudizio, ed è esattamente questo lo scopo.

Due dure verità

La prima è che lo Stato ha perso l’egemonia sulla vita quotidiana e sull’immagine delle donne; il “congelamento” della nuova legge è una tacita ammissione di questa sconfitta.

La seconda è che il regime non ha concesso diritti, ma sta riducendo la visibilità della coercizione aumentandone l’efficacia con vari nuovi mezzi, oltre ai manganelli. Se vi chiedete se questo sia il “ritorno della polizia morale”, non cogliete il punto: il modello è stato riprogettato. I vecchi furgoni non sono scomparsi del tutto; il nuovo modello trasforma ogni telefono e ogni telecamera in un’auto di pattuglia. E un “Centro Operativo” a Teheran cerca di mantenere in funzione questa macchina, mentre il Parlamento e il Consiglio di Sicurezza Nazionale discutono se esista una base giuridica.

In breve, il Setad non è formalmente una forza di polizia, ma costituisce il sistema operativo che diffonde l’attività poliziesca in tutta la società. E al momento, questo è il modo principale con cui il regime cerca di recuperare un controllo che non può più imporre per le strade.

(*) giornalista e attivista iraniano che vive in Grecia

«Non esiste un punto di vista femminista». «…Sono disposta a perdere ogni coerenza teorica per restare coinvolta nella realtà che cambia».

Due citazioni, tra le tante, nella giornata, venerdì scorso, ospite il Comune di Milano, dedicata al pensiero e alla pratica politica di Lia Cigarini, nell’ambito dei 50 anni della Libreria delle donne.

La prima è in un documento che all’apertura della Libreria, nel 1975, dice come vanno raccolti i «testi di teoria e pratica politica». È molto importante raccogliere libri e ogni scritto che documenti «il sapere conquistato dalle donne», ma sarebbe «catastrofico se questo sapere venisse assunto come ideologia». «Invece di produrre idee attraverso la modificazione collettiva della realtà ci si accontenta di assorbire una visione del mondo…». E la passione per il cambiamento della realtà torna in un testo del 2018 per il lavoro della rivista Via Dogana (c’erano state le elezioni nazionali, il successo del centrodestra e dei 5Stelle: e poi il governo “giallo-verde”).

La vita politica di Cigarini era iniziata presto, nella Federazione giovanile del Pci milanese, ma subito rivolta al femminismo, nel gruppo Demau (Demistificazione Autoritarismo Patriarcale), dove scriverà con altre il fondamentale testo Il maschile come valore dominante (1968).

Il titolo del convegno, “Aprire la porta alla parola e alla libertà”, sintetizza una pratica politica basata sulla relazione tra donne, sulla presa di coscienza della propria “differenza” che “apre” al mondo e al desiderio cambiamento. La leva è il linguaggio.

Una «sovversione», come ha detto Stefania Tarantino, filosofa e musicista, un «arieggiare» che porta vento nuovo «nelle stanze del logos e della politica». Un capovolgimento «dal basso», incarnato nei corpi. Relazioni dove giocano disparità e autorità, quali «figure dello scambio»: l’arte di confliggere in modo non distruttivo. Concetto tornato molte volte in questi tempi di guerra.

Lia è avvocata, e un pensiero originale – ne ha parlato Angela Condello (Università di Messina) – l’ha dedicato alla centralità della “pratica processuale” – ancora relazioni e linguaggio – nella creazione del diritto.

Opponendo alla furia legislativa (oggi tutta orientata al penale) l’idea di un “vuoto” capace di «tenere aperte le porte della possibilità».

Altra grande passione: la libertà nel lavoro. Giordana Masotto, tra le fondatrici della libreria, ha ricordato le moltissime iniziative, in parte sintetizzate nel Sottosopra Immagina che il lavoro (2008): al centro l’idea di «tutto il lavoro necessario per vivere».

Le donne ne sono portatrici vivendo sia la riproduzione che la produzione. E Francesca Re David (segreteria Cgil ed ex segretaria Fiom) ha portato una testimonianza appassionata sulla realtà della competizione “bellica” anche tra aziende e sugli ostacoli alla contrattazione.

Cigarini è stata sempre convinta che la politica “delle donne” e della differenza, in quanto “politica delle relazioni” e “del simbolico”, fosse un’occasione anche per gli uomini, ai quali ha rivolto con insistenza l’idea di una “relazione di differenza”, un agire comune.

La risposta non è stata finora evidente. Forse ci siamo a tal punto identificati col mondo da dominare – ipotesi di Claudio Vedovati – da ridurci a un sesso che non sa vedere se stesso. (Consiglio ai maschi che amano la politica il libro di Lia: La politica del desiderio (Orthotes, 2022), magari partendo dall’intervista che le fa Riccardo Fanciullacci).

Nicolò Nisivoccia ha letto una affettuosa lettera dell’amica Luciana Castellina («Da Lia ho capito che non c’è rivoluzione anticapitalista senza svelare l’imbroglio del neutro…»).

da Sibilla

A pochi passi dal Duomo di Milano, dietro il palazzo che ospita l’enorme store di Mondadori, c’è una via ricurva dove i tram passano a malapena. Oggi ci sono negozi alla moda e trappole per turisti; negli anni Settanta c’era una piccola libreria sulla cui porta era affisso un cartello che diceva:

Non esiste punto di vista femminista. I libri cosiddetti femministi che sono in questa libreria valgono, se valgono, per il legame che hanno con la lotta delle donne e con la modificazione della realtà. In ogni caso non contengono il punto di vista femminista.

La libreria di via Dogana 2 aveva aperto le porte il 15 ottobre 1975 e si chiamava Libreria delle donne. Resterà lì fino al 2001, quando traferirà la sua sede in Via Calvi 29, dove è ancora in attività. Nacque «per iniziativa di un gruppo di donne legate tra loro da una lunga pratica politica, […] dal desiderio di rendere più ricche e articolate le relazioni tra donne […] misurandosi in un progetto concreto che impegnasse energie, tempo e denaro». Questo gruppo di donne, che si diede la forma della “cooperativa Sibilla Aleramo”, ebbe l’idea di aprire una libreria dopo aver visitato la Librairie des Femmes di Parigi, inaugurata soltanto un anno prima dal Mouvement de Libération des Femmes – Psychanalyse et Politique.

A metà degli anni Settanta, il femminismo era ormai ovunque: si era appena conclusa la campagna per il referendum sul divorzio e si stava avviando quella per l’aborto; le piazze erano piene di donne che protestavano; c’erano gruppi e collettivi femministi in ogni città italiana, da Nord a Sud; la neonata casa editrice La Tartaruga recuperava o traduceva i classici del pensiero femminista. Il femminismo, da avanguardia politica e culturale, nel giro di cinque anni si era trasformato in un movimento di massa. In questo lasso di tempo aveva strutturato la propria pratica attraverso lo strumento dell’autocoscienza, chiamata anche “piccolo gruppo”, che prevedeva il confronto e la condivisione delle esperienze personali, attraverso il riconoscimento dell’esperienza condivisa in quanto donne. Ma dopo qualche anno, questo strumento era entrato in crisi: alcuni gruppi, più vicini alla politica di movimento, ritenevano conclusa la fase dell’analisi e dello scavo interiore e volevano passare all’azione. Altri, credevano ancora nella potenzialità dell’autocoscienza ma sentivano l’esigenza di rinnovarla.

Il femminismo milanese, sin dagli albori, si era caratterizzato per una certa diffidenza nei confronti dell’azione politica. Carla Lonzi, con Sputiamo su Hegel, aveva “vanificato la presa di potere”, rifiutando come irrimediabilmente patriarcale ogni forma di politica istituzionale o rivoluzionaria. Nel 1972 alcune donne fondarono sempre a Milano il Collettivo di via Cherubini, che fece propria quella tendenza, mettendo in secondo piano le questioni di uguaglianza giuridica ed economica per concentrarsi su un progetto più ampio, esistenziale, di ridefinizione di donna. Mentre passano gli anni, racconta la femminista Lea Melandri, «sorge l’esigenza di concretizzare materialmente, e non solo enunciare teoricamente, una pratica di vita comune. Dopo tanti gruppi di parola, si fa avanti il desiderio di un “fare insieme”, una progettualità che implicasse anche il denaro e il lavoro». L’incontro con la Librairie des Femmes, ma soprattutto con Antoinette Fouque del gruppo francese Psychanalyse et Politique segnerà una svolta cruciale, non solo per la Libreria delle donne, ma per tutto il femminismo italiano.

Il femminismo del fare

Che la Libreria non è soltanto un negozio, lo si capisce dal testo che oggi viene considerato una sorta di statuto di questa esperienza, intitolato Il tempo, i mezzi e i luoghi:

Il tempo, i mezzi e i luoghi adeguati vogliono dire creare delle situazioni in cui le donne possono stare insieme per vedersi, parlarsi, ascoltarsi, mettersi in relazione l’una all’altra e alle altre; vuol dire coinvolgere in queste situazioni collettive il corpo e la sessualità, in un luogo collettivo non regolato dagli interessi maschili. In questo luogo noi affermiamo i nostri interessi ed apriamo una dialettica con la realtà che vogliamo trasformare.

La Libreria è luogo “del fare”, ma non nel senso che è un luogo dell’azione e della rivendicazione, ma del «fare per la vita, semplicemente vivendo». La Libreria, cioè, non vuole essere dipendente da tutto ciò che le parole portano inevitabilmente con sé, (come il giudizio, la rabbia, la frustrazione) come aveva dimostrato l’esaurirsi dell’autocoscienza. La pratica del fare, si legge nel libro del 1987 Non credere di avere dei diritti, «metteva insieme donne non legate necessariamente da affetti o familiarità né mobilitate dietro una sommaria parola d’ordine, bensì da un progetto comune cui ciascuna aderiva con le sue ragioni, i suoi desideri, le sue capacità, mettendoli alla prova di una realizzazione collettiva». Fare cassa, maneggiare soldi, pagare le bollette della luce è «una politica che non aveva nome politica».

Le madri di tutte noi

E poi c’è la letteratura. L’incontro con le francesi, e in particolare con il pensiero di Luce Irigaray (il cui Speculum verrà tradotto in italiano dalla filosofa Luisa Muraro nel 1975), conduce la Libreria delle donne a ragionare profondamente sulla dimensione del simbolico. La comunità di pensiero che si riunisce intorno alla Libreria delle donne, e nello specifico intorno a Muraro, riconosce il fallimento del femminismo di movimento nella sua incapacità «di tradurre in realtà sociale l’esperienza, il sapere e il valore di essere donne», come si legge in un altro importante documento del 1983, Più che donne che uomini. Questa incapacità sarebbe dovuta al mancato riconoscimento delle differenze tra le donne, che si esprimono anche in differenze di potere, capacità e autorità e che il “femminismo ideologico” cercava di nascondere riunendo le donne in un’unica grande categoria. Per uscire da questa trappola si rendeva quindi necessario trovare «figure simboliche che traducono il fatto di appartenere al sesso femminile nella ragione sociale di tutta la libertà che una donna può desiderare per sé».

Le riviste femministe, le nuove case editrici come La Tartaruga o Scritti di Rivolta femminile, la nascita di biblioteche e centri delle donne favoriscono la ricerca di queste «madri simboliche». Nel 1982 la Libreria pubblica il “Catalogo giallo”, intitolato Le madri di tutte noi, che più che un elenco di “libri femministi”, «serviva a significare quello che la cultura umana non sa della differenza di essere donne»: Jane Austen, Emily Brontë, Charlotte Brontë, Elsa Morante, Gertrude Stein, Sylvia Plath, Ingeborg Bachmann, Anna Kavan, Virginia Woolf, Ivy Compton-Burnett. Il Catalogo si configura come il catalogo della disparità dell’esperienza delle donne, ma è proprio la sua stesura che evidenzia la difficoltà di nominarla. Pur vendendo libri, il lavoro della Libreria si poggia sulla consapevolezza che la vita sta fuori dalle parole stampate, nelle relazioni dirette che si creano fra le donne, e fra le donne col mondo.

La Libreria non è mai stato un luogo “facile”. Le sue pratiche sono diverse da tutto ciò che siamo abituate ad associare al femminismo e non sono mancate polemiche e conflitti per le sue prese di posizione. Negli ultimi anni molte donne si sono allontanate, altre si sono avvicinate. Ma ciò che rende la Libreria, anche dopo cinquant’anni, un luogo così importante, è proprio l’essere riuscita a fare il femminismo, a renderlo un’esperienza concreta, autonoma e originale per tutte le donne che hanno attraversato la sua soglia, tanto per restare quanto per prenderne le distanze.

Il consiglio

Sul sito di MemoMI (La memoria di Milano) è possibile vedere gratuitamente il documentario Libreria delle donne, realizzato da Sabina Fedeli, che ripercorre la storia della Libreria. Sempre sullo stesso sito si può trovare la serie Il documentario – Il femminismo a Milano.

Considerate “non pensanti” dai tempi di Aristotele, le donne sono rimaste fuori dalla “scena”, scrive la filosofa Annarosa Buttarelli nel suo nuovo libro. Di qui lo sviluppo di un altro punto di vista, femminile e legato all’esperienza. Ed estraneo alla logica della guerra

In un tempo in cui nel mondo sembra essere tornata a contare solo la forza e la guerra tocca anche l’Europa, c’è bisogno di riprendere a sentire una voce diversa, che si sottragga alla logica della violenza. In Pensiero osceno (Tlon, 2025), un libro nato dall’urgenza di rispondere alla minaccia della guerra, Annarosa Buttarelli – filosofa e studiosa del pensiero della differenza nel solco della femminista Carla Lonzi (di cui ha curato le opere) – spiega che questa voce non può che essere quella delle donne, da sempre estranee alla guerra e capaci di «pensare veramente», mettendo radici «in un terreno osceno, quello dell’esperienza nutrita dal sentire».

Qual è il “pensiero osceno”?

È quello – scandaloso – delle donne che pensano. Ho usato filologicamente la parola osceno, che viene dal greco ob (che significa “fuori”) e skenè (“scena”) e significa essere confinate fuori dalla scena illuminata del pensiero dominante, da cui ci ha espulse la misoginia millenaria. Fin dall’inizio della cultura europea, le donne sono identificate come animali non pensanti, secondo l’idea di differenza sessuale immaginata da Aristotele – che fu il vincitore nella costruzione della filosofia occidentale – e dagli altri filosofi.

