Ritrovare sé stessa nelle parole delle altre: un podcast contro la violenza maschile
Angelica Pirro, Silvia Protino
16 Ottobre 2023
Per questo numero, la redazione di Via Dogana 3 voleva mettere in luce come l’autocoscienza, pratica sorgiva del femminismo radicale, ha continuato ad agire e dare frutti, prendendo talvolta forme lontane da quella delle origini pur mantenendone il punto cardine: la creazione di uno spazio di libera parola, uno spazio trasformativo e politico.
Mentre discutevamo di questo, io ho subito pensato al fenomeno sempre in crescita della produzione di podcast, ovvero la creazione di un audio (assimilabile a una trasmissione radio), distribuito attraverso Internet e fruibile attraverso uno smartphone o un computer. A mio avviso, ed è un azzardo, è una delle forme che ha preso la pratica dell’autocoscienza nel presente, attraverso l’uso delle tecnologie.
Durante la redazione allargata di domenica 1° ottobre, Linda Bertelli ha parlato dell’autocoscienza come creazione di uno spazio tracciato da due lembi, quello che una donna è e quello che pensa di essere, due estremità delimitanti uno spazio frutto della scommessa politica del femminismo, che ha permesso a ciascuna donna di trovare parole non estraniate per dire di sé. Come? Levando, nello scambio con le altre, strati di aspettative, presupposti, sottintesi scontati, false credenze e tabù, opinioni invalse, e via osteggiando pregiudizi, per arrivare a un’accettazione di sé per quello che si è.
Io sono un’ascoltatrice di podcast, amo particolarmente quelli in cui si crea uno spazio di parola libera e veritiera. Per esempio, il podcast How to fail di Elizabeth Day, dove la giornalista e scrittrice inglese accoglie le sue ospiti e le intervista, lei stessa è partita dal suo frustrato desiderio di maternità, che definiva come un fallimento, ed è visibile, nel farsi delle puntate, la trasformazione e l’accettazione di sé attraverso la parola scambiata, la modificazione del suo fallimento in una figura dello scambio, dispositivo simbolico in cui altre si possono riconoscere. Voglio citare anche il podcast The Adam Buxton podcast, dove l’attore e scrittore inglese si mette in gioco a partire da sé, in un setting dialogico, raccontando gli effetti del mondo dello spettacolo e dei social sulla vita, il rapporto col padre, la morte dei genitori, la famiglia, i figli, il lavoro, l’amore. È straordinario come, anche in questo caso, ci sia la restituzione di parole politiche per tutte e tutti.
Qui pubblichiamo la testimonianza di due giovani donne che producono un podcast femminista, Angelica Pirro e Silvia Protino. Il loro podcast, A Day in a Female Life – Racconti di ordinaria violenza, poggia sulla parola scambiata, alla ricerca di un’aderenza della parola all’esperienza femminile. In questo sta l’azzardo, nel vedere il perdurare dell’autocoscienza in nuove forme di presa di parola, anche attraverso la tecnologia.
(Laura Colombo – Redazione #VD3)
Silvia e io abbiamo avuto il piacere di partecipare alla redazione aperta di VD3 del primo ottobre 2023. Qui di seguito il nostro intervento riguardo le nuove forme di autocoscienza. All’inizio del 2022, abbiamo creato un podcast che raccoglie testimonianze di donne che hanno subìto molestie sessuali.
In poche parole, un podcast è una radio che però non viene trasmessa in diretta, ma in differita. Un podcast solitamente è diviso in episodi che vengono pubblicati e che possono essere poi ascoltati liberamente e archiviati sul computer o sul cellulare. Mentre esistono podcast che forniscono anche un supporto visivo alle puntate, il formato originale è strettamente audio (come il nostro).
Silvia e io, al momento di scegliere quale medium usare per dare voce al nostro progetto, abbiamo prima di tutto stabilito che sarebbe stato uno spazio creato da noi. A quel punto abbiamo deciso di usare lo strumento del podcast perché è l’unico che ci permetteva di mettere al centro la nostra voce, e non solo la mia e quella di Silvia, ma quella di qualunque ragazza che avrebbe voluto prendervi parte. Sentivamo il forte bisogno di far risuonare la nostra voce collettiva. E poi ci piaceva l’idea di creare una raccolta di testimonianze orali, un vero e proprio archivio che però non fa riferimento al passato, ma al presente, che non è archiviato, impolverato, ma è vivo in ognuna di noi, nelle nostre singole voci che ne compongono una sola, che non è formalizzato e istituzionalizzato, di Stato, ma è libero, vitale, trasformativo, generativo. Un archivio che possa servire anche, magari per fini “scientifici”, di ricerca, attraverso il quale si possa indagare il fenomeno sociale delle molestie sessuali. In più, il podcast è bilingue, ascoltabile sia in italiano sia in inglese, ma cosa ancora più interessante, è registrato in due paesi differenti: Italia e Irlanda. Sarebbe interessante adottare una prospettiva critica, per analizzare quali sono le differenze e le somiglianze tra i racconti italiani e quelli irlandesi. Ecco, questo secondo noi è un primo elemento della pratica dell’autocoscienza: riconoscere che ciò che io vivo all’interno dei confini del mio paese, lo sta vivendo anche una ragazza a centinaia o migliaia di chilometri di distanza da me e che quindi ci fa vedere chiaramente come il nostro essere donne ci accomuna.
