Ritorniamo sul tema della crisi ambientale
Marina Santini
9 Dicembre 2019
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, domenica 1 dicembre 2019 Crisi ambientale: i nodi al pettine.
Via Dogana 3 ritorna sul tema della crisi ambientale. Da aprile a oggi, sono continuate in tutto il mondo le manifestazioni di adolescenti e giovani, l’ultima di venerdì scorso con il quarto sciopero globale promosso da Fridays for Future; Extinction Rebellion (XR, il movimento nato in Gran Bretagna nel 2018) ha messo in atto forme di disobbedienza civile nelle principali città del mondo, una per tutte, a Roma, tra l’8 e il 10 ottobre, uno sciopero della fame di fronte a Montecitorio.
Recentemente c’è stato il primo incontro a Roma sulle economie trasformative in preparazione del Fòrum Social Mundial de les Economies Transformadores che si terrà a Barcellona (25-28 giugno 2020). A mano a mano che la crisi diventa più evidente, aumentano le persone che si uniscono alla lotta e acquisiscono consapevolezza. Durante l’estate si è avuta la concreta la percezione dell’emergenza climatica, anche se da più di 30 anni gli ambienti ecologisti e chi si occupa di scienza mettono in guardia da politiche scellerate, segnalando il pericolo della deriva a cui si va incontro se non cambiamo radicalmente il modello di sviluppo.
Greta è diventata voce della coscienza globale, anche se prima di lei nel 1992, la dodicenne canadese Severn Cullis-Suzuki intervenne al primo vertice dei Capi di stato sull’ambiente a Rio de Janeiro con un discorso molto simile nei contenuti ai discorsi di Greta e concludeva: “Sto lottando per il mio futuro”.
Che cosa è cambiato? L’essere presente con il proprio corpo di fronte ai palazzi del potere, ha fatto la differenza: Greta si è messa in gioco e il tam-tam dei social ha lanciato il suo grido: migliaia di ragazze e ragazzi seguono il suo esempio in ogni parte del mondo. E i giornalisti non possono non vedere e non sentire. È accaduto come per Me-too. Si dice a voce alta una verità scomoda, conosciuta da tempo, ma ipocritamente nascosta, e chi la ascolta la sente vera e la rilancia.
Ora è il momento in cui le cose si stanno coagulando, prendono spessore: negli anni ’80, Alexander Langer diceva che la conversione ecologica “potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile”.
Sotto le spinte dei movimenti e delle evidenze climatiche, una parte del mondo finanziario e politico sembra reagire. La BEI (Banca Europea per gli Investimenti) ha dichiarato che dal 2021 non investirà più nelle energie fossili, e si orienterà, in coerenza con gli accordi di Parigi, verso fonti rinnovabili e progetti di efficienza energetica. Quindi niente prestiti per la costruzione di oleodotti, gasdotti e ricerche petrolifere. (Verranno anche sospesi i finanziamenti per quei progetti già approvati, e in fase di realizzazione?). Nel programma del partito labourista presentato da Jeremy Corbyn si parla di dirottare le risorse verso un’economia attenta all’ambiente, verso la creazione di posti di lavoro ‘buoni e qualificati’, rispettosi del clima. È di pochi giorni fa la proposta ‘verde’ per l’Europa di Ursula von der Leyen: un piano ambientale, presentato come nuovo motore di crescita, da 1.000 miliardi di euro.
Per ora sono solo intenzioni.
Naomi Klein e Vandana Shiva sono attiviste, impegnate da anni nella critica all’attuale modello di sviluppo. Per preparare questo incontro, due loro libri ci sono serviti da guida: Il mondo in fiamme di Naomi Klein ripercorre dieci anni di interventi e articoli e lancia proposte politiche concrete, e Il pianeta di tutti. Come il capitalismo ha colonizzato la Terra di Vandana Shiva in cui l’autrice, che conosciamo da tempo ed è stata nostra ospite a ‘Vetrine di libertà’, ragiona sui legami tra la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, che detengono il monopolio delle risorse globali, la crisi umanitaria dei migranti e i limiti ecologici del pianeta.
Chi minimizza la crisi che stiamo vivendo, parla di ‘origine antropica’ del cambiamento climatico, di ‘attività umane’ che portano al riscaldamento globale. La questione si annacqua: tutti siamo responsabili. Non si vede, invece, che responsabili sono secoli di colonialismo e rapina e le attuali politiche economiche di governi e multinazionali, politiche basate sull’energia dei combustibili fossili, sullo sfruttamento del suolo.
“Ci serve una mobilitazione massiccia più grande di tutte le altre nella storia. Ci serve un Piano Marshall per la Terra”: sono le parole pronunciate da Angélica Navarro Llanos, una negoziatrice climatica boliviana al summit climatico delle Nazioni Unite (2009), a cui Naomi Klein si è ispirata.