Lei nel libro spiega che questo essere fuori scena ha permesso alle donne di sviluppare un pensiero alternativo.

Ha permesso di rimanere lontane dal potere istituito. Carla Lonzi, una delle madri del femminismo italiano, diceva: «Approfittiamo dell’assenza». Assenza delle donne dalla cultura maschile, dalle istituzioni maschili, dalla storia maschile, quelle che ancora oggi nelle università siamo abituate a considerare come cultura, istituzioni e storia in quanto tali.

Eppure, le donne pensatrici ci sono sempre state.

Lo hanno dimostrato gli studi femministi: fin dall’inizio della storia europea, nella Grecia classica, c’erano donne di pensiero che si sono poste in dialogo con gli uomini, in modo propositivo e conflittuale. Come Assiotea di Fliunte che nel IV secolo a.C. era riuscita a introdursi nell’accademia platonica, mascherandosi da uomo, per opporsi alla lezione aristotelica secondo cui la schiavitù era naturale. Assiotea ha lavorato, inascoltata, per decostruire la fallace logica aristotelica.

Perché fallace? Non è all’origine della logica occidentale?

Sì, lo è. Ma oggi sono sempre più evidenti gli errori logici, quindi la mancata scientificità, delle filosofie maschili. Ne ha scritto in un bel libro, L’errore di Aristotele (Carocci), Giulia Sissa. Uno dei suoi errori, per esempio, è stato definire l’umanità solo al maschile. Poi però anche Aristotele parlava delle donne come facenti parte dell’umanità e quindi si contraddiceva senza neanche rendersene conto: da qui la fallacia.

Nel libro lei spiega che il pensiero maschile si vuole astratto e universale, mentre quello delle donne è sempre radicato nell’esperienza. Cosa significa?

La grande filosofa María Zambrano diceva che si deve “pensare veramente”. Significa che il pensiero autentico è quello che mette le radici in un terreno considerato osceno dalla filosofia dominante, cioè quello dell’esperienza vivente che cresce sul sentire.

È questa esperienza vivente che permette alle donne di denunciare gli errori delle filosofie maschili?

Sì. Ne è un esempio eccellente il dialogo conflittuale tra la principessa Elisabetta del Palatinato e Cartesio, che già allora era un filosofo di grido. Cartesio stava scrivendo un trattato per “dominare” le passioni. In uno scambio di lettere Elisabetta, che pure aveva molta stima di lui come filosofo, gli obiettava, a partire dalla sua esperienza vivente, che sono proprio le passioni quelle che dominano la vita politica: una lezione molto importante anche per l’oggi. L’idea di Cartesio invece era che il corpo non dovesse avere nessun influsso sulla mente, considerata, in quanto pura razionalità libera, come la massima espressione dell’uomo. Ma Elisabetta gli opponeva che mente e corpo non sono così distinti, perché altrimenti non si spiegherebbero gli svenimenti.

E il grande filosofo cosa replicava?

Che lui di politica non sapeva niente perché faceva vita ritirata, da buon pensatore. Oggi sappiamo che aveva ragione lei, anche sul fatto che mente e corpo non sono separati. Eppure, Cartesio ha avuto un’enorme influenza sulla filosofia.

Crede che in questo periodo, in cui la forza e la violenza sembrano tornate arbitre dei rapporti tra i popoli, il pensiero osceno delle donne possa offrire un’alternativa?

Dietro la corsa al riarmo e dietro alla politica della forza c’è l’influenza del pensiero idealista che ha formato la cultura occidentale. Vige ancora l’idea di Hegel – su cui per fortuna noi femministe abbiamo sputato, per citare il titolo del libro di Carla Lonzi – secondo cui per arrivare a «un destino più alto», uno stadio superiore dell’umanità, «deve scoppiare il cuore del mondo». La sua idea era che per superare le vecchie strutture e consuetudini si dovesse distruggere l’organo vitale del mondo, stravolgere tutte le regole. Ora sembra che stia succedendo proprio questo: stanno facendo scoppiare il cuore del mondo, cioè il cuore di tutti e tutte noi che non facciamo la guerra. Il pensiero delle donne è esattamente un’alternativa a questa logica. Non è un caso che nel ’900 la presa di coscienza del pensiero osceno sia iniziata da Le tre ghinee di Virginia Woolf, in cui la scrittrice spiegava ai suoi amici pacifisti che per evitare la guerra l’unico modo era pensare da outsider. Fuori scena, appunto.

E oggi come possiamo fare?

Rifiutare la logica della violenza che chiama violenza. E ricordare quello che diceva proprio María Zambrano, un’altra delle pensatrici di cui parlo nel libro: che anche nella pace ci sono dei pericoli. Per esempio, vederla solo come l’assenza di guerra. È qualcosa di più, molto di più: è un modo di vivere, un modo di abitare il pianeta, un modo di essere umanità… Zambrano ha scritto il testo I pericoli della pace nel 1990, la sua ultima testimonianza di fronte all’orrore della guerra del Golfo Persico. Non si guadagnerà mai uno “stato di pace” finché non ci sarà una rivoluzione della forma mentis generale. Ho imparato da lei che la pace va preparata e praticata.

Come?

Attraverso la giustizia, che è nata come pratica femminile. Pensiamo a ciò che è accaduto quando Salomone voleva squartare il bambino per darne una metà a ciascuna delle due donne che dichiaravano di esserne la madre. La vera madre ha rinunciato al bambino pur di non vederlo squartato. Questa è una pratica paradossale di giustizia. E poi si deve preparare la pace praticando il conflitto.

Il conflitto? Non è una contraddizione?

No, anche questo è un paradosso, perché le donne riescono a pensare e ad agire soprattutto paradossalmente. Continuiamo a sovrapporre in modo insopportabile “conflitto” a “guerra”. Ma la guerra è negazione dell’altro, il conflitto è una pratica di relazione. Che ci costringe a prendere atto delle nostre differenze ma anche a cercare un terreno comune. Le filosofe del pensiero osceno sono maestre in questo.

Annarosa Buttarelli, Pensiero osceno. Edizioni Tlon, 112 pagg, 13 €

dal Corriere della Sera

Mio figlio ha undici anni e ha appena iniziato la prima media. Mi ha raccontato che è l’unico in classe a non avere un cellulare e a non giocare ai videogiochi. Ha detto che i compagni preferiscono giocare ai videogiochi o stare sui social anziché uscire, li vede assuefatti da quello strumento. Per lui una cosa così dovrebbe fare notizia, se ne dovrebbe parlare e non pensare che sia normale.

Questo bambino alieno non fa altro che giocare all’aria aperta, e a differenza di quello che pensano molti è completamente autonomo e ben inserito fra gli amici.

Molti genitori si giustificano dicendo che il cellulare li fa stare più tranquilli, questo è molto pericoloso, i ragazzi hanno bisogno di fiducia e devono essere in grado di uscire in autonomia, senza essere controllati in continuazione. Alcuni dicono: «Gli ho dato il telefono, ma controllo tutto quello che fa». Qui muore la fiducia nei figli, la loro autonomia, la voglia di scoprire cose nuove del mondo reale, anche di nascosto, muore la loro sicurezza. Aspettate che abbiano gli strumenti per gestire certe cose e quando date a vostro figlio la possibilità di accedere a pericoli virtuali, fatelo, perché sapete che è in grado di gestirli e avete fiducia in lui.

Mio figlio mi ha ringraziato per non averlo fatto ammalare di videogiochi, questo mi fa sperare che possiamo crescere figli sicuri di sé, responsabili, autonomi, facendoli uscire nel mondo reale, senza localizzarli e senza pensare che il posto più sicuro sia la loro camera davanti a uno schermo.

da Hareetz

Le persone non nascono crudeli, lo diventano. La crudeltà dei palestinesi nei confronti degli israeliani è ampiamente documentata, mentre la nostra crudeltà, quella della società israeliana, sta diventando sempre più sofisticata per proteggere il nostro bottino.

Gli ottimisti dicono che, alla fine, gli israeliani coglieranno la portata dell’atrocità che hanno commesso nella Striscia di Gaza. La verità si insinuerà nella loro coscienza.

I vecchi video di neonati fatti a pezzi dalle nostre bombe raggiungeranno a un certo punto i cuori degli israeliani e li trafiggeranno. Improvvisamente vedranno bambini ricoperti dalla polvere del cemento frantumato sotto il quale sono stati salvati, che tremano in modo incontrollabile e fissano nel vuoto con un’espressione che è tutta un grande punto interrogativo.

A un certo punto, dicono gli ottimisti, gli israeliani smetteranno di dire: «Se lo meritavano, a causa del 7 ottobre. Hanno attaccato». I numeri smetteranno di essere astrazioni e «Chi crede a Hamas». I lettori capiranno che più di 20.000 bambini sono stati uccisi – un terzo di tutti i morti – per mano nostra. Più di 44.000 bambini sono stati feriti – un quarto di tutti i feriti. Si renderanno conto di aver favorito e sostenuto una guerra di annientamento contro un popolo e di non aver sconfitto una feroce organizzazione armata.

A un certo punto, si renderanno conto che la crudeltà individuale della vendetta dimostrata da così tanti soldati – spesso accompagnata da scoppi di risate e sorrisi che hanno invaso TikTok – e la ferocia letale, fredda, chirurgica e anonima di coloro che giocano ai videogiochi dalle cabine di pilotaggio e dalle sale di controllo – non sono un segno di eroismo, ma una grave malattia. Sociale e personale.

I genitori, credono gli ottimisti, non riusciranno a dormire la notte, preoccupati che le X sui fucili dei loro figli indichino donne, anziani e giovani che raccolgono solo erbe per nutrirsi. Verrà il giorno in cui gli adolescenti chiederanno ai loro padri, che allora erano soldati, se anche loro hanno obbedito all’ordine di sparare a un anziano che aveva oltrepassato una linea rossa sconosciuta.

Le figlie dei piloti decorati chiederanno se hanno sganciato una bomba proporzionata che ha ucciso un centinaio di civili per un comandante di medio livello di Hamas. Perché non ti sei rifiutato? singhiozzerà la figlia.

I nipoti di una guardia carceraria in pensione chiederanno: hai picchiato personalmente un detenuto ammanettato fino a farlo svenire? Hai obbedito all’ordine di un ministro e negato ai prigionieri cibo e docce? Hai stipato trenta detenuti in una cella pensata per sei? Dove hanno contratto le malattie della pelle? Conoscevi qualcuno delle decine di detenuti morti in una prigione israeliana per fame o per percosse e torture? Come hai potuto, nonno? I nipoti dei giudici della Corte Suprema leggeranno le loro sentenze che hanno permesso tutto questo e smetteranno di andare a trovarli durante lo Shabbat.

A un certo punto, credono gli ottimisti, l’oscuramento della realtà da parte dei media israeliani smetterà di fare il lavaggio del cervello e di intorpidire i cuori. La frase “il contesto” non sarà più considerata una parolaccia e il pubblico collegherà i puntini: oppressione. Espulsione. Umiliazione. Deportazione. Occupazione. E tutta la sofferenza che sta in mezzo. Non sono parti di slogan coniati da ebrei che odiano se stessi, ma descrivono la vita di un intero popolo, per anni, sotto i nostri ordini e le nostre armi. Le persone non nascono crudeli, lo diventano. La crudeltà dei palestinesi nei confronti degli israeliani è ampiamente trattata dai nostri media, articoli e primi piani. Si è sviluppata in risposta e resistenza al nostro dominio straniero e ostile. La nostra crudeltà, quella della società israeliana, sta diventando sempre più sofisticata con l’obiettivo di proteggere il nostro bottino: la terra, l’acqua e le libertà da cui abbiamo espulso i palestinesi.

Gli ottimisti credono che ci sia una via di ritorno. Quanto sono fortunati, gli ottimisti.

da la Repubblica

Edith Bruck è nel suo salotto circondata da due mazzi di roselline bianche. Rinuncia al caffè, ma non a una sigaretta leggera. Ha ascoltato le dichiarazioni di Eugenia Roccella. Fa un sorriso mesto. Dice piano: «Non sono gite». Non sono gite i viaggi della memoria ad Auschwitz, se hanno un limite è quello di non riuscire a mostrare tutto: «Sono tornata a Dachau, ma non c’è più niente: è rimasto solo il forno crematorio e giù in fondo, le docce. Non ci sono le baracche, tutte distrutte». E invece bisogna vedere come dentro al memoriale di Auschwitz, «le montagne di scarpe, le migliaia di occhiali. Ricordo i corpi accatastati che mi sono trovata davanti l’ultimo giorno a Bergen Belsen, una Tour Eiffel di cadaveri».

Esce oggi per La Nave di Teseo l’ultimo libro della scrittrice di origine ungherese che ha scelto la nostra lingua per poter dire l’orrore. Perché come ama ripetere «la carta sopporta tutto». Si intitola L’amica tedesca, è una storia in cui il suo dolore di sopravvissuta incontra il dolore di chi della guerra non sapeva nulla.

Ha sentito le parole della ministra Roccella. Possiamo considerare la memoria dell’Olocausto come qualcosa di parte, coltivata solo per accusare il fascismo?

Primo Levi diceva: noi possiamo raccontare mille volte, ma non sarà mai comprensibile quel che è accaduto. Nonostante questo, ho passato gli ultimi sessant’anni della mia vita ad andare a parlare nelle scuole, con i ragazzi, ed è così importante farlo. Non per noi, ma per loro.

Sono in grado di capire?

Ho sempre parlato davanti a platee mute e in ascolto. A volte, accanto a qualche ragazzo che piangeva con me. Non so dire quanto sia grata di quegli incontri. E delle valanghe di lettere che mi scrivono ancora. Un giorno in un liceo un professore mi ha detto: signora Bruck, si ricorda di me? Era venuta a parlare nella mia scuola. Ora che sono caduta e non riesco ad andare, faccio con Zoom, ma finché avrò vita e voce non smetterò a parlare della Shoah.

Il governo vuole sminuire le colpe del fascismo?

