Se i migranti sono più uomini che donne
Paola Mammani
13 Febbraio 2024
Riprendo in queste note, a mio modo, alcuni dei temi trattati nella redazione allargata di VD3 sull’immigrazione, domenica 3 febbraio 2019. Penso che il discrimine della differenza sessuale sia cruciale non solo per le donne migranti, ma per noi tutte. Le prime, come è stato detto, spesso soggette a violenza, se noi non facciamo la differenza non ci parlano, non parlano in un contesto in cui sono presenti anche gli uomini. Alcune di noi, d’altro canto, sono messe in affanno quando i migranti sono più uomini che donne.
Le migranti, in questo paese, non hanno determinato quasi alcun problema. Generalmente, grazie a relazioni tra donne anche faticose e impegnative, hanno piuttosto aiutato a risolverne molti.
I migranti se non hanno una donna che li accompagni, che li abbia voluti accanto a sé, che li abbia qui richiamati dal paese di origine ed introdotti, che insomma se ne faccia garante, possono essere un problema. Per me è così.
Si riducono i luoghi della città in cui giro sentendomi relativamente libera e serena, a causa della presenza di nutriti gruppi di uomini. Ho smesso di usare i mezzi pubblici di sera tardi, per la presenza quasi esclusiva di uomini che non mi capiscono e di cui non capisco la lingua o il cui colore della pelle rimanda a civiltà di cui non conosco i codici e nelle quali so che il posto delle donne è quello della soggezione. L’argomentazione che la maggioranza degli stupri sono commessi dagli uomini che ci sono più familiari, non basta a convincermi che non sia più che opportuno scansare quei luoghi.
Certo non rincuora, come ci raccontano le più intraprendenti di noi, fondatrici di associazioni, animatrici attive di politica, che studiosi, attivisti, affiliati a più famose e potenti “associazioni nazionali”, donne non escluse, non colgano la centralità della differenza sessuale. Gli pare efficace, per invalidarne l’importanza, notare che anche gli uomini vengono stuprati dai loro simili. Pare loro che venga enfatizzata la violenza sulle donne, se agita da immigrati. Non vedono le migranti prostituite e i loro prostitutori, ma si concentrano sui diritti delle lavoratrici del sesso. Mi chiedo se si può fare qualche cosa per dare loro la sveglia, perché vedano che quanto di intollerabile viviamo a motivo delle migrazioni è un problema di uomini, italiani e stranieri, è un problema di violenza maschile.
E mi chiedo se la nostra libertà di donne esiga di non arrenderci alle migrazioni come fatto ineludibile, di non avallare la previsione dell’irreversibilità degli attuali movimenti migratori.
Per me il bene è che questo fenomeno, per i modi e i motivi per cui si manifesta, abbia fine. Che le guerre, le carestie, le siccità indotte da interventi umani sciagurati, abbiano fine. Che i migranti possano restare sulle loro terre a custodirne integrità e fertilità, che si interrompa la forzata sconnessione degli uomini dalle donne.
Riflettendo sulle parole che comunemente vengono usate, non voglio negarmi la possibilità di dire aiutiamoli, qui da noi o a casa loro, se è di aiuto che hanno bisogno, ma voglio dire essenzialmente che a casa loro bisogna smettere di depredare e cominciare a restituire, a risarcire, e penso soprattutto all’Africa. Si tratta di riparazioni di guerra, perché di una guerra si è trattato, secolare, di ininterrotta strage, schiavitù e rapina.
Mi pare che si debba continuare a dirlo forte e chiaro e che è su questo punto che si deve trovare uno spiraglio per cominciare a intervenire. Poi molti modi civili e sensati di promozione o di risposta positiva alla domanda di immigrazione possono essere trovati, tenendo fermo il punto della differenza sessuale e mantenendo al primo posto la libertà femminile. Due esempi di cura e attenzione possibili: accoglienza prioritaria di donne migranti che vogliono sottrarsi alla violenza di padri, fratelli, mariti; informazione diffusa tra le donne italiane sulla legislazione e sulle usanze prevalenti nei rapporti fra uomini e donne nei paesi di provenienza dei migranti.
Resta il fatto che deve essere garantita una vita degna a quelle e quelli che già vivono in Italia e che degnamente dovranno essere accolti quelli che ancora arriveranno.
E non vorrei privarmi della parola accoglienza “solo” perché quella di Stato si è rivelata ennesima occasione di criminalità e violenza.
La tesi che l’abitare, la convivenza in quanto tale, sarebbe la via per volgere in accoglienza, in libera accettazione quel che spesso proprio nella vicinanza è paura, lontananza, avversione, non mi pare convincente. Certo è il punto di appoggio su cui far leva, sulla e nella convivenza si combatte la battaglia della relazione con i migranti. Se perfino l’abitare manca, siamo nella disperazione dei Cara, delle baraccopoli, dei palazzoni fatiscenti occupati, frutto di decenni di inerzia di tutte le forze politiche del paese.
Abbiamo pieno titolo ed esperienza sufficiente per discuterne, grazie alla presenza attiva nostra e delle nostre simili nella società, grazie alla “politica prima” che molte donne praticano, grazie al tanto, fatto e detto, per promuovere una degna permanenza di minori, donne e uomini migranti, là dove eravamo e siamo, nelle scuole, negli ospedali, sui tram, nelle nostre case come nelle imprese ed associazioni di donne, a garanzia del passaggio dalla prima, semplice accoglienza alla ricchezza della relazione.
Uno dei punti di svolta possibili sembra essere dato, come a Riace, da una comunità che ritrova un proprio, preciso interesse nell’accogliere i migranti. Se non è la Confindustria a convincere del bisogno che abbiamo di immigrazione, può essere, paradossalmente o forse non tanto, la parte più debole della popolazione, quella che può trarre immediato profitto da questa forza giovane, la forza che nell’invecchiamento viene a mancare, che manca alle campagne incolte, ai boschi abbandonati, a un grande e antico patrimonio edilizio altrimenti destinato al degrado. Vi è una mobilitazione possibile in questa direzione, Riace lo dimostra.
Cambiando scenario: anche negli spazi delle grandi città, mettendo al centro il “primum vivere” e non rimanendo incastrati dal ricatto del lavoro che manca, si potrebbe pensare al reciproco beneficio di scambi non convenzionali, inventando, agevolando forme di vita che permettano mescolanza e convenienza. Anche i poveri di certi degradati agglomerati urbani, potrebbero per tali vie trovare nei migranti una ricchezza.
A me pare che la maggiore presenza politica delle donne nella vita pubblica, a partire dalle città, può applicarsi al meglio a tutti i temi affrontati. Potrebbe provare inoltre a eludere la via delle burocrazie, degli stati nazionali e delle bande criminali, per creare un flusso di ricchezza da indirizzare attraverso donne e uomini migranti nei paesi di origine, perché vi tornino più forti e ritemprati o aiutino chi è rimasto a realizzare progetti, avviare imprese: per riportare ricchezza che è cosa varia, fatta di denaro, certo, ma come sempre ripetiamo, forse prima di tutto di pensiero, parole e relazioni.