Un decennio fa questi discorsi cadevano nel vuoto. Oggi ci sono giovani esponenti della politica che sentono l’urgenza di trasformarle in azioni. Una è Alexandria Ocasio-Cortez, la più giovane donna mai eletta al Congresso americano. Nella sua piattaforma elettorale propone un Green New Deal, sostenuta da altre giovani della sua squadra (Rashida Tlaib di Detroit e Ayanna Pressley di Boston). Come il New Deal, che era però pensato da e per maschi, bianchi, il Green New Deal dovrebbe avere lo stesso impatto, un cambiamento radicale nelle politiche economiche e sociali per “Riparare la Terra. Riparare la nostra roba. Riparare senza timore i nostri rapporti all’interno dei nostri paesi e tra essi.”
Scrive Naomi Klein “Facciamo ancora in tempo a evitare un riscaldamento catastrofico, ma non entro le regole del capitalismo come sono oggi formulate. E potrebbe essere la migliore scusa che abbiamo mai avuto per cambiare queste regole. E se non c’è un cambio di passo radicale non solo nella politica ma nei valori basilari che governano la nostra politica, sarà così che il mondo ricco si ‘adatterà’ alle nuove devastazioni climatiche, scatenando le ideologie tossiche che stilano una graduatoria del valore relativo delle vite umane e giustificano il mostruoso svilimento di enormi pezzi di umanità”.
Il momento di crisi può trasformarsi nel presupposto necessario per un miglioramento: il cambiamento del clima, rende quasi inevitabile una rivoluzione. Ci sono novità promettenti. Il movimento trasformativo in atto genera la speranza di costruire un sistema economico che redistribuisca la ricchezza, che riduca le disuguaglianze, che trasformi la sfera pubblica, che pianifichi l’economia sulla base di bisogni e priorità collettive, metta delle regole. Il piano per la transizione apre spazi per una democrazia diversa. Possiamo pensare a una ‘giustizia climatica’ perché le politiche per l’ambiente e la giustizia sociale vanno di pari passo.
Vandana Shiva riconosce nelle donne himalayane del movimento Chipko (che significa abbracciare, perché hanno difeso le piante legandosi ad esse) le sue maestre di biodiversità ed ecologia: le hanno insegnato che tutto è interconnesso. Possiedono un sapere incarnato, sanno che il valore di una foresta non sta in un albero tagliato, ma nelle piante che creano le condizioni per mantenere l’umidità necessaria alla vita.
Il modello capitalistico considera la Terra come qualcosa di inerte da depredare, distrugge la natura e soprattutto la nostra umanità come capacità di essere solidali, provare compassione e condivisione. Pensare che si possa crescere in modo illimitato su un pianeta dalle risorse limitate, segnala l’arroganza di quell’1% che impone il proprio potere, che considera i saperi e la creatività delle donne, delle popolazioni indigene, di chi lavora la terra come vecchi e retrogradi, non ‘scientifici’. Mentre ‘innovativi’ e ‘moderni’ sono gli accordi di libero scambio, la privatizzazione dei beni comuni, i brevetti sul vivente, il controllo attraverso i Big Data. L’intelligenza e la sapienza di milioni di anni di evoluzione, la ricchezza della biodiversità, viene sostituita dalla manipolazione genetica. È un modo meccanico di concepire la natura che semplifica: ritiene lineare il principio di causalità; ignora la complessità dei sistemi viventi e che ciò che accade dipende dal contesto e dalle relazioni in quella particolare situazione; riduce il vivente a fonte di dati e informazioni. Il grande capitale, fondato sul paradigma neoliberale che riduce il potere nelle mani di poche multinazionali, è un pericolo per la democrazia stessa: l’acquisizione, il controllo e la vendita dei dati diventeranno, se già non lo sono, il nuovo ‘petrolio’. È l’arroganza di chi per propri interessi produce divisione sociale, sradica intere comunità (pensiamo al Brasile di Bolsonaro), crea masse di profughi ambientali.
Le tecnologie dell’informazione e le biotecnologie si stanno integrando in vista di una corsa all’‘oro verde’. È l’arroganza di chi pensa di contrastare il cambiamento climatico e evitare la catastrofe con la geoingegneria, con tecniche mai testate prima che sono oltre che parziali, un ulteriore attentato all’umanità: ci sono progetti per oscurare il sole, fertilizzare i mari, seminare le nuvole.
Il capitale investe sul ‘verde’, comprando prodotti ‘verdi’, crea mercati per smaltire l’inquinamento e carica gli ‘individui’ (individui separati, consumatori come li vuole il capitalismo) del problema: la sfida è altissima e la si può affrontare solo come parte di un movimento globale. Senza una radicale critica al capitalismo predatorio, senza un nuovo paradigma di civiltà sensibile ai limiti della natura e dell’intelligenza umana, senza un serio programma climatico, che tocchi finanza, commercio, infrastrutture, i cambiamenti individuali del proprio stile di vita, importantissimi per la presa di coscienza e per un cambiamento culturale, e le politiche locali di contrasto al ‘riscaldamento’ climatico, sono antidoti parziali che genereranno effetti solo a lungo termine.
E Milano fa la sua parte con le sue belle contraddizioni. A fine settembre l’architetto Stefano Boeri propone una riforestazione urbana, accolta dal Comune: 3 milioni di alberi entro il 2030, e già 200.000 messi a dimora entro il 21 marzo 2020, giornata internazionale della foresta. Contemporaneamente, però i progetti di riqualificazione urbana prevedono la costruzione di edifici, come nel caso di Piazza d’armi o come il Parco di via