Scena madre e scena padre
Marina Terragni
15 Dicembre 2023
In tante natività che fino a non molto tempo fa tenevamo appese sopra i letti e nelle aule di scuola si vede bene lo sguardo estatico del bambino verso la madre. Nel suo bellissimo saggio “La mente estatica” Elvio Fachinelli sorprendentemente parla dell’estasi non come luogo di beatitudine ma come zona di pericolo, di minacce e di ambiguità: «Uno strato percettivo, emozionale, cognitivo, che è stato colto perlopiù come un’area di frontiera, pericolosa dal punto di vista dell’affermazione di un io personale, ben individualizzato. Uno strato che forse proprio per questo è stato messo da parte nel corso dell’evoluzione dell’uomo detto civile».
Il pericolo per il bambino in estasi – che a lungo si sentirà tutt’uno con la madre – è che la madre distolga lo sguardo da lui, che non gli offra più il seno, che rompa la simbiosi e lo lasci morire. Anche la vita di lei è in pericolo, l’odio del bambino è cordialmente ricambiato, ma chi rischia di più è la creatura.
«Nel lattante amore e odio sono intensi» dice Donald Winnicott. Il bambino odia proprio perché percepisce fino a che punto la madre potrebbe odiarlo. Nell’incanto apparente di quello sguardo c’è l’inferno.
Più o meno fino ai tre anni, fintanto che non si “individuerà”, il bambino vedrà nella madre la sua dea onnipotente e minacciosa, oggetto di adorazione e di terrore. Chi ha messo al mondo un maschio lo sa. Conservo ancora un disegno infantile di mio figlio: ci sono io, donnona enorme in mezzo ad altre persone minuscole, e nella pancia ho un bambino. Titolo dell’opera “Mamma Gigante” – mi ha chiesto di guidargli la mano per scriverlo: per quello mi ha disegnata di quelle dimensioni, sono così grossa che potrei uccidere tutti. Ecco una buona rappresentazione della scena madre.
Poi capita qualcosa, in genere al tempo della scuola materna. Nel nostro caso il rito iniziatico è stato uno “scambio di sangue” – un taglietto sul suo braccio e uno su quello del compagno del cuore, messi poi a contatto – a sancire una seconda nascita. Sangue vivo per lavare via quello immondo del parto. Uomini messi al mondo da uomini e tra uomini: una formale dichiarazione di indipendenza. Alla detronizzazione della dea, faccenda ben rappresentata anche nella narrazione cristiana, si accompagna l’obbligo di disprezzo per le “femmine”. Tutto comincia e ricomincia ogni volta così.
Quando assistiamo alla furia femminicida di fronte alla libertà di una donna e al suo possibile abbandono dobbiamo ritornare lì: la scena del delitto è la scena madre. Il maschio violento è in preda al terrore. Ha paura di morire se lei se ne va. L’assassinio fantasticato nella fase simbiotico-estatica stavolta viene agito, lui non è più inerme e ha la forza per farlo, un neonato furioso di ottanta chili. La dichiarazione di indipendenza era stata solo una parata, l’individuazione non è riuscita. Lui non ha mai smesso di sentirsi tutt’uno con lei, uccide sperando di sopravviverle ma tante volte capisce che non ce la farà e uccide anche sé stesso.
Lia Cigarini dice che sulla relazione madre-figlia c’è stato molto pensiero delle donne, mentre sul rapporto madre-figlio abbiamo ancora tanto da capire. Forse non riusciremo a ridurre/disinnescare la violenza maschile finché non ci avremo ragionato a fondo.
È qui che si profila anche una scena-padre.
Intervistando Marco Deriu (Il problema degli uomini è che sono incapaci di parlare del proprio vissuto. Parla il sociologo Deriu, Il Foglio, 23 novembre 2023) riservo l’ultima domanda proprio a questo: «Se è vero» gli chiedo «che l’adesione ai modelli di virilità correnti si configura come una seconda nascita lontana dal corpo della madre, se si tratta di cancellazione dell’origine materna, come si può scardinare un meccanismo consolidato nei millenni?».
«Quella con la madre onnipotente» risponde Deriu «è la prima relazione erotica e affettiva. L’alternativa al distacco-rifiuto è un senso diverso dell’evoluzione di questa relazione, l’accettazione dell’interdipendenza, la gratitudine per lei. Anche la partecipazione degli uomini al lavoro di cura, quei giovani padri che oggi si impegnano volentieri con i bambini, può liberare in parte la figura materna da queste proiezioni fobiche e aggressive».
L’assenza (forclusione del nome del padre, la chiama Lacan) è il tratto più comune nei padri post-patriarcali. L’obbligo della paternità non esiste più, il sistema che dava le regole, essere padri e come esserlo, si è dissolto. Quelli che diventano padri giocano da soli, devono inventarsi passo passo, spesso fanno confusione tra sé e la compagna – “ragazzi-madre”, per rubare il titolo a una canzone di Achille Lauro – o caracollano tra fuga e lotta rabbiosa, fight or flight. Restano figli, fratelli tra loro e dei loro figli.
A partire da qui, dalla scena padre, e approdando a ritroso alla scena madre si può forse immaginare un lavoro davvero efficace contro la violenza, lavoro che va fatto dagli uomini in prima persona: gli schemi della psicoanalisi, da Freud a Lacan, vanno riempiti del vivo dell’esperienza autocosciente. Gli uomini devono parlare fra loro a partire da sé, tenendoci noi disponibili all’ascolto e al dialogo per dare una mano a capire come ricostruirsi maschi e padri nella pace, liberi dall’obbligo del dominio, dalla paura, dalla rabbia, capaci di gratitudine per la donna che li ha messi al mondo e per quelle che li rimettono al mondo ogni giorno.