In più, il podcast ci permette di dare voce al silenzio che vige sul problema sociale e culturale delle molestie sessuali. Gli uomini, a parte essere coloro che mettono in atto le molestie, non sono consapevoli, o se lo sono, non lo sono pienamente, dell’esistenza di questa forma di violenza e di quanto sia capillare e pervasiva. Ci è capitato più volte di raccontare le nostre esperienze del podcast ad alcuni dei nostri amici maschi, che ovviamente stimiamo altrimenti non sarebbero nostri amici, ma che comunque sono rimasti sorpresi nel venire a conoscenza dell’esistenza e della normalità delle molestie sessuali. Eppure, è strano: è un fenomeno talmente diffuso che (quasi) tutti gli uomini hanno molestato una ragazza almeno una volta nella vita, o comunque ne sono stati complici, o indifferenti. Quindi come fanno a non saperlo? Loro sanno come si comportano i maschi in gruppo, di cosa sono capaci, eppure si ritrovano (e li ritrovi) stupiti. Forse non si rendono conto di ciò che significa per noi subire molestie quotidiane fino a quando non glielo comunichiamo in modo esplicito? Non lo sappiamo ancora.
In ogni caso, il podcast ci consente di far emergere dal silenzio tutti i racconti e le storie, che costituiscono un sommerso, un insieme di voci inespresse, che non si sentono, ma che comunque esistono. Se il discorso delle molestie sessuali ci permette di entrare in contatto con ragazze lontane da noi, sia a livello geografico sia di pensiero, e a noi sconosciute prima dell’incontro, allora anche altre, che ancora non conosciamo e di cui ancora non abbiamo sentito la voce, potrebbero raccontare una storia simile. Il nostro punto di partenza è credere a ogni donna che denuncia una qualsiasi forma di violenza, senza sentire il bisogno di constatare quella violenza, di provare, di dimostrare il fatto che sta denunciando, perché crediamo in lei, alla sua voce che risuona dentro di noi come se fosse la nostra.
Ecco, tutto questo scambio, condivisione, amicizia, amore, sorellanza, che sono svincolate da spazi e tempi predefiniti trovano forma in una raccolta di testimonianze orali, in un archivio dell’esperienza femminile che oggi chiamiamo podcast.
Spiegato il mezzo, ora torno indietro a raccontarvi l’antefatto e l’origine del nostro podcast “A day in a Female Life – racconti di ordinaria violenza”. A quei tempi vivevo a Dublino, ma ero tornata a Milano per le vacanze di Natale. Come facevo spesso, ho preso i pattini e sono andata a pattinare nella zona che circonda lo stadio Meazza, San Siro. Ho messo i miei conetti per terra e con le cuffie nelle orecchie, mi stavo facendo i fatti miei. Speravo che i fatti suoi se li facessero anche le persone attorno a me, invece purtroppo così non è stato. Prima si avvicina un ragazzo e tra me e me penso, sarà solo curioso e vorrà vedermi fare qualche esercizio. Solo che questo ragazzo è rimasto lì, a braccia conserte, fissandomi senza farsi alcuno scrupolo. Non mi ha detto nulla, ma quello sguardo fisso, pesante, non richiesto, mi ha fermato sui miei passi. Mi sono bloccata e ho smesso di pattinare finché non si è allontanato.
Pochi minuti dopo arrivano due ragazzi che mentre sono girata iniziano a calciare i conetti che avevo messo per terra, per poi allontanarsi senza alcun rimorso.
Come prima cosa, ho provato paura. Mi sono resa conto che non mi sentivo al sicuro in quel luogo. Ho interrotto il mio passatempo preferito e ho iniziato a pensare che se fossi stata un uomo, forse quei ragazzi non si sarebbero permessi né di avvicinarsi e fissarmi, né di danneggiare la mia attrezzatura. E questo perché un altro uomo lo rispettano; la donna invece è passibile di qualsiasi capriccio che passi per la testa ad un ragazzo.
Ho fatto delle storie su Instagram, raccontando quello che era successo con tanta rabbia e frustrazione. Dall’altra parte dello schermo ci sono state molte ragazze che hanno ascoltato e condiviso il mio dolore, offrendomi parole di conforto e di solidarietà. Ovviamente c’erano anche altri pareri, da parte di uomini, che invalidavano la mia esperienza dicendomi cose come “in zona San Siro cosa ti aspetti”.
Silvia ha subito colto il mio richiamo e in una conversazione che ormai è storica, in qualche secondo abbiamo entrambe sentito la necessità di creare qualcosa di più grande, che rimanesse per tutte. Siamo partite dalla constatazione che tutte le donne, nessuna esclusa, hanno vissuto almeno un episodio di molestia sessuale per strada o in luoghi pubblici.