Lo fanno da sempre. Nelle scuole, a parte questi incontri, cosa si insegna? Se ne parla poco e male. Da subito dopo la guerra nessun paese ha voluto confrontarsi con i propri delitti. Né l’Italia, né l’Ungheria. Forse, paradossalmente, a farlo più di tutti è stata la Germania. Noi sopravvissuti volevamo parlare, dovevamo liberarci di questa colpa – essere vivi – ma nessuno voleva ascoltarci. Dicevano: anche noi abbiamo sofferto la fame, anche noi abbiamo avuto i bombardamenti.

Ha visto l’accordo di pace, il rilascio degli ostaggi?

È qualcosa, certo, ma non riesco a fidarmi. Netanyahu ha fatto un grande danno con le sue dichiarazioni e la sua politica. In Europa l’antisemitismo si è acceso di nuovo, diventando uno tsunami. Mi è molto dispiaciuto vedere che a Bologna il palazzo municipale abbia esposto la bandiera palestinese, e non quella israeliana. Se vuoi la pace, devi volerla per tutti.

Perché non si fida?

Più si uccide, più si muore. Non puoi non morire un po’ dentro quando spari in faccia a qualcuno, un altro come te. E quindi con questa guerra senza fine ci stiamo tutti suicidando. La nostra umanità sta morendo. Ed è un dramma perché non c’è alcun rispetto per la vita in sé, non si rendono conto di quanto sia preziosa, di quanto – quando è in pericolo come lo era per noi ogni giorno nei campi – si sia disposti a fare qualsiasi cosa per difenderla.

Perché non se ne rendono conto?

Perché dal 1948 ci sono state solo guerre e odio. C’è stato un tentativo, poi hanno ucciso Rabin e siamo tornati indietro. Quante generazioni da allora sono cresciute nell’odio? Dico da sessant’anni, non da oggi, che non ci sarà pace finché non ci saranno due stati e due popoli.

L’amica tedesca è un romanzo che parla di un incontro difficile per lei. Lo aveva scritto molti anni fa, ma glielo avevano rifiutato.

Un editore di Firenze mi aveva detto che era un romanzo per lesbiche e io ci ero rimasta malissimo. Nessuno mi aveva mai rifiutato un romanzo, mi ero offesa come una bambina. Poi mio marito Nelo Risi mi fece l’elenco di tutte le opere di grandi scrittori rifiutate, a cominciare dal Gattopardo!

Perché era così difficile per lei avere una amica tedesca?

Non so descriverlo, ma perfino la voce, il suono della lingua, al principio mi feriva. Quando sentivo halt, o schnell, “rapido”, mi impietrivo perché mi sembrava di essere tornata al campo. Questa ragazza, che nella realtà si chiamava Brigitte, non sapeva nulla della guerra. Lo sceneggiatore con cui viveva le aveva fatto leggere il mio primo romanzo e lei aveva scoperto all’improvviso cos’era successo nel suo Paese, cosa aveva fatto quell’Hitler la cui foto sua madre teneva sul comodino, e prese a tempestarmi. Avrà bussato trenta volte alla mia porta prima che le aprissi.

Anche la vita di lei, nata nel 1945, era piena di dolore.

La madre aveva fatto tre figli con tre soldati diversi per darli a Hitler, che venerava. Poi li aveva lasciati a varie famiglie affidatarie. Brigitte era finita con padri che la abusavano, ma le mogli prendevano le loro parti e la accusavano di mentire. Come accade anche oggi, quando non si crede alle donne vittime di violenza, e si rovesciano le colpe.

Brigitte era omosessuale, il suo affetto per lei era fortissimo, non era questo però a turbarla.

No, per me era difficile stabilire un rapporto vero con una tedesca e mi stupivo di me stessa perché io non sono così. Ma la diversità – chi sei, chi ami – non mi ha mai turbata. Da quando sono venuta al mondo ho sentito che ogni vita è preziosa, e non ci sono persone di serie A, B, C.

da Casa delle donne di Milano

Luisa Cetti
Luisa Cetti

Ciao Luisa… Ti ho salutato così fino all’altro ieri, come tante altre compagne e amiche della Casa e non solo. Dovevamo vederci ieri pomeriggio, domenica 12 ottobre, a un concerto all’Auditorium, con altre amiche e amici. Ero po’ in ritardo, ti ho chiamato senza avere risposta, ho pensato: chissà, forse è già in sala e ha spento il telefono. O non ha sentito.

Poi, mentre ascoltavamo la Quarta sinfonia di Brahms, abbiamo cominciato a preoccuparci. Non era da lei, non avvertire. Era molto attenta e puntuale, ci aveva detto che dopo il concerto avremmo potuto fare un aperitivo da lei, che abitava a poca distanza. Quante volte eravamo state invitate a casa sua, in via Pietro Custodi, nel grande soggiorno affacciato sul retro, da cui andava e veniva il suo amato Micio Macho. Quanti compleanni e feste con gli amici fatti lì, in quello spazio luminoso.

Invece.

Ora scrivo di lei incredula e sconvolta. La conoscevo da più di cinquant’anni, siamo state compagne nei movimenti degli anni Settanta, nei Cub, in Avanguardia Operaia, nel movimento femminista. Abbiamo lavorato insieme dal 1974 al 1978 al “Quotidiano dei Lavoratori”. Lei poi aveva insegnato, vissuto negli Stati Uniti, studiato la storia di quel paese, delle donne pioniere dei diritti, dei movimenti. Ha pubblicato diversi libri per Sellerio, l’ultimo Storie di anime ribelli. Diritti e utopie nell’Ottocento americano uscito nel maggio scorso.

Il ricordo non può non partire da cinquant’anni fa. Eravamo impegnate, entusiaste, fiduciose nella possibilità di rivoluzionare il mondo, di far nascere un mondo migliore. Ragazze che si raccontavano anche gli amori e i progetti, le cose della vita. Non è stata facile la sua, anzi. Eppure sempre, in questi decenni, è stata sempre pronta ad aiutare tutte le amiche e compagne che avevano problemi. Le accompagnava negli ospedali, nelle visite, le invitava a rilassarsi nella sua bella casa sopra Tremezzo, sul lago di Como. Era buona e generosa.

Di lei vorrei ora ricordare soprattutto gli ultimi anni alla Casa delle Donne. Penso che siano stati tra i più felici e appaganti della sua vita.

Era socia della Casa dalla fondazione, nel 2014. Ma per vari motivi – i libri che scriveva, i soggiorni sul lago, dove la casa era diventata negli ultimi anni un bed & breakfast – non si era impegnata più di tanto. Poi, due anni e mezzo fa, aveva deciso di candidarsi al Consiglio Direttivo. Aveva maturato la decisione nei mesi precedenti. E l’aveva motivata, davanti a molte socie della Casa, con parole il cui senso era più o meno: «Dopo anni in cui ho seguito la Casa della Donne e ricevuto tanto, ho deciso che è il momento di restituire, di impegnarmi di più. Per questo mi candido al Direttivo».

Eletta senza avere il curriculum classico delle fondatrici o delle più attive, è stata in questi due anni e mezzo una presenza indispensabile nel Consiglio Direttivo di “noi sette”, come ci chiamiamo nelle password. Eravamo quasi tutte “nuove” a un’esperienza di gestione della Casa. Lei ci ha messo un grandissimo entusiasmo, con l’idea che la Casa dovesse essere aperta a tutte le donne, alla città, al mondo terribile con cui dobbiamo confrontarci. Aveva una caparbia volontà di cercare il positivo anche nelle peggiori tragedie cui quotidianamente assistiamo, come sanno le donne che hanno partecipato in questi mesi alla lettura dei giornali del mercoledì.

Partecipava attivamente ma sapeva anche “gestire gli eventi”: dal caffè alle cene, dai microfoni al mixer, sapeva fare ogni cosa. Tutte la ricordiamo arrivare ed esserci, sempre pronta e sorridente. Faceva i verbali, rispondeva alle richieste che arrivano ogni giorno alla Casa. Era disponibile in qualsiasi giorno e orario. Diceva sempre che l’esperienza del Consiglio Direttivo l’aveva arricchita molto, le aveva fatto conoscere realtà di donne e di mondo che non avrebbe mai avuto modo di incontrare altrimenti. Negli ultimi giorni insisteva sul fatto che candidarsi non era poi così difficile e impegnativo, che “si poteva fare” anche da socie senza particolari esperienze. Come era successo a lei.

Non potevamo immaginare che non ci fosse stasera, all’incontro (disdetto) del Direttivo con le socie per discutere di candidature. Né domani. Né nel prossimo Direttivo.

Ci mancherai, mi mancherai molto e molto mancherai alla Casa.

Addio Luisa, cara, generosa amica e compagna di sempre.

il manifesto – Alias

La scultura, si sa, è per eccellenza l’arte del levare. Nel caso delle scultrici questa definizione ha coinciso per lungo tempo anche con il loro statuto sociale. Perché se nei manuali di storia dell’arte il nome delle pittrici, pur sempre limitato almeno fino agli inizi del Novecento, è stato presente, il loro ha finito per scomparire. Un nome, però, ha resistito su tutti, quello di Camille Claudel (1864-1943), una delle figure maggiori della statuaria francese dell’Ottocento.

Entrata dopo la sua morte nell’oblio più totale, dal quale uscirà solo sporadicamente per essere associata al ruolo di allieva e musa ispiratrice di Rodin, Claudel ha finalmente conosciuto un’inarrestabile riscoperta a partire dagli anni ottanta. La sua notorietà è oggi tale che si potrebbe credere, a torto, che fosse la sola scultrice del suo tempo. Eppure intorno al 1900 sono state molte le figure che hanno intrapreso lo stesso cammino, nonostante le numerose difficoltà e i pregiudizi che questa scelta comportava. Claudel, quindi, quale punta di un iceberg oggi finalmente pronto a riemergere: questo l’assunto della mostra Être sculptrice à Paris au temps de Camille Claudel [‘essere scultrice a Parigi ai tempi di Camille Claudel’] – aperta fino al 4 gennaio al museo monografico dedicato all’artista a Nogent-sur-Seine (catalogo In fine. Editions d’art) – che riunisce le opere emblematiche di diciotto artiste riconosciute durante la loro vita e poi dimenticate.

Curata da Anne Rivière, la più illustre esperta di Claudel e delle scultrici in Francia, l’esposizione ricostruisce il percorso a ostacoli di una generazione di giovani artiste giunte nella Parigi di fine secolo, come molti loro colleghi uomini, perché attratte dalla modernità espressiva e dalla libertà di costumi offerte dalla città. Un progetto non semplice da realizzare, vista la carenza di archivi e anche di opere, spesso dimenticate in qualche deposito.

La mostra si inscrive nell’ormai consolidata tradizione di studi di genere inaugurata all’inizio degli anni settanta dall’americana Linda Nochlin e dal suo celebre e pionieristico saggio Why have there been no great women artists? (1971). Nel pieno del movimento di liberazione della donna, con un approccio improntato alla storia sociale dell’arte, Nochlin decostruiva metodicamente il mito della grandeur, spiegando come le condizioni della formazione artistica, della produzione, della diffusione e della ricezione delle opere favorissero sistematicamente gli uomini, escludendo le donne. Oggi l’eredità di quel testo, seppur datato, comincia a dare i suoi frutti, grazie al proliferare di studi in ambito universitario dedicati a quel mondo artistico femminile riemerso: studi all’interno dei quali questa mostra trova per lo più le sue giustificazioni, a partire proprio dal caso emblematico e paradigmatico di Claudel, con cui si apre il percorso espositivo.

Nata in una famiglia, senza nessun precedente artistico, della piccola borghesia francese originaria del nord della Francia, Claudel si interessa alla scultura precocemente. Già all’età di dodici anni realizza i primi busti, modellati in terra, dei fratelli Paul e Louise. Sarà innanzitutto il padre ad accorgersi del talento di Camille, sottoponendolo al giudizio del noto scultore Alfred Boucher, originario proprio di Nogent, dove la famiglia Claudel viveva tra il 1876 e il 1879.

Lo scultore insiste perché la giovane possa continuare a nutrire la sua passione seguendo dei corsi di scultura. Cosa non semplice in un’epoca in cui le donne sono ancora escluse dall’insegnamento accademico (la loro ammissione avverrà solo nel 1897) e l’arte della scultura, soprattutto, viene considerata un affare esclusivamente maschile. Nel 1881, a soli diciassette anni, la giovane Claudel riesce a imbarcare tutta la famiglia nella folle impresa di seguirla a Parigi per proseguire la sua formazione. Grazie al sostegno del padre apre il suo primo atelier, al numero 117 della rue Notre-Dame-des-Champs. Boucher vi sei reca ogni venerdì per darle consigli e correggere il lavoro di altre giovani allieve che nel frattempo l’avevano raggiunta. A partire dal 1882, ai corsi di scultura Camille affianca quelli di disegno presi nell’Académie Colarossi a Montparnasse, una scuola d’arte aperta a tutti, donne e stranieri compresi, senza concorso d’ammissione.

La mostra illustra quanto queste “accademie libere”, come venivano chiamate, giocassero un ruolo fondamentale per la formazione delle giovani artiste che giungevano numerose da ogni parte d’Europa – in particolare dall’Inghilterra e dai paesi scandinavi – per esprimersi ed emanciparsi socialmente. Qui si praticava senza preconcetti il disegno e la scultura ‘d’après le modèle nu’ [nudo dal vivo, ndr], femminile e soprattutto maschile: numerose, in mostra, le testimonianze grafiche di questa pratica, tanto banale per gli uomini quanto irraggiungibile per le donne, vera ragione della loro esclusione dal sistema accademico. Già, perché l’impossibilità d’accedere a una formazione artistica professionale non era tanto determinata da una mancanza di talento quanto da una pura e semplice ragione morale.

Ecco la prima di una serie di numerose ingiustizie, che a cascata ricadevano sulla carriera di queste giovani artiste, riducendo drasticamente il loro accesso al Prix de Rome, al Salon parigino, e di conseguenza al mercato dell’arte. Inoltre, i costi elevati della pratica della scultura vincolavano spesso le artiste alla protezione di padri o mariti: sarà proprio il desiderio di mutualizzare le forze a fare dell’atelier di Camille Claudel un luogo di sorellanza artistica e umana, un laboratorio di libertà sociale, pur non privo di qualche rivalità. Molte delle colleghe – Madeleine Jouvray, Sigrid af Forselles, Jessie Lipscomb, Amy Singer – transitarono anch’esse da Colarossi, come testimoniano i numerosi reciproci ritratti esposti in mostra, frutto di una necessità che diventava virtù.

Nonostante le difficoltà, alcune di queste scultrici sono salutate dalla critica e ottengono commissioni pubbliche, come Marguerite Syamour o Marie Cazin (moglie del pittore Jean Charles Cazin), cui si deve un intenso doppio ritratto femminile presente a Nogent.

La mostra prosegue con una sezione dedicata all’arrivo di Rodin come supervisore nell’atelier di Claudel (1882), in sostituzione dell’amico Boucher. Un incontro proficuo che vede da una parte un gruppo di giovani donne determinate a imparare il mestiere fuori dal circuito istituzionale che le rifiutava, dall’altra il titanico scultore in cerca di manodopera a buon mercato per il proprio atelier della rue de l’Université, integrato rapidamente, appunto, da Claudel, Lipscomb e Jouvray. Il magistero di Rodin non è convenzionale. L’apprendimento si fa attraverso la pratica, nel cuore della vita di bottega. Più che allieve, Claudel e le altre diventano assistenti, con funzioni le più diverse, dalla semplice cura dei materiali fino alla modellazione e al taglio dei marmi.

Grazie alla sua forza creatrice Claudel occupa progressivamente uno spazio speciale nell’atelier, dialogando alla pari col maestro, prima di emanciparsene definitivamente dopo una tormentata relazione. Jouvray, al contrario, continuerà a lavorare per lui senza essere capace di uscire dell’orbita della sua influenza: il confronto in mostra tra il suo “Schiavo” e “L’Età del Bronzo” di Rodin appare senza appello.

Nel 1913, quando l’ultima esposizione di opere di Camille Claudel coincide con il suo primo ricovero psichiatrico, una nuova generazione di scultrici – Jane Poupelet, Yvonne Serruys – ha definitivamente abbandonato le seduzioni simboliste di Rodin in favore di un linguaggio più epurato e classicista: più moderno. Di lì a poco, però, lo scoppio della Prima guerra e l’arrivo delle avanguardie contribuiranno a cancellare dalle memorie i nomi di queste scultrici resilienti: la mostra di Nogent ricuce lo strappo.

da L’Altravoce il Quotidiano

Francesca Albanese e Greta Thunberg sono due donne coraggiose e autorevoli, l’una “relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967”, l’altra, giovane svedese promotrice del movimento mondiale Fridays for Future contro il surriscaldamento globale. Oggi, entrambe sono oggetto di pesanti attacchi volti a delegittimarle, infangarle, screditarle e con false accuse renderle non credibili. Attacchi volti a farle zittire, con minacce, insulti, intimidazioni. Ma loro non si fanno zittire, parlano, vengono ascoltate e credute. Contro di loro si è scatenata una campagna di odio violentissima. L’una per aver denunciato e accusato, davanti alle Nazioni Unite con il suo report “Anatomia di un genocidio”, Israele e i suoi complici di apartheid, occupazione illegale dei territori palestinesi e di genocidio. L’altra per essersi imbarcata sulla Global Sumud Flotilla, condividendo la sorte dell’equipaggio. Entrambe sono state accusate di antisemitismo, di essere amiche dei terroristi, di essere al soldo di Hamas. Albanese è odiata per aver fatto i nomi delle “entità aziendali”, americane, israeliane e occidentali (produttori di armi, aziende tecnologiche, società di costruzione e edilizia, industrie estrattive e di servizi, banche, fondi pensioni, assicurazioni, università e organizzazioni di beneficenza) «che sono state a lungo coinvolte nel sostegno all’occupazione coloniale» e continuano a «sostenere, beneficiare e normalizzare un sistema economico legato al genocidio». Il segretario di Stato americano in una lettera alle Nazioni Unite ha chiesto la sua «immediata rimozione» dall’incarico per il suo «virulento antisemitismo e sostegno al terrorismo». L’ha accusata di essere bugiarda, di diffondere false notizie e che il suo rapporto «non è una difesa dei diritti umani ma una campagna diffamatoria». È stata sanzionata come «nemica di Israele, degli Stati Uniti e dell’Occidente». È stata citata in giudizio per diffamazione da un centro legale ebraico americano per aver elencato nel suo rapporto «organizzazioni caritatevoli cristiane» che «con le loro donazioni, hanno contribuito a progetti di sostegno agli insediamenti israeliani, tra cui la formazione di coloni estremisti». È stata attaccata per aver chiesto che la Corte di giustizia internazionale indaghi su queste «entità aziendali» che «traggono profitti dalla distruzione delle vite di persone innocenti» e per aver ricordato come «i processi agli industriali dopo l’Olocausto hanno gettato le basi per il riconoscimento della responsabilità penale internazionale dei dirigenti aziendali per la partecipazione a crimini internazionali».

Greta, da parte sua, è stata umiliata dai militari israeliani che dopo l’arrembaggio alla Flotilla in acque internazionali l’hanno costretta a gattonare e baciare la bandiera israeliana, nella quale poi l’hanno avvolta. Ha subito, come gli altri, maltrattamenti e abusi durante la prigionia di cui al momento non ha voluto parlare quando è atterrata ad Atene, dopo essere stata rilasciata. Ha accusato, anche lei, gli stati, le istituzioni, i media e le aziende di rendere possibile e alimentare il genocidio di Israele a Gaza. La marea umana che si è riversata nelle piazze di tutto il mondo sta con Albanese e Greta e mentre i militari israeliani abbordano l’altra Flotilla, carica di medicinali, medici, infermieri e giornalisti, tutti arrestati, le piazze tornano a riempirsi. Non si tratta, come ha detto Greta, di salvare i palestinesi, ma l’umanità dentro ognuna/o di noi. Umanità tradita, sbeffeggiata, insultata, criminalizzata, da chi, come il governo italiano, in questi anni è stato complice di genocidio e della distruzione di Gaza e oggi di fronte alla possibilità di porvi fine, ha la sfacciataggine di dire di aver sempre lavorato per la pace, ma la verità è più forte delle loro menzogne.

Lo storico israeliano Ilan Pappé fu tra i primi, vent’anni fa, a parlare di pulizia etnica della Palestina, attuata nel passato e perpetrata da tutti i governi di Tel Aviv. Nel suo ultimo libro appena uscito in Italia pronostica la fine dello “Stato dell’apartheid” e la costituzione, lenta, di un unico Paese antirazzista, plurale e democratico. «Non so quando ma so che accadrà». Lo abbiamo intervistato, riflettendo anche sul cessate il fuoco appena annunciato a Gaza.

«Il piano di Trump più che la strada giusta per la pace è il modo giusto per continuare la guerra». Non ha dubbi Ilan Pappé, lo storico israeliano che per primo, vent’anni fa, parlò di pulizia etnica della Palestina, attuata nel passato e perpetrata da tutti i governi israeliani. Nel suo ultimo libro, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina (Fazi Editore), analizza il presente ma traccia anche un futuro possibile. «Quello che vorrei – dice – e che sono certo si realizzerà, anche se non so quando: uno Stato democratico, dal fiume al mare, dove ebrei e palestinesi vivranno insieme con gli stessi diritti». Lo abbiamo intervistato.

Pappé, in questo libro fa lo storico ma anche il veggente. Quali elementi l’hanno portata a prevedere la fine di Israele?

Innanzitutto i processi che sono in corso e che stanno portando al crollo dell’attuale Stato di Israele, l’attuale regime, che è più teocratico, razzista e aggressivo nei confronti dei suoi vicini. Sono processi molto lenti, non sempre facili da individuare ma credo che accelereranno e diventeranno più visibili. Sono abbastanza certo che stia accadendo, quello che non so è che cosa lo sostituirà. Quindi da un lato l’analisi è accademica, dall’altro ha a che fare con il desiderio e la speranza, quello che spero accadrà, cioè che lo Stato razzista, teocratico e dell’apartheid di Israele sarà sostituito da uno Stato democratico per tutti, dove i palestinesi per la prima volta dopo centovent’anni potranno avere una vita normale, i rifugiati potranno tornare e questo avrà un enorme impatto positivo su tutta la regione.

E a che punto siamo?

Siamo all’inizio della fine. Alcuni processi sono più visibili, come la mancanza di coesione sociale in Israele. Ebrei religiosi e laici non trovano più una lingua comune, non possono vivere insieme e gli ebrei più fanatici hanno il sopravvento perché sono più popolari. È già visibile l’isolamento di Israele nella società civile. Quello che non vediamo è come questo si traduca nella politica dall’alto, almeno per i governi. Vediamo ebrei in tutto il mondo che si dissociano dal sionismo. Vediamo una crisi economica in divenire, un esercito esausto, che si affida totalmente all’aeronautica e ai carri armati contro dei guerriglieri, il che è molto discutibile. Dall’altro lato non vediamo ancora un movimento di liberazione palestinese che sappia che cosa fare, ma questo credo accadrà perché parlo con i giovani palestinesi, che sono più uniti e impegnati a ricostruire tale movimento.

Ma come immagina il futuro?

Immagino uno Stato solo dal fiume al mare, in cui non importa quale sia la tua religione o nazionalità, in cui si rispettano le identità collettive e gli ebrei saranno una di queste, ma non la sola. Lo immagino molto più collegato al mondo arabo che all’Europa, uno Stato normale con problemi normali. Non so quando ma so che accadrà.

Pensa che la riconciliazione sia possibile dopo il 7 ottobre e il genocidio di Gaza?

No, ora non è possibile e Israele è nella sua fase più crudele. Ma se guardiamo la storia molti regimi ingiusti e criminali sono stati molto crudeli nelle ultime fasi. Il tempo è un fattore importante e non accadrà l’anno prossimo. Non credo, inoltre, che tutti gli ebrei rimarranno in Israele: molti se ne andranno – come i bianchi in Sudafrica che non volevano vivere in uno Stato di non-apartheid. Ma spero che ne rimangano abbastanza, perché i palestinesi hanno bisogno di loro per ricostruire un Paese diverso e migliore.

All’orizzonte però non ci sono alternative politiche forti né israeliane né palestinesi.

Sì, ma non è questo il punto. Piuttosto: il mondo capisce che il suo ruolo ora non è quello di mediare ma di proteggere i palestinesi? Gli israeliani non sono in pericolo. Le persone che rischiano di essere eliminate sono i palestinesi. Poi verrà il resto.

Che cosa pensano i bambini israeliani dei bambini palestinesi dopo il 7 ottobre, secondo lei?

Quello che pensavano prima: che i palestinesi non sono esseri umani adeguati, che sono come i nazisti, i barbari. Il sistema educativo israeliano è razzista e soprattutto negli ultimi venticinque anni ha prodotto laureati che non sono in grado di vedere i palestinesi come esseri umani. Gli ultimi due anni non hanno cambiato nulla.

E i bambini palestinesi?

Dipende da dove vivono. Quelli cresciuti a Gaza conoscono gli israeliani solo come carcerieri. Quelli nei Territori occupati vedono solo coloni, coloni violenti e soldati. Infine, i figli dei palestinesi in Israele hanno una visione molto complicata perché sanno che alcuni israeliani sono brave persone e con le loro famiglie hanno relazioni e amicizie. Quindi dipende dal posto. Invece gli ebrei israeliani hanno perlopiù una visione molto unificata dei palestinesi.

Com’è stato per lei crescere in Israele? Che idea aveva dei palestinesi?

Fino a vent’anni non sapevo molto di loro. Quando ho lasciato Israele per fare il dottorato, li ho incontrati in un contesto diverso, come persone uguali e ho sentito la loro storia e ho fatto ricerche. Ho capito che tutto quello che avevo imparato e sentito fino a quel momento era molto lontano dalla verità. Che c’era un’altra storia, che mi era nascosta e ho dovuto trovarla da solo.

Quanto hanno a che fare i palestinesi con la sua decisione di diventare uno storico?

Ho sempre amato la storia e volevo scrivere la storia del mio Paese, quindi non molto. Quello che ha avuto molta influenza su di me è stata la capacità di dire: anche se lo senti dai tuoi genitori e dai tuoi insegnanti, sii critico. Non accettare tutto ciò che ti viene detto. Questo è ciò che ho imparato da loro. E ovviamente era molto importante per me capire che la storia non è neutrale, che devi essere impegnato e mi ha aiutato a diventare un attivista, non solo uno storico.

Perché Israele gode o almeno ha goduto di tanta impunità? Qual è il fattore più rilevante: economico, ideologico, il “senso di colpa” europeo?

Penso sia una miscela di fattori. Israele gode dell’immunità prima di tutto per il rapporto bizzarro che lo lega all’Europa. L’Europa non voleva gli ebrei, quindi ha suggerito che ci fosse uno Stato ebraico al di fuori dell’Europa, ma considera Israele parte dell’Europa. In secondo luogo, c’è l’idea che se non diamo l’immunità a Israele dobbiamo ritornare sulla questione dell’antisemitismo e l’unica soluzione per l’antisemitismo è stata creare uno Stato ebraico in Palestina, invece che rendere l’Europa una società antirazzista. Al giorno d’oggi, poi, penso ci sia un altro problema che è il livello della politica. I politici oggi non sono molto interessati alla moralità, all’ideologia. È molto facile comprarli per sostenere Israele. Non hanno molto rispetto per sé stessi, sono molto egocentrici. Sto generalizzando, ovviamente ci sono delle eccezioni. Di certo, quando penseranno che sostenere Israele potrebbe essere un problema alle elezioni, cambieranno e improvvisamente vedremo un intero cambiamento nella politica europea.

Gaza alla fine diventerà una “Riviera”?

No. Gaza è completamente distrutta, la terra è intossicata e la maggior parte delle città sono devastate. Ci vorranno anni per ricostruirla. Non so che cosa diventerà perché dipende dalle sorti del resto della Palestina storica e prima, credo, farà parte dello Stato di apartheid di Israele. Speriamo che in futuro faccia parte di una Palestina decolonizzata. Ma una cosa è certa: rimarrà palestinese, anche se non sarà un posto facile in cui vivere, specialmente i primi anni. E rimarrà anche la più importante fonte di resistenza, come è sempre stata.

