Se le assenze sono dolorose constatazioni di ciò che non torna
Niccolò Nisivoccia
6 Settembre 2024
Da il manifesto – La nuova raccolta di Cettina Caliò, L’estremo forte degli occhi, pubblicata dalla Nave di Teseo (pp. 80 euro 18), prende il titolo da due versi di una poesia che vi troviamo collocata più o meno al centro: «nell’estremo forte degli occhi/ mai si stanca la sorte di accadere». E forse non è casuale, la collocazione centrale di questi due versi, perché è nella constatazione che esprimono che va cercato il significato più essenziale della raccolta. Va detto che non si tratta di un poema e che l’idea stessa di individuare per forza un nucleo tematico centrale, che tenga insieme le singole poesie, potrebbe essere considerata arbitraria. Non solo: il fatto in sé che i versi appaiano spesso imprendibili, nei loro singoli contenuti semantici, potrebbe perfino sconsigliare di coltivarla, un’idea simile.
Ma il punto è che sembra aver ragione Elisabetta Sgarbi, quando osserva, in epigrafe, che sono poesie in cui «Si entra accompagnati da un’immagine lieve e si impara per negazione nel poco a poco in rovina». Perché è questo senso di «negazione» e di «rovina» ciò che tutte le poesie della raccolta sembrano avere in comune l’una con l’altra, seppur nelle differenze di ciascuna: è il senso di un vuoto, di un’assenza. D’altronde qualcuno sostiene che scrivere è sempre raccontare un’assenza: e qui in effetti è come se, poesia dopo poesia, l’io poetante non facesse altro che questo: raccontare un’assenza – continuamente evocandola e convocandola, un’immagine dopo l’altra, quasi narrativamente. Esisteva, quell’assenza, è stata presenza in carne e ossa nella vita di chi ora le sta parlando: corpo, sensi, odori, sapori, gesti. È più di una semplice assenza: è una scomparsa, dunque ancor più dolorosa. Al tempo stesso, è come se le parole servissero anche a ricomporre i pezzi dello sgretolamento e della rovina che quella scomparsa ha procurato nell’esistenza di chi le è sopravvissuto.
Come se, in realtà, scrivere fosse uno strumento, oltre che di lacerazione, anche di purificazione: un modo, oltre che per raccontare un’assenza, anche per recuperare una presenza, assumendola e tenendola dentro di sé (come quando, rivolgendosi a quell’assenza, l’io poetante le dice: «Tu che mi diventi biografia»). O quantomeno come un modo per «reggere la frattura del vuoto», e cioè quantomeno per ritrovare un proprio posto, una propria collocazione nella vita che intanto continua a scorrere, anche se «in mezzo/ siamo stati già sconfitti».
L’unica possibile salvezza è in quell’accettazione delle cose a cui allude la constatazione dei versi che danno origine al titolo: nel prendere atto, da parte dell’io poetante, che si può vivere solo come si può («Come posso/ dove posso/ fino a qui/ dopo di me non so»). È tutto già accaduto, e tutto quel che è stato non può essere né omesso né dimenticato: ne «paghiamo le notti in sudore» e «facciamo l’alba sui vetri/ con le dita», ma dobbiamo fare «come se/ non lo sapessimo ancora».
E da qualche parte non è detto tuttavia che non possano ancora essere vissuti dei momenti di grazia, quasi pacificati: «voglio rimanere fra le tue cose», leggiamo infatti in uno dei versi finali. E poco dopo, addirittura: «dovendomi vivere/ mi sorrido fra le fughe/ del tuo esistermi/ in azzurre risonanze di grigio/ e ringrazio ogni cielo». Ecco: come una forma di definitiva inscrizione dell’altro dentro di sé, non più solo biografia ma parte acquisita della propria autobiografia.