Nonostante questo dato fortemente preoccupante, non è comune che questi avvenimenti vengano menzionati e diventino argomenti di conversazione. Sono come dei dati di fatto. Questo comporta che quando poi una ragazza subisce una molestia sessuale: o non la considera tale tanto è normalizzata nella società patriarcale, oppure pensa di essere l’unica a cui succede e non lo condivide con nessuno. Il podcast avrebbe fornito una piccola soluzione a questo problema.
Anche il titolo è stato deciso con facilità: A day in a female life, un giorno in una vita di donna. Assieme al sottotitolo “storie di ordinaria violenza” volevamo trasmettere l’estrema ordinarietà delle esperienze raccolte nel podcast (le molestie sessuali nei confronti delle donne non sono degli eventi rari, che capitano alcune volte l’anno, sono giornaliere).
Il primo episodio l’abbiamo registrato io e Silvia, con strumenti rudimentali ma una voglia dirompente di far sentire le nostre voci. Prima di far condividere le proprie esperienze ad altre donne, volevamo raccontare le nostre.
Da quel momento, anche attraverso un invito all’azione su Instagram, abbiamo ricevuto una serie di email e messaggi sia di supporto, che di disponibilità a registrare una puntata del podcast.
Per noi era imprescindibile che lo spazio offerto alle ragazze sul podcast fosse sicuro e libero. Le puntate sarebbero state registrate con me, oppure con Silvia (in base alla collocazione geografica della ragazza) in luoghi familiari, accoglienti. Quando è stato possibile infatti abbiamo registrato le puntate nelle nostre case, sul divano, con una tazza di tè e biscotti. Prima di accendere il microfono, ci assicuriamo che ci sia già una certa confidenza con la ragazza, che spesso è a noi sconosciuta. Questo passaggio è essenziale per creare un’atmosfera in cui la ragazza si senta al sicuro nel condividere le sue esperienze che potrebbero essere traumatiche e difficili da verbalizzare.
Una volta acceso il microfono la conversazione scorre come aveva fatto a microfono spento, senza domande preparate o limiti di tempo. La ragazza racconta tanto quanto decide sia abbastanza e l’interlocutrice, Silvia o io, ascoltiamo, offriamo conforto e poniamo domande se ne sentiamo la necessità. In molte puntate abbiamo anche avvertito la necessità di dare reciprocità alla conversazione, quando a me e a Silvia veniva naturale di raccontare delle esperienze personali che la storia della ragazza aveva fatto risvegliare in noi.
La libertà sta nel fatto che una volta registrata la puntata, la ragazza che ha partecipato può decidere di non pubblicare l’episodio, di tagliarne alcune parti o di usare un nome fittizio per proteggersi. Per noi, il fatto che la ragazza abbia condiviso la sua storia con noi e abbia ricevuto in cambio un ascolto sincero e non giudicante, è già abbastanza.
Le puntate che poi sono state pubblicate spaziano su diversi argomenti, ma colpisce la comunanza dell’evento della molestia. Le circostanze cambiano, ma l’intento dell’uomo è sempre lo stesso, denigrare la donna e farla sentire impotente.
Nonostante l’intento iniziale fosse solo quello di raccogliere testimonianze di molestie sessuali in luoghi pubblici, alcuni episodi sono fluiti naturalmente verso altri tipi di violenza maschile, tra cui quella domestica.
Il riscontro del podcast è stato rincuorante. La maggior parte delle donne che ci contattano dicono di sentirsi riconosciute e legittimate nelle loro esperienze di molestia. Molte di loro si sono rese conto che esperienze che consideravano normali o di poca importanza, erano invece gravi e degne dell’appellativo di molestie sessuali. Perché succeda questo è necessario da parte nostra considerare ogni molestia sessuale che ci viene riportata come importante e degna, e porre l’accento sul dolore comune, invece che sui dettagli che necessariamente saranno diversi per ogni storia.
Carla Lonzi parla di uno “scatto a soggetto” delle donne che si “ri-conoscono come esseri completi non più bisognosi di approvazione da parte dell’uomo”.
La nostra idea iniziale non era quella di praticare l’autocoscienza. Cioè, non ci siamo messe a un tavolo e abbiamo detto “ok, ora facciamo l’autocoscienza”. Abbiamo detto: creiamo un podcast. Solo in un secondo momento, ci siamo accorte che il nostro podcast è una pratica di autocoscienza perché si costituisce dell’incontro con l’Altra, dove ogni donna può ritrovare sé stessa nelle parole delle altre. Questo dimostra la potenza, la forza di questa pratica: esiste ancora prima di saperla, pensarla, teorizzarla. Perché è una pratica dettata dalla necessità, dal desiderio, dal bisogno di riconoscersi nelle altre, di uscire dalla solitudine, ma anche di trasformare il dolore e la rabbia personali in resistenza collettiva.