E la Cisgiordania?

È un problema diverso, Israele sta cercando di fare alla Cisgiordania quello che fa a Gaza, ma è molto più difficile lì. I numeri sono più grandi, ma ci sono 800mila coloni ebrei. Molto dipende dal mondo, se non farà nulla per Gaza, potrebbe non farlo anche per la Cisgiordania. Siamo in un brutto momento: Israele vuole imporre la sua realtà e questo tentativo causerà molto spargimento di sangue e sofferenza – e quindi si spera che il mondo interferisca – ma non avrà successo.

Che cosa significa fare ricerca al tempo delle fake news e dell’intelligenza artificiale?

Gli sviluppi tecnici ci sono da sempre e se sei uno storico esperto, se conosci bene l’argomento, puoi stare certo di non perdere di vista la verità. Non sono preoccupato per gli storici ma per il pubblico in generale, per quanto sia facile accettare notizie false e generate dall’Ia. Penso che la cosa più importante, anche per i giornalisti, sia capire e usare le parole giuste. Se non chiami Israele “l’unica democrazia del Medioriente”, ma “Stato di apartheid”, è già un buon inizio per permettere di capire quando ci sono notizie false e propaganda israeliana.

Sull’uso della parola “genocidio” in Italia c’è un gran dibattito. Anche in Israele?

Le persone in Perù e in Malesia sanno molto di più quello che succede a Gaza degli israeliani. Non hanno idea di cosa succede a Gaza.

Ancora adesso?

Sì, perché i media israeliani collaborano con il governo, non mostrano nessuna immagine di ciò che accade a Gaza. Parlano solo dell’esercito, dei soldati coraggiosi, degli ostaggi.

Ma ci sono i social media.

Viene detto loro che sono anti-israeliani e non li guardano. Israele non permette di vedere Al Jazeera e la gente non cerca media alternativi. Quindi sicuramente il genocidio sembra loro un’accusa antisemita. Non a tutti, ma a una stragrande maggioranza.

Come si sente da israeliano?

Mi vergognavo già di questo Paese molto prima di Gaza. Le mie idee su cosa siano il sionismo e Israele non sono cambiate. In effetti ho previsto quello che è successo. Non sapevo esattamente come, ma ero sicuro che questo non potesse andare avanti e che ci sarebbe stato uno scoppio di violenza. L’unica cosa che mi ha sorpreso è stata l’indifferenza europea. La gente ha reagito subito per l’Ucraina ma i governi non hanno usato la stessa lingua per Gaza. È abbastanza sorprendente.

Che cosa pensa di Trump e del suo piano di pace?

Penso che nel migliore dei casi possiamo sperare che porti a un lungo cessate il fuoco e allo scambio di prigionieri. Non è un piano di pace. Ha tutti i problemi dei precedenti, non cambierà nulla drasticamente. Più che la strada giusta per la pace è il modo giusto per continuare la guerra.

È anche la fine di Netanyahu?

Non sono mai in grado di prevedere quello che lo riguarda. Ha una base molto forte, ora è in calo, ma se ci sarà il rilascio degli ostaggi, si prenderà il merito e potrebbe rivincere le elezioni. Ma anche se perde, chiunque lo sostituirà avrà la stessa ideologia.

da Leggere Donne

Le guerre che ho (solo) visto, Moretti & Vitali, Bergamo 2025 pagine 152, € 14

«Si passa il tempo più a giustificare la guerra (le guerre) che a pensare e immaginare la pace». Questa constatazione, che attraversa Guerre che ho (solo) visto di Rosella Prezzo, è il punto di partenza per un lavoro intellettuale radicale, una narrazione attraversata da riflessioni teoriche, immagini artistiche, citazioni poetiche e memorie personali che interroga il nostro modo di vedere la guerra e la possibilità – tutt’altro che astratta – di immaginare la pace. Ad accompagnare la scrittura, una preziosa antologia conclusiva prosegue il lavoro di montaggio e disvelamento fatto dall’autrice.

Un posizionamento laterale. Prezzo adotta una prospettiva situata, femminista e non armata, rivendicando il suo essere spettatrice: una donna che ha “solo visto” la guerra attraverso schermi, notizie, film, immagini. Da questa posizione dichiaratamente laterale ma consapevole, il libro si muove: non verso la spiegazione dei conflitti, ma verso lo svelamento del modo in cui la guerra viene rappresentata e interiorizzata. È una soggettività incarnata, relazionale, che guarda per comprendere non solo “ciò che accade”, ma ciò che ci attraversa mentre guardiamo.

La smaterializzazione della guerra. Il primo grande nodo che il libro affronta è quello della smaterializzazione del conflitto. La guerra oggi si combatte da remoto, attraverso droni, visori notturni, algoritmi, si parla di “operazioni chirurgiche”. Ma questa apparente “pulizia” è una rimozione della morte e del dolore e l’autrice mostra, con grande rigore, come questa estetizzazione anestetizzi anche la nostra immaginazione politica. E ci mette di fronte al rischio di una nuova cecità, di una pace finta, costruita sul silenzio dei corpi. La guerra dentro le immagini. È a partire da questo scenario che prende forma una delle riflessioni più penetranti e necessarie sulla guerra contemporanea e sulle modalità con cui la percepiamo, filtrate quasi interamente da media, immagini, videogiochi di simulazione.

Rosella Prezzo interpreta questi materiali come vere e proprie “prove d’accusa” contro la narrazione bellica, mostrando anche come la guerra non si esaurisca nei luoghi di conflitto, ma abiti le immagini della nostra quotidianità. Per rendere visibili questi dispositivi, si serve di opere d’arte visiva e film – da Stanley Kubrick a Cristina Lucas, da Harun Farocki a Marina Abramović – trasformandoli in strumenti critici capaci di decostruire le retoriche dominanti e smascherare i meccanismi che le sostengono.

Così analizza il nesso tra addestramento bellico e maschilità (Stanley Kubrick), tra pornografia e guerra e rivela come il corpo del nemico viene ridotto a oggetto, a frammento, a carne esposta in chiave sadica o grottesca, mentre il corpo del soldato occidentale è sessualizzato, reso icona eroica; prende in esame la rimozione del dolore nella sfera pubblica e politica, come nel caso emblematico della copertura del dipinto Guernica all’ONU per il discorso di Colin Powell durante la guerra in Iraq; mette in luce come l’idea moderna di cittadinanza si sia fondata sulla fratellanza armata che ha escluso la sororità, con l’evidenza visiva offerta da La Liberté raisonnée di Cristina Lucas, in cui gli uomini del celebre quadro di Delacroix si rivoltano contro la figura femminile della Libertà, rivelando la violenza patriarcale celata dietro il mito democratico occidentale; palesa la post-umanità tecnologica che neutralizza il corpo ma non il trauma (Harun Farocki); infine evidenzia la nostra complicità di spettatrici/tori distanti attraverso la performance di Marina Abramović Balkan Baroque, in cui l’artista lava per ore ossa animali insanguinate evocando la memoria della guerra nei Balcani con un gesto di esposizione fisica e simbolica.

In ognuno di questi casi, ciò che Prezzo mette a fuoco non è solo la violenza, ma il nostro modo di vederla.

Ripensare la memoria: dal milite ignoto al civile ignoto. Una delle proposte più radicali del libro è simbolica e dirompente: sostituire il monumento al “milite ignoto” con quello al “civile ignoto”. Spostare il centro della memoria dalla figura eroica e maschile del soldato a quella delle vittime invisibili: donne, bambini, corpi senza onore né nome, ma segnati profondamente dalla guerra.

Questo gesto non è solo una provocazione. È un modo per interrogare l’intero impianto della cittadinanza moderna, costruita su logiche di sacrificio, forza e appartenenza armata. Ricordare il civile ignoto significa decostruire la retorica patriottica ed eroica e restituire dignità a chi subisce.

Una genealogia femminile del pensiero di pace. Nel capitolo “Pensare l’impensato della pace”, prende forma una riflessione radicale: se la guerra è stata costruita come fondamento dell’umano e del politico, pensare la pace è un gesto di rottura, una discontinuità simbolica e linguistica. Per compierla, Prezzo si affida alle parole di tre pensatrici che hanno immaginato un altro modo di abitare il mondo:

Simone Weil ci parla della sospensione della forza, di un’azione che si radica nella vulnerabilità e non nella sopraffazione. La sua idea di “attenzione” è una pratica di cura, di giustizia nonviolenta; Virginia Woolf, nel suo Le tre ghinee, decostruisce le genealogie patriarcali della guerra e propone di “combattere con la mente”: creare una civiltà che non si fondi su dominio, possesso, virilità; María Zambrano introduce la necessità di una rivoluzione interiore e culturale che significa un nuovo modo di vivere, una nuova grammatica dell’esistenza, un nuovo modo di abitare il mondo.

Queste filosofe non offrono modelli astratti. Mostrano che la pace si pensa da un’altra posizione: non neutra, non armata, non competitiva.

Una posizione che riconosce la forza delle parole, dei gesti, delle immagini nella costruzione del reale.

Immaginare la pace. Pensare la pace dunque non è un atto neutro: è un’operazione politica, etica, estetica. Richiede nuovi linguaggi, nuovi immaginari, nuove posture. Significa spostarsi da uno sguardo critico a uno sguardo generativo, capace di produrre visioni non belliche della realtà, di restituire voce ai corpi oscurati, di creare legami invece che confini.

Rosella Prezzo, con questo libro, ci invita a smascherare ciò che vediamo, ma anche a immaginare ciò che non c’è ancora: non la pace come utopia disarmata, ma come forma simbolica da abitare, mostrare, insegnare. Un esercizio necessario in un tempo che fatica a pensare il futuro senza la guerra.

da il manifesto

Quando le bombe smettono di cadere, il mondo presume che la guerra sia finita e la chiama pace. Ma a Gaza il silenzio che segue il bombardamento non è pace; è l’inizio di un confronto con il vero dolore. Un cessate il fuoco non significa la fine, significa semplicemente che il rumore si è placato, permettendo alla voce del dolore di farsi sentire.

Nel momento in cui viene dichiarata la calma, la memoria inizia a parlare. Il padre che ha perso suo figlio si sveglia ogni mattina con la sua immagine. La donna che ha detto addio al marito martire impara a parlare all’assenza stessa. Il bambino sopravvissuto porta negli occhi il ricordo di una casa ridotta in cenere.

La fine della guerra a Gaza non è una vittoria, è un risveglio doloroso. Apriamo gli occhi sulla portata della perdita e reimpariamo a vivere senza ciò per cui un tempo vivevamo. Le case distrutte non si ricostruiscono facilmente nel cuore e i volti scomparsi non possono essere sostituiti dal silenzio o dalle promesse di ricostruzione.

Questa fragile calma che aleggia sulle rovine è lo spazio in cui gli abitanti di Gaza si confrontano con se stessi, scoprendo che la sopravvivenza non è conforto, ma una nuova responsabilità. Vivere dopo tutto questo significa portare il dolore di coloro che non ce l’hanno fatta.

Così, quando il fuoco si spegne, non inizia la pace, ma le parole. Parole di cuori afflitti, ricordi pesanti e persone che cercano la loro strada in una città sfinita dalla perdita. A Gaza, la fine della guerra non è la fine; è l’inizio di un altro capitolo di sofferenza silenziosa, non meno dolorosa dei bombardamenti.

La ricostruzione non inizia con le pietre, ma con i cuori. Le case possono essere ricostruite, ma chi ricostruisce gli esseri umani che vi abitavano? Come può una madre, che trema ancora al rumore del vento perché le ricorda le esplosioni, sentirsi di nuovo al sicuro? A Gaza, le persone riparano non solo i muri, ma anche le anime frantumate dalla paura incessante.

I bambini, tuttavia, sono una storia che non finisce mai. Quelli che hanno imparato a contare al suono dei razzi invece che con i numeri sui loro quaderni, e che hanno capito l’assenza prima di poter capire il futuro. Ogni notte, un genitore si siede accanto a loro, promettendo che la vita tornerà a sorridere, ma i loro occhi rivelano ciò che non può essere detto: la paura che i loro figli crescano credendo che la guerra sia normale.

Al mattino, dopo la guerra, il caffè non ha più il suo solito aroma; l’aria si mescola con la polvere e la cenere. La gente cammina lentamente, con il pane in mano e il peso dei ricordi nel cuore. Si fermano davanti alle rovine delle loro case, toccando le pietre come se fossero i volti dei loro cari, raccogliendo foto dalle macerie come se raccogliessero i frammenti dei propri cuori.

E la sera il silenzio non è tranquillo, ma carico del clamore nascosto delle domande e del dolore. Ogni finestra chiusa sussurra una storia, ogni strada in rovina racchiude l’eco di passi che non torneranno mai più. In questo silenzio, le anime parlano più di quanto le persone potrebbero mai fare.

«La guerra è finita», dicevano. Ma nei cuori non è mai finita. Dopo che il mondo era piombato nel silenzio, la voce del dolore si levò dapprima sommessa, poi chiara, come se provenisse dalle profondità. Una madre siede sulla soglia di una casa ridotta in macerie, fissando la strada da cui suo figlio tornava ogni sera. Un tempo riconosceva il suono dei suoi passi prima ancora di vederlo, ma ora ogni passo che sente risveglia in lei la falsa speranza che sia tornato. Stringe a sé i suoi piccoli vestiti trovati tra le macerie, premendoli sul petto come se cercasse di recuperare il calore della vita dalle ceneri. Il mondo è silenzioso, ma dentro di lei infuria una guerra che non cesserà mai, una guerra tra la memoria e l’oblio, tra l’amore e la perdita.

In un’altra casa, una ragazza è seduta accanto a una porta che non è stata aperta dalla sua partenza. La sua ultima promessa era stata quella di aspettarlo dopo la guerra, ma la guerra è finita e tutto è tornato come prima, tranne lui. Ogni sera parla alla sua fotografia, chiedendogli com’è andata la sua giornata, raccontandogli della città che sembra strana senza la sua voce. Impara che l’assenza non guarisce, e che la solitudine non sta nel vuoto, ma nella presenza di una persona cara solo nei ricordi. Non lo ha perso una volta quando è stato martirizzato, ma lo perde ogni giorno quando si sveglia e non lo trova.

Il bambino che è sopravvissuto da solo ora porta nei suoi occhi un’età superiore alla sua. La gente gli chiede il suo nome, ma lui rimane in silenzio, come se i nomi non avessero più alcun significato dopo che tutte le voci che lo chiamavano sono svanite. Cammina per le strade in rovina, alla ricerca di un volto familiare, di una mano che stringa la sua, di un abbraccio che gli restituisca un senso di sicurezza. A volte gioca tra le macerie, ma ogni risata porta con sé una scheggia di dolore. Piange raramente, forse perché le lacrime non bastano più per ciò che prova dentro.

Sì, la guerra è finita. Ma non ha lasciato i loro cuori. Vive ancora lì, nei dettagli di ogni giorno, negli sguardi, nel lungo silenzio prima di addormentarsi. A Gaza, la guerra non finisce con un cessate il fuoco; rimane dietro ogni sorriso spezzato, ogni cuore che cerca di reimparare a vivere dopo aver perso la vita stessa.

Ricordo la prima tregua annunciata nel gennaio 2025. La gente scese in strada per festeggiare, applaudendo e alzando la voce con gioia. Io, invece, piansi. Piansi con un dolore diverso dalle lacrime di sollievo, ma lacrime di oppressione.

Non sentivo che la guerra fosse finita; sentivo che ricominciava dentro di me. Vedevo negli occhi delle persone una speranza che non potevo raggiungere, ricordando la mia vecchia casa e la famiglia cancellata dall’esistenza, ricordando tutto ciò che si era fermato nella mia vita come se il tempo stesso si fosse congelato in quel primo momento di perdita. Mentre le voci si alzavano in segno di gioia, io sentivo solo il pesante silenzio che aleggiava tra le rovine del mio mondo interiore. Quel silenzio non può essere descritto, e non si può dire «La guerra è finita», perché sappiamo che non è ancora finita.

Eppure, continuo a credere che il cuore che ha pianto in profonda angoscia sia lo stesso cuore capace di risorgere dalle macerie. A Gaza, il dolore non finisce mai del tutto, ma impara a convivere con la vita. Portiamo con noi il nostro dolore non come un fardello, ma come prova che siamo ancora vivi.

Guardiamo il cielo ancora avvolto dal fumo, sussurrando dentro di noi: ricostruiremo. Non solo ciò che è stato distrutto intorno a noi, ma anche ciò che è stato spezzato dentro di noi. La vera pace, per noi, non è quando smettono di cadere le bombe, ma il giorno in cui potremo sorridere senza temere i ricordi.

da Pressenza

L’annuncio della prima fase dell’accordo sul piano di pace proposto da Trump ha acceso la speranza che la stretta mortale sulla popolazione palestinese possa finalmente avvicinarsi alla conclusione. E certamente bisogna cogliere ogni opportunità, salutare con sollievo ogni spiraglio che possa porre fine al genocidio.

Ma una pace duratura non dovrebbe e non può essere costruita sull’abbandono dei diritti fondamentali del popolo palestinese.

Il piano infatti si limita a dichiarare che l’autodeterminazione e la sua sovranità finale saranno una mera “aspirazione”, attraverso un percorso che non potrebbe essere più vago, condizionato o incerto.

Ogni volta che il potere parla di pace, dovremmo fermarci a chiedere: pace per chi, e a quale prezzo? Il Piano di pace Trump 2025 promette “ricostruzione” e “stabilità”, ma il suo linguaggio tradisce un intento opposto: non è la pace dell’ascolto, ma la pace dell’ordine imposto.

Nel documento compaiono parole come deradicalizzazione, prosperità economica, sicurezza, nuova leadership civile, board of peace. Ognuna di queste espressioni – apparentemente neutra – disegna un mondo dove la pace è amministrata dall’alto, da chi detiene già il potere, e dove ai palestinesi spetta solo la parte del soggetto da “rieducare”.

Dietro la parola deradicalizzazione si nasconde la retorica coloniale di sempre: trasformare la resistenza in malattia, la ribellione in deviazione da correggere. È la stessa logica con cui, nei secoli, il patriarcato ha preteso di “normalizzare” le donne, definendo follia ciò che in realtà era ricerca di libertà.

La promessa di prosperità è un’altra forma di dominio. Il piano parla di investimenti e infrastrutture, ma non restituisce sovranità. Sostituisce la libertà con la crescita, la dignità con la gestione economica. È la pace dell’“aiuto” che compra la resa, della ricostruzione che non passa mai per la restituzione del potere di decidere. Una pace paternalista, che offre risorse in cambio di obbedienza.

Nel linguaggio della sicurezza si rivela poi la radice patriarcale del piano: la sicurezza non è pensata per la popolazione civile palestinese, ma per Israele e per gli interessi occidentali. È la sicurezza di chi controlla, non di chi vive. Si disarma chi è già disarmato, si sorveglia chi è già sotto assedio. È una logica maschile e militarizzata, che confonde protezione con controllo e trasforma la paura in strumento politico. La pace, invece, non nasce dalla paura dell’altro, ma dal riconoscimento reciproco della vulnerabilità.

Il Board of Peace, organismo internazionale chiamato a “guidare” la ricostruzione, incarna perfettamente la struttura patriarcale del potere: pochi decisori esterni che amministrano la vita di chi ha già subito la distruzione. È la stessa scena che si ripete da secoli: la pace decisa da chi non ha sofferto la guerra.

Bisogna pensare un’altra grammatica della pace. Non ricostruzione, ma riconoscimento. Non normalizzazione, ma relazione. Non governance, ma autodeterminazione.

Invece di parlare di deradicalizzazione, occorrerebbe parlare di decolonizzazione: restituire al popolo palestinese la parola, la capacità di immaginare e ricreare la propria vita.

Non è quindi il momento di distogliere lo sguardo, ma occorre continuare quel movimento globale contro la guerra e la distruzione di Gaza che in queste settimane ha saputo nominare l’orrore e rispondere con la forza di chi si oppone senza cedere alla violenza, come ha dimostrato l’esperienza della Flotilla, un esempio di come sia possibile agire politicamente senza riprodurre la logica bellica.

La pace, per chi la pensa da una prospettiva femminista, non è un accordo ma un processo vivente: nasce dal basso, dal lavoro lento delle comunità, dal gesto quotidiano di chi continua a creare vita anche tra le rovine. È quella pace che non si concede, ma si costruisce insieme; che non silenzia, ma ascolta. Quella pace che – come ricorda Leymah Gbowee – non significa assenza di conflitto, ma presenza di voce.

Oggi quella voce attraversa il mondo, nei presìdi, nelle piazze, nelle università, nelle strade. È una voce che dice basta alla guerra e al colonialismo e che chiede una pace giusta, non l’ordine dei forti

da Cartavetro

Clara Jourdan cura questo Quaderno di via Dogana che accoglie la bibliografia completa di Luisa Muraro e soprattutto la conversazione del 2003, mai pubblicata, tra la filosofa e l’amica e curatrice, trascritta per la “Biblioteca de Mujeres” della Universidad Complutense di Madrid.

Chi ha seguito il pensiero di Luisa Muraro e si riconosce nel femminismo della differenza sessuale centellina questo libro e ne respira l’essenza piano, ritornando su passaggi complessi e fondamentali della storia propria e di tante altre.

Le domande di Clara Jourdan inducono Luisa a tracciare una storia personale, una biografia che intreccia passione culturale e politica e vicenda famigliare, con un preciso riferimento alla madre soprattutto e ai dieci tra sorelle e fratelli. Il clima del Veneto cattolico della sua infanzia e adolescenza la porta ad allontanarsi prima per un’esperienza di formazione a Lovanio e poi al collegio Marianum dell’Università Cattolica di Milano studentessa alla facoltà di filosofia.

Anni duri quelli della formazione universitaria, allieva del professor Bontadini, tuttavia anche fecondi per la ricerca culturale e per il modo di affrontare gli eventi, come le organizzazioni contro la guerra del Vietnam, il dissenso cattolico e la preparazione al Sessantotto. È il momento in cui conosce Elvio Facchinelli, nella facoltà occupata, e si avvicina a L’erba voglio, «un’aggregazione di donne e di uomini che avevano a che fare con le persone non adulte a vario titolo» e che riflettevano su antiautoritarismo, pedagogia, femminismo, psichiatria e antipsichiatria accanto ai temi dell’antimilitarismo e delle lotte operaie.

Ma il cuore del libro è nel racconto sulle ricerche a cui Luisa Muraro si dedica a partire dagli anni settanta, da quello che chiama “il femminismo sorgivo”, dal suo incontro con Lia Cigarini e dalla traduzione di Speculum di Luce Irigaray. Lì si incammina sul pensiero della differenza e comincia la scelta di trasformare donne anonime e vittime in soggetti parlanti della storia. Esce La Signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe, da Feltrinelli nel 1976, poi Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia e Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista, nel 1985 quando si è appena costituita la comunità filosofica Diotima, a Verona, dove Luisa nel frattempo è diventata ricercatrice. La Libreria delle donne, che ha contribuito a fondare in via Dogana 2, a Milano, compie dieci anni ed è un luogo di scambio, di attività varie, di artiste, di teatro, di cinema. È anche il luogo in cui nasce, nel sottoscala, il libro collettivo Non credere di avere dei diritti a cui fa seguito il primo libro di Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, perché, prendendo spunto da Irigaray, la differenza è pensiero.

Dalle due esperienze nasce L’ordine simbolico della madre, un libro della cui importanza Muraro si accorge grazie alle lettrici e al valore che esse attribuiscono alla sua scrittura.

Erano intanto cominciati, dopo Guglielma e Maifreda, l’interesse per le mistiche e la relazione con Romana Guarnieri che aveva portato alla luce l’opera di Margherita Porete, una beghina medievale, morta sul rogo come eretica. «Scopro questa cosa che si chiama convenzionalmente mistica femminile, questo nome divino della libertà femminile e questo nome femminile di Dio che è la libertà femminile». Il Dio delle donne, che esce per Mondadori nel 2003, insiste sulla differenza femminile e sullo spirito di libertà che le è proprio: saper rinunciare alle sicurezze delle dottrine perché «Dio possa capitare a questo mondo».

da Il Fatto Quotidiano

Il 7 ottobre segna due tragedie: l’omicidio della giornalista russa nel 2006 e il pogrom di Hamas nel 2023, entrambi simboli di repressione

Quello del 7 ottobre è un doppio drammatico ed emblematico anniversario: diciannove anni fa, l’assassinio della giornalista russaAnna Politkovskaja nell’androne di casa sua, a Mosca. Due anni fa, il pogrom di Hamas che ha provocato la morte di 1200 civili e militari israeliani e il rapimento di oltre 250 ostaggi, scatenando la spietata reazione di Israele, la devastazione di Gaza, la morte di 70mila palestinesi di cui oltre 50mila civili, molti, troppi dei quali bambini, oltre ad aver costretto alla fuga gli abitanti della Striscia, afflitti da malattie, carestia, fame.

Azioni che hanno fatto accusare (a cominciare dall’Onu) il premier israeliano Netanyahu di genocidio. Due fili della Storia apparentemente slegati e disconnessi ma che invece sono purtroppo orditi dallo stesso disprezzo nei confronti dei diritti umani, della libertà, dei principii basilari di una società civile e democratica.

Anna Politkovskaja era una giornalista scomoda per il potere, lavorava per il bisettimanale Novaja gazeta dove pubblicava inchieste documentatissime che inchiodavano apparati dello Stato, del Cremlino, delle forze armate. Corruzione, intrallazzi, atrocità in Cecenia, e soprattutto l’onnipresente ruolo dei servizi segreti, ossia gli uomini dell’ombra, le eminenze grigie che stavano di nuovo forgiando la Federazione Russa scaturita dalle macerie dell’Unione Sovietica, orchestrate dall’uomo forte del Cremlino, ossia Vladimir Putin.

È su di lui che spesso si concentra il lavoro investigativo di Anna, e sulla questione cecena, gli intrighi per appropriarsi delle risorse energetiche, l’ascesa di clan legati al nuovo presidente, gli oligarchi che avevano edificato le loro immense fortune all’ombra del sistema Eltsin (il primo presidente della Federazione russa).

I capi dei grandi conglomerati economici, a cominciare dall’onnipotente Gazprom, avevano deciso di continuare ad operare in sintonia col Cremlino: certo, non erano un gruppo monolitico ma, nella sostanza, salvo alcune eccezioni (pagate con arresti, detenzioni in Siberia, fughe all’estero o omicidi…), si erano schierati con chi stava diventando intoccabile, proprio perché la guerra in Cecenia aveva rafforzato la sua alleanza con l’esercito, e perché lui stesso era un ex del Kgb e poi divenuto capo dell’Fsb, l’intelligence sua erede.

Politkovskaja raccontò l’ascesa, spettacolare per tempismo e metodi, di Putin, per lei il Kgb era ritornato al potere, al Cremlino. Descrisse, grazie a fonti molto ben informate, il periodo più delicato della sua scalata al potere, di come si sbarazzò di giudici troppo zelanti che stavano mettendo in croce Eltsin, di come il paese venisse spartito, delle sofisticate manipolazioni per garantirsi il controllo dell’apparato statale, quello che Anna battezzò “il metodo Putin”. Il quale mal sopportava quella ficcanaso, e più volte lo disse e lo fece sapere alla diretta interessata.

Ma lei non si arrese. E firmò, così, la propria condanna a morte. Che venne eseguita, guarda la coincidenza, nel giorno del compleanno di Putin.

Diciassette anni dopo inizia la tragedia di Gaza, col pogrom di Hamas. In questi giorni, le clamorose mobilitazioni per i palestinesi hanno scosso l’apatia politica italiana, cloroformizzata dal governo Meloni. Se Politkovskaja è stata fatta fuori perché le sue rivelazioni, i suoi articoli, le sue accuse, i suoi bellissimi libri d’inchiesta erano una spina intollerabile nel fianco del potere (il processo agli assassini, dei pesci piccoli, non ha chiarito alcunché sui mandanti), dimostrandone il carattere autoritario e l’intolleranza alla libertà d’opinione (tantissimi altri giornalisti sono stati uccisi, tutti i media non allineati e i leader dell’opposizione costretti a chiudere, a emigrare o a finire sotto terra, pensate a Aleksej Naval’nyi, alle testate in esilio, alla censura dominante in Russia), altrettanto è successo in Palestina.

Pure qui, dall’ottobre del 2023 sono stati ammazzati oltre duecento giornalisti, e si è impedito alla stampa straniera di entrare nella Striscia, impedendo così di documentare ciò che succedeva. Secondo le organizzazioni che si occupano di libertà d’espressione – uno dei diritti fondamentali dell’uomo – i giornalisti locali (“gli occhi del mondo su questa atroce guerra”) sono diventati obiettivi militari. Di qui, le accuse ad Israele di non volere testimoni. I giornalisti dunque sono divenuti pure loro vittime di questa tragedia umanitaria: pagano con la vita quello che sentono come un dovere, informare, descrivere, ascoltare, vedere. E documentare.

Non poterlo fare, perché il governo Netanyahu lo ha vietato, è una situazione senza precedenti. È il lato oscuro delle autocrazie. Come ha detto una volta Julian Assange, «se le guerre possono essere avviate dalle bugie, esse possono essere fermate dalla verità». La verità, parola ormai abusata e disossata, è sempre più un vessillo lacerato. La si invoca come ci si aggrappa e si evoca la parola democrazia, quale territorio di progresso e libertà. Come ha scritto Marco Travaglio nella prefazione al libro dell’ex senatore dei Cinquestelle Gianluca Ferrara Nel nome della democrazia (GFE editore, 2025), si sta rivelando una parola vuota, in nome della quale «si sono perpetrati crimini politici e militari indicibili».

L’indescrivibile orrore che ci circonda – Gaza ci è sempre più vicina, così come lo è stata l’uccisione di Anna Politkovskaja – ci lacera dentro e ci fa chiedere: come si può giustificare tutto questo? No, non lo si può giustificare.

Da DeA – Donne e Altri

La tentazione di ridurre la violenza nelle manifestazioni a un gesto da “cretini” è un grave errore.

La violenza è il grande rimosso di ogni discorso sulla natura della politica e del potere. È stato parte di questo rimosso isolare la violenza maschile sulle donne da una storia maschile che ci riguarda tutti. Ed è una rimozione non vedere cosa accade nelle nostre manifestazioni.

È parte di una antica tradizione patriarcale quella di trasformare risentimento e rabbia nel gioco della guerra, una violenza mimata o agita, in piccole dosi, nascondendo il volto dietro un fazzoletto o nell’anonimato di un grande corteo, sempre giustificata in nome della violenza altrui, il narcisismo di imbrattare una vetrina con qualche insulto, ma più spesso una sfida di virilità.

La violenza è una visione dell’umano. Nel mondo moderno è radicata nell’espressione homo homini lupus da cui sono nate le forme della politica che conosciamo, lo stato assoluto, il contratto sociale, l’individualismo proprietario, la competizione tra maschi come modello di produzione di ricchezza (il predominio del mercato) e quella tra stati (politiche di potenza), e ogni uso politico della violenza a partire da quella sulle donne, non un fatto privato ma ciò che ordina il mondo. Una violenza ordinaria.

Anche nelle manifestazioni va in scena la vita come perenne stato di guerra.

È la stessa cultura che porta i soldati israeliani a usare violenza fisica e morale sui componenti di Flotilla che hanno prigionieri e negli Stati Uniti, con Trump, a fare della guerra la misura stessa dell’agire politico, nelle stesse relazioni tra cittadini. È la stessa cultura che giustifica la distruzione altrui.

Pensare che la violenza non vada utilizzata perché “si fa il gioco del nemico” è una gigantesca sconfitta politica, una rimozione che condanna all’eterno ritorno della violenza.

Nel 1920 Lenin aveva definito l’estremismo (il “sinistrismo”) come malattia infantile del comunismo. Certo non si riferiva agli scontri in strada, stava piuttosto riportando la questione al rispetto necessario in un partito rivoluzionario alla “disciplina di ferro”, all’obbedienza. Cioè a un’altra forma di violenza.

La tradizione politica che abbiano ereditato dal novecento, volenti o nolenti, ha sempre fatto fatica a misurarsi con la violenza. In fondo «la rivoluzione non è un pranzo di gala» e il Palazzo d’Inverno lo si assalta “scendendo in strada”.

Dopo le distruzioni portate da due guerre mondiali, l’attacco alla libertà dei fascismi (la violenza come estetica più profonda dell’umano) e la minaccia della distruzione atomica, la pace è stata coltivata come un equilibrio necessario. Ma sulla violenza c’è stata poca chiarezza, perché affrontarla significava mettere in discussione un ordine molto più profondo.

Il femminismo radicale degli anni settanta, si è invece misurato con la violenza a partire dalle proprie relazioni. Ha fatto cadere ogni alibi ai “compagni maschi” e al loro uso della violenza, nel pubblico come nel privato, in strada come a letto.

La critica femminista alla violenza a maschile non è stata né un richiamo al pacifismo né alla nonviolenza. Il pacifismo è una scelta etica, la nonviolenza una pratica di conflitto politico che delegittima l’avversario mettendolo di fronte alla sua stessa violenza.

Quelle donne si sono riprese la vita reinventando la differenza sessuale, la scelta di essere donne, in relazione tra loro ma ciascuna con la propria singolare libertà e soggettività.

«Comunichiamo solo con donne» scrisse Carla Lonzi. Era anche una apertura di conflitto con gli uomini, un invito a farcela da soli, senza il sostegno femminile al patriarcato, il cui credito le donne avevano lasciato cadere dentro di sé.

Lasciavano così una eredità politica anche agli uomini. Che possiamo tradurre in una serie di domande che noi maschi possiamo rivolgere a noi stessi.

«Chi siete, chi vogliamo essere?»

Perché usiamo i nostri corpi per fare violenza? Perché ci identifichiamo così facilmente in un corpo solo, lo stato, la rivoluzione, il partito, la squadra, il cordone nel corteo? Perché abbiamo accettato che il nostro corpo fosse cancellato, rimosso, usato nei campi di battaglia, ma anche nel modo di pensare le città e il lavoro? Perché abbiamo trasformato il nostro desiderio in una giustificazione per accedere ai corpi delle donne con la violenza, disconoscendo l’autonomia del loro desiderio?

Che immagine abbiamo di noi stessi, del nostro corpo, della nostra sessualità? Perché abbiamo usato il nostro corpo che non genera in uno strumento di conquista del mondo senza limiti e misura? Perché silenziamo le emozioni? Perché rendiamo disponibile il corpo al peggio, lo rappresentiamo come non desiderabile, non godibile, e lo rivestiamo con divise, appartenenze, identità? Perché facciamo dei saperi delle protesi di noi stessi il cui valore è direttamente proporzionale al prescindere da sé, legittimato da astrazione, universalismo, “oggettività”, valori assoluti?

La libertà femminile ha cambiato anche gli uomini, ha cambiato me. Ma queste domande sono rimaste fuori dalle priorità di quel che rimane delle culture politiche tradizionali, a volte anche per le donne per cui il femminismo è emancipazione. Fare politica a partire da esse è stato difficile.

Il femminismo ha messo al centro della politica la sessualità. E questo ha cambiato il modo di leggere la violenza. Ne ha fatto – della violenza – un problema politico di prima grandezza, cogliendo il nesso tra la violenza che circola normalmente nelle nostre relazioni, primariamente tra uomini e donne, e la dismisura maschile che arriva a fare la guerra ai civili. La scena della guerra è tutta patriarcale in ogni sua forma.

«Sento il calore della comunità operaia e proletaria, tutte le volte che mi calo il passamontagna», aveva scritto Toni Negri nel 1977, in Il dominio e il sabotaggio, non per rivendicare la lotta armata, a cui era contrario, certo per épater les bourgeois e il riformismo. La violenza come autovalorizzazione operaia e aggiungeva «senza potere nessuna autovalorizzazione operaia». La violenza come “filo razionale”. Nello stesso anno Lea Melandri, ne L’infamia originaria indagava il nesso tra il misconoscimento maschile della sessualità femminile, l’identificazione di sé attraverso un atto di espropriazione, e la sua storica passione per il potere. Un regime di “sopravvivenza” da scardinare con la vita, «il cibo e l’amore, la sessualità e il fare, il gioco e la necessità non possono che rinascere insieme».

Poi mesi dopo il dibattito sulla possibile liberazione di Aldo Moro mostrò quanto fosse per tutti misurarsi con la violenza.

Molti anni dopo, invece, Luisa Muraro rivendicava la figura dell’autorità (femminile) contro l’autoritarismo. Sottraeva l’autorità all’essere usata come strumento per l’ordine sociale per ridarle la possibilità di essere una figura dello scambio nelle relazioni, che dà forza prima di tutto a chi non ha potere. Ai miei occhi è anche un modo per scardinare la dimensione mortifera dello sguardo maschile su di sé, che si cela anche dietro l’eroismo. «Si può combattere senza odiare, disfare senza distruggere, lottare senza farsi distruggere», scrive riflettendo sulla violenza.

Sono le domande che si sono fatte in tante e in tanti nell’esperienza viva delle “Resistenze” (magari le guerre di liberazione un po’ meno), dovendo fare in ogni istante i conti su quanto l’uso della violenza difensiva cancelli una parte di ciò per cui combatte.

Non parlo di quelle tradizioni politiche che hanno esplicitamente nel loro bagaglio la rivendicazione della violenza come strumento di potere che conserva e naturalizza la disparità sociale. Non ce n’è bisogno.

Mi interessa di più il fatto che la violenza cancelli anche il conflitto, quindi ogni trasformazione. Non è anche per questo che le rivoluzioni guidate dai maschi, con i migliori propositi di giustizia e libertà, falliscono?

Oggi chi sa fare i conti con la violenza? Chi sa dire qualcosa che non sia solo una generica e a volte poco veritiera condanna morale? Il limite più grande delle posizioni etiche è quello di delegittimare la violenza ponendosi ai confini della civiltà, come quando si dice che il violentatore è un “mostro”, un “degenerato”, un “malato”, un “ignorante”, un barbaro straniero. La violenza viene così fatta coincidere con l’alterità a ciò che definiamo civile e umano. Ma è proprio questo che le consente di stare al fondamento delle civiltà e di riprodursi tra noi, in ciascuna delle nostre vite.

Più fingiamo di poterla allontanare da noi stessi e più non vediamo di quanto ne siamo ancora fatti. Scompare la possibilità di lavorarla politicamente, cioè di fare un lavoro personale e politico. Sono sempre gli altri ad essere violenti.

È così che le bombe possono radere al suolo l’umano e in tanti possono voltarsi dall’altra parte.

da lucysullacultura

«Quando un uomo si dichiara femminista, tirati su le mutande» dice Natalia Aspesi. Questo è il primo impulso di qualunque donna avvertita davanti a un uomo che si dichiara femminista. Se questa è anche la vostra paura di fronte al nuovo libro di Francesco Pacifico, La voce del padrone (add editore), potete rilassarvi. Pacifico, a differenza dei molti autori maschi che ormai affollano mestamente le sezioni “femministe” delle librerie, femminista non si dichiara mai. Anzi, fin dal principio premette ciò che tutte sappiamo: un uomo non può essere femminista, perché il femminismo realizzato presuppone che l’uomo abbia meno privilegi materiali di un tempo – ed è ovvio che qui non ci siamo ancora arrivati. Pacifico suddivide dunque gli uomini in “conservatori” e “progressisti-capibara”. I primi lo sappiamo cosa professano, mentre i secondi sono più subdoli. Si dichiarano entusiasti del femminismo, come se le loro vite non fossero intaccate dal movimento.

Pacifico si avvicina al femminismo grazie a sua moglie. Lavorano nello stesso ambito, e in appena una decina d’anni lui sostiene che lei sia diventata più ambita, più “amata” di lui. Qualcosa è successo negli ultimi dieci anni, complice anche il MeToo, qualcosa che in realtà si stava preparando da molto più tempo, con le donne che sono più brave negli studi, più determinate, più indipendenti economicamente e quindi meno disposte a sopportare gli uomini. Parallelamente a questa maggiore libertà e assertività femminile, monta la frustrazione maschile per gli antichi privilegi sbeccati; sebbene questo scenario riguardi tutti, per molto tempo si è creduto che questa frustrazione appartenesse solo a uomini abietti e ai margini. Incel, estremisti, lubrici vecchi che postano foto delle loro mogli online quando non le offrono direttamente al… primo che passa, ovvero a un uomo qualunque. E infatti, dice Pacifico – così come Francesco Piccolo, un altro scrittore che si è spesso occupato di questi temi – gli stessi sentimenti che abitano questi uomini abitano anche tutti gli altri. Paura di perdere il posto, paura di rimanere soli, paura dell’abbandono, paura di essere visti per ciò che si è e non per ciò che si vuole far credere di essere. Questo è un libro che dovrebbero leggere gli uomini, scrive Pacifico, ma temo che lo leggeranno soprattutto le donne, dico io, e che lo troveranno più o meno ingenuo, più o meno tenero, più o meno sincero, più o meno intelligente. Io ho trovato che fosse più o meno tutte queste cose, ben scritto come tutto ciò che scrive Pacifico. Il tentativo riuscito di un uomo di fare autocoscienza – anche se non può dirlo – dopo aver letto e frequentato donne liberate, e che arriva a cinquant’anni alla conclusione a cui tutte noi siamo arrivate a dodici: più se ne parla, meglio si sta. Così ne abbiamo parlato.

[…]

Nel libro tu dici di avere paura. Paura che non ci sia più posto per te nel momento in cui la concorrenza raddoppia a causa delle donne. Ho chiesto ai miei amici se per loro era lo stesso. Mi hanno risposto di sì, con qualche esitazione. Mi ha stupito perché spesso si dice che gli uomini hanno paura delle donne, ma a dirlo sono le donne, cosa che mi è sempre sembrata arrogante. D’altro canto, quando ho posto la stessa domanda alle donne, cioè se avessero paura della concorrenza maschile o femminile sul lavoro, mi è stato risposto di no. Anzi, molte di loro mi hanno detto che non ci hanno mai pensato troppo perché sono in generale contente di lavorare e stupite dai buoni risultati e tendono a non vedersi sostituibili come individui da altri o altre.

Secondo me l’elemento che spiega la differenza di visioni è la gerarchia. Noi siamo stati talmente educati all’idea della gerarchia da sapere sempre chi è sotto di te e chi è sopra di te. Sicché tutto fa paura, perché tutto è in continuo movimento. La vita lavorativa non si armonizza con la propria identità, ma si concentra solo su dove stai piazzato te nella gerarchia. La gerarchia è un elemento chiave nella nostra percezione di lavoro e competizione. Per questo si è sostituibili, perché si occupa una casella in una piramide.

Poi c’è il tema della paura degli uomini davanti a questi argomenti. Ieri ho fatto un incontro al festival di Tlon a Piacenza, Conversazioni sul futuro. A un certo punto il compagno di una femminista mi ha chiesto: «Secondo te c’è un modo per far capire alle donne che alcuni uomini vogliono impegnarsi e non sono come gli altri?». C’è stata una pausa molto densa e poi ho risposto «No». Lui aveva una faccia molto aperta, molto buona. Abbiamo sentito le risate delle donne. Non si possono convincere le donne della propria bontà. Dopo questi anni passati a discutere con le femministe mi pare che la questione sia l’attitudine, la disposizione. Forse la postura […]. Ma gli uomini non vogliono mai essere colti in castagna, pensano di doversi mostrare zelanti o dover spiegare fino allo sfinimento di essere “bravi”.

Tu scrivi che “l’autocoscienza di genere” esiste nel momento in cui si fa parte di una categoria marginalizzata. Sto semplificando naturalmente, ma diciamo che nel potere che gli uomini hanno detenuto così a lungo risiederebbe la ragione dell’assenza di autocoscienza. Se niente ti mette in discussione, non ti frammenti mai e non puoi riflettere su te stesso. E questo avviene perfino quando la tua vita non ti soddisfa poi così tanto, perché come scrivi tu neanche all’uomo andava di tornare a casa, avere una moglie che gli rompeva le palle, i figli che magari non voleva avere, essere l’unico a lavorare, per non parlare dell’andare a morire in guerra.

Qui hai toccato il punto fondamentale. Non potendo essere femminista, perché sono uomo, l’ho scritto dal nostro punto di vista, cercando di capire cosa la struttura patriarcale ci ha portato via. E io credo che il genere maschile sia oppresso dalla gerarchia. Basta pensare a Cristiano Ronaldo, che malgrado sia un giocatore stratosferico sembra sempre che debba convincerti di esserlo, perché ha avuto la sfortuna di essere della stessa generazione di Messi che ha vinto più palloni d’oro.

Carla Lonzi dice una cosa bellissima, ovvero che sia la religione sia l’arte come ambiti dell’espressione umana sono stati ridotti dalla cultura patriarcale (traduco a parole mie) a una serie di gerarchie, tassonomie, elenchi di cose da fare, classifiche. La religione e l’arte sono state due componenti fondamentali della mia biografia, e ha ragione Lonzi: lo spirito quando cerca l’arte e la religione scivola spesso in secondo piano perché queste due frequenze della vita sono usate a fini gerarchici. Chi è più buono, chi è più bravo.

Quindi il punto è che secondo me gli uomini sono oppressi da se stessi e anche dalle bugie in cui credono. Lonzi dice che la donna è oppressa dall’aver creduto al mito dell’uomo.

Sì, mia madre dice che gli uomini sono tutti Maghi di Oz, ombre enormi e potentissime proiettate da uomini minuscoli e privi di incanto dietro una tenda verde.

Sì. Ma a quel mito ci hanno creduto pure gli uomini! Quando ti accorgi che non vuoi partecipare a quella gerarchia ti rendi conto che magari tecnicamente è difficile, ma dal punto di vista spirituale lo è un po’ meno. Disinteressarsi alla gerarchia è il punto di partenza secondo me per capire anche i grandi vantaggi della vita femminista. C’è un’immagine che io cito sempre: una volta ho letto che nel Medioevo le vedove a volte costruivano delle case attaccate ai conventi per vivere con qualcuno, perché ovviamente a quel punto non valevano più niente in quanto vedove, e volevano appoggiarsi ai monaci. Io immagino la stessa cosa, case di uomini orfani della gerarchia che si appoggiano ai monasteri di femministe.

(Non so come suonerà questa cosa una volta trascritta).

Senti, ma questa ferita gerarchica maschile secondo te è biologica o culturale?

La cosa che mi ha più scioccato leggendo Il secondo sesso di Simone de Beauvoir è che lei passa un sacco di tempo a spiegare la biologia della femmina del mammifero umano dicendo mamma mia che mammifero sfortunato ma poi rovescia tutto dicendo: «noi siamo esistenzialiste, noi crediamo che l’esistenza sia il compimento della natura umana e quindi trascendiamo la biologia». Io ispirandomi a lei dico la stessa cosa sul maschio: mettiamo pure che certe cose vengano dalla natura; che il maschio alfa esista nel branco – comunque lo scopo della nostra vita è trascendere la biologia.

La stessa cosa che Simone de Beauvoir ha scoperto sulla biologia, io la penso di tutto ciò che di violento, di gerarchico possediamo in quanto uomini e che magari è insito nella nostra natura: si può trascendere.

Mio nonno diceva: «Quando sono nato io, avevo quattro serve: mia figlia, mia madre, mia moglie e la serva vera e propria, perché al tempo se avevi un po’ di soldi ne avevi una fissa. Ora che sono vecchio non ne ho manco una. Ho divorziato, mia figlia non c’è più, mia madre è morta e non ho più soldi per avere una serva fissa. La qualità della mia vita è peggiorata notevolmente».

Bene, hai praticamente fatto un ritratto della crisi del maschio. Questo è un punto fondamentale anche per me perché la crisi del maschio ha due facce e ovviamente questa è la faccia ridicola – anche se è bene tenere presente che quando un popolo decade diventa violento. E poi l’altra faccia è invece quella che riguarda la gerarchia: l’uomo è oppresso dalla gerarchia che ha creato e quindi si deve sfogare su questo essere – la donna – che lui stesso ha dichiarato inferiore e che gli serve per tollerare la propria oppressione.

Ho dovuto molto sforzarmi per scrivere degnamente di queste cose perché suoniamo molto ridicoli – il vero problema è quello che ha detto tuo nonno. Io nel libro cerco di dare una dignità narrativa al fatto che se vado al festival femminista organizzato da mia moglie penso mia moglie mi sta levando il lavoro. Mia moglie è l’esercito di riserva… Questo è il livello. La teoria della sostituzione etnica siete voi donne. Capito? E questi sono pensieri che dobbiamo reclamare, dobbiamo dire cosa sentiamo, anche se sono cose brutte, meschine, perché quella pancia spaventata non la usino solo i reazionari. Tutto l’umorismo di destra recente (Pepe the Frog…) è brutale perché dice che la realtà è più brutale di quanto non si dica a sinistra. Allora voglio essere io a dire che la realtà è brutale. La realtà è che se io sono stato abituato a vincere sempre su una donna e mi viene tolta questa vittoria sarò uno stronzo che sta male. E questo però ci porta a un fatto fondamentale: dobbiamo fare i conti con un soggetto politico che non ha più a disposizione una cosa che pensava che gli fosse dovuta.

Nel libro c’è un capitolo sull’adolescenza. Tu incredibilmente hai tenuto dei diari, cosa che ti invidio molto. Pagherei oro per aver tenuto dei diari in adolescenza. Dai tuoi emerge il ritratto di un ragazzo che sta vivendo secondo dei falsi desideri che gli sono stati forniti dalla famiglia, dalla società, dalla scuola, da tutto quello che ha intorno. Così non riesce neanche a individuare qual è il suo desiderio più autentico, soprattutto nei confronti delle donne. Questa cosa l’ho trovata interessante. Tu dici: «Questi sentimenti adolescenziali sono molto simili ai discorsi degli Incel». E in effetti queste ragazze nel tuo diario sono sempre una proiezione della tua onnipotenza o della tua frustrazione, no? Però mi chiedo se questo vissuto non sia un prodotto dell’adolescenza più che del genere. Cioè che tanti adolescenti, maschi e femmine, abbiano questo tipo di impulsi, di pensieri. Se potessi leggere i miei pensieri dell’adolescenza credo troverei delle cose analoghe alle tue.

A volte infatti mi chiedo se non esistano due tipi di evoluzione per quanto riguarda le dinamiche di genere. Una filogenetica, cioè della specie umana, che ora si trova a fare i conti, in Occidente, con questo grande cambiamento. L’altra invece è ontogenetica, cioè si dispiega durante la vita dell’individuo. E mi pare che questa seconda faccia sì che fino ai venti, venticinque anni le dinamiche tra generi siano più “primitive”, e quindi patriarcali. Poi all’improvviso cambia proprio il panorama valoriale, le femmine scoprono il femminismo, si scoprono brave a studiare e via dicendo. Mi chiedo se la prima dinamica, quella più classica rispetto ai ruoli di genere che vediamo in adolescenza sia influenzabile da una diversa educazione o cultura.

Nei libri di psicologia ho letto che una crescita psicologica sana consiste nel vivere anche un periodo in cui sei sottomesso all’ideologia degli adulti che hai intorno. Poi te ne distanzi. Essere completamente sganciati dall’influsso degli adulti è praticamente un disturbo psichico. Io però ho visto figli con disturbi simili ai miei trovarsi davanti genitori che si sono messi a studiare come capirli meglio, e quei disturbi sono passati. L’ho visto sia in bambini figli di donne molto interessate dall’educazione, sia in bambini figli di femministe, che quindi applicano una loro cornice educativa.

E ho visto nei maschi una varietà di espressione emotiva – in quelle famiglie – che mi fa pensare che il maschio becero tredicenne sia il prodotto del mancato ascolto da parte dei genitori della sua parte emotiva. Nel concreto, a un certo punto una mia cara amica ha iniziato a incoraggiare e ascoltare le emozioni del figlio, perché lo aveva visto un po’ sfasato. Il figlio è improvvisamente diventato una creatura molto più articolata, che non rimaneva intrappolato nelle solite due reazioni in croce.

Io vedo figli di femministe molto forastici, ma al tempo stesso con aspetti che noi da piccoli avremmo definito “da femmina”. Poi certo, magari sei parte di una famiglia tradizionale, borghese o meno, frequenti una scuola pubblica italiana, ci sta che tu sia incasinato e contraddittorio, però quella parte dell’espressione secondo me è fondamentale e infatti io penso di non aver avuto l’infanzia giusta per me. Ero troppo delicato per diventare un maschio etero che aspettava il primo bacio e imparava a giocare a pallone.

Se avessi espresso cos’ero da piccolo mi avrebbero massacrato. Agli scout dovevo sempre dominare le situazioni perché quando non lo facevo venivo subito trattato come un freak.

Mi sembra sia stata Ferrante a far notare che l’Arturo di Elsa Morante è in realtà una femmina, perché fino ai dodici anni gli uomini non sono ancora uomini. È una cosa che io mi sto chiedendo molto davanti a mio figlio maschio appena nato, perché penso che adesso lui è femmina, ma prima o poi diventerà maschio.

Ti dico solo che agli scout mi resi conto che dovevo cambiare il modo in cui mi sedevo, cioè con le gambe ripiegate da una parte, un po’ a sirena. Ai maschi viene detto di nascondere le proprie parti da sirena, e di imparare a dominare.

Mi sorprende sempre quanto gli uomini accettino di essere soli… Non so quanto tu segua TikTok, però mi fanno molto ridere i video delle fidanzate che danno al fidanzato le liste di cose da chiedere agli amici. Tipo se un amico di lui si lascia, le fidanzate gli danno una lista per sapere perché, chi ha tradito chi, chi ha detto cosa. A prima vista sembra solo un modo per fare pettegolezzo – un termine malvisto, associato al mondo femminile ma che, se ben fatto, è letteratura, è psicologia, è introspezione – ma che in realtà è un modo per conoscere meglio l’altro. Tutt’ora io ho amici maschi che non parlano tra di loro delle cose che gli capitano. E questo non può che generare malessere. I sentimenti violenti, brutali, negativi si esorcizzano anche rivelandoli a una persona fidata.

L’altro giorno a Milano Francesca Coin a una presentazione mi ha detto: «Sono contenta che esista questo libro perché almeno ho saputo un po’ cosa pensano gli uomini». C’è un mistero dato dal fatto che neanche tra di noi (non io personalmente) ci chiediamo le cose importanti.

Io non frequento gruppi di soli uomini. L’ultimo è stato il calciotto, è finita molto male. C’è questo movimento molto più vario che sento nei gruppi di donne, che si costruisce anche sul parlare, sul gossip, sul raccontarsi i vari fatti, gli amanti, i litigi. Ovviamente ci sono uomini che mi piacciono molto. Certi baristi del quartiere, certi musicisti. Però se dovessi descrivere in maniera puntuale com’è sedersi a chiacchierare con un uomo… Abbiamo gli attacchi panico, ci vogliamo suicidare, andiamo dallo psichiatra, ma non possiamo sederci e dire «Ciao, mi sento così e cosà». Il mio migliore amico, che invece è un uomo meraviglioso, una volta, mentre eravamo seduti a un tavolino mi fa: «Guarda quelle tre». Erano delle donne sulla trentina. Una stava raccontando un fatto alle altre due, e lui mi disse: «Guarda l’attenzione con cui loro due stanno ascoltando quella che sta parlando, guarda come sono protese in avanti, hanno questi occhi tutti trasparenti, e stanno reagendo alle cose che sta dicendo l’altra. Guarda che bello».

Che poi sono le cose che ho imparato da Francesca, mia moglie. Come si sta ad ascoltare qualcuno.

[…]

L’articolo originale in versione integrale può essere letto qui: https://lucysullacultura.com/e-la-gerarchia-che-frega-gli-uomini-non-il-femminismo-intervista-a-francesco-pacifico/