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Da più di vent’anni collaboro con Il Quotidiano del Sud – Calabria dove dal 2019 ho una rubrica settimanale che ho chiamato “Io, Donna”, nata dal mio desiderio. La redazione di Via Dogana è arrivata una settimana dopo il convegno a Torreglia dal titolo “Incontriamoci… così come siamo… sulla soglia”, organizzato da Identità e Differenza e dalle Città Vicine. In quella occasione ho raccontato il senso politico della mia scrittura, che ben si lega al tema “Lingua è politica” di cui abbiamo discusso nella redazione. La rubrica oggi è il mio luogo privilegiato in cui faccio politica – per me scrivere è sempre stato un atto politico – che porto avanti con le pratiche del femminismo: partire da sé e relazione. Mi relaziono con le donne a cui mando i miei articoli, con la redazione del sito della Libreria delle donne a cui li faccio arrivare con la mediazione di Clara Jourdan, e a volte vengono pubblicati.  

Mi relaziono in particolare con Katia Ricci della Comunità di Storia vivente di Foggia. A lei faccio leggere i miei articoli prima di inoltrarli al giornale, ne parliamo, mi dà suggerimenti e io mi affido al suo giudizio. Una pratica che mi dà forza e sicurezza. Di fronte a ciò che succede nel mondo e di cui voglio scrivere non sono obiettiva ma mi ci metto dentro, mi faccio coinvolgere con il mio sentire, il mio sapere, i miei sentimenti, le mie passioni, il mio femminismo. Insomma mi lascio toccare dalla realtà che cerco di leggere e capire, facendomi aiutare dalle parole di donne del passato e del presente a cui faccio riferimento. Scrivo sempre dopo essermi data un tempo di silenzio, di cui ho bisogno per capire quello che mi sta a cuore e trovare le parole giuste per dirlo e farmi capire da chi mi legge. Infatti, non dimentico mai che sto scrivendo per un quotidiano. Immergermi nella realtà con tutta me stessa fa tutt’uno con la lingua sessuata che uso per narrarla. Quando molti anni fa da docente di filosofia chiesi a Luisa Muraro come insegnarla, lei mi rispose: «Tu insegni la filosofia che sei». Ecco, io parlo e scrivo la lingua che sono, la donna che sono, donna della differenza sessuale.

Quando sono arrivata al giornale, il direttore mi consegnò un “Prontuario per l’unificazione del linguaggio” in cui il linguaggio neutro maschile era la “norma”. Sin da allora mi sono autorizzata a non seguire quel prontuario e a scrivere nella mia lingua. Ero l’unica a usare il linguaggio sessuato ed è capitato che donne della redazione lo correggessero, ritenendolo sbagliato. Spiegai loro che quella era la mia lingua che rendeva riconoscibili i miei articoli, correggerla voleva dire che quegli articoli non mi appartenevano più perché non rispecchiavano la mia soggettività. «Io non vi dico di scrivere come me ma lasciatemi la libertà di scrivere come voglio». E loro me l’hanno lasciata.

Più volte ho scritto pezzi sul senso dell’uso del linguaggio sessuato, partendo dalla cronaca. L’ ultimo “Quando una donna slega la parola dal suo corpo”, in risposta alla richiesta di Giorgia Meloni di essere chiamata al maschile, richiesta che ha cercato di imporre ai giornali e ai tg della Rai con una circolare ai direttori, ma non tutti/e hanno obbedito. Meloni parla il linguaggio che è, una donna fieramente emancipata in un mondo di uomini qual è il suo partito, che non a caso si chiama “Fratelli d’Italia”, e qual è il potere che lei ha scalato fino a rompere il tetto di cristallo per essere, sulla guerra, prova da sempre di virilità per gli uomini, più realista del re nei comportamenti e nel linguaggio bellicista. Ma non è l’unica. È vero che molte parole sessuate al femminile che nel passato facevano sorridere oggi vengono utilizzate da giornaliste/i anche nel mio giornale, ma molta è ancora la confusione, che è disordine simbolico, per cui in una stessa pagina o nello stesso articolo si alternano parole al femminile e al maschile neutro.

La mia esperienza di docente mi ha insegnato che il linguaggio sessuato si può insegnare, io l’ho fatto con il testo di Alma Sabatini, ma non lo si può imporre, lo si può solo mostrare parlandolo. Questo vale anche per le/i giornaliste/i per cui credo che i corsi di formazione, senza una trasformazione di sé, non siano sufficienti. A tal fine non aiuta né il linguaggio paritario né quello “inclusivo” che di fatto cancellano la soggettività femminile.

La questione essenziale, per me, resta cosa e come vogliamo narrare la realtà e questo vale soprattutto per la guerra dove è vero che è prevalso il linguaggio militarizzato, che ha lasciato ai margini quello della vita con cui donne e uomini, le cui storie sono centrali nei miei articoli, sin dall’inizio si sono opposte/i alla guerra, in Ucraina come in Russia. Il fatto che in Tv a parlare di guerra vengono invitati più giornalisti che giornaliste, sempre gli stessi, è funzionale alla narrazione che si vuole fare passare, zittendo e insultando chiunque se ne discosti, con l’accusa di “putinismo” e adesso di “antisemitismo”, se si parla di “genocidio” per Gaza. Giornalista coraggiosa è Francesca Mannocchi, i cui reportages che leggo sempre, su Gaza, Cisgiordania e Israele, mostrano una donna che si lascia toccare dalla tragedia della guerra che racconta con i volti, le storie, le sofferenze delle vittime e le brutalità e la violenza dei carnefici, chiunque siano. Una donna la cui autorevolezza non le viene dalla rottura del tetto di cristallo né dalla pubblicazione dei suoi reportages in prima pagina, ma da come si autorizza a narrare ciò che il suo sguardo di donna vede.

Noi donne nei giornali ci siamo, credo siamo la maggioranza, e siamo anche brave, resta però il problema di come ci stiamo là dove siamo. Io non ho mai fatto parte di una redazione, i miei articoli poche volte sono stati pubblicati in prima pagina, ma questo non mi ha mai fatto sentire ai margini. L’essenziale, per me, è avere la libertà di scegliere cosa raccontare e come, nella lingua che mi è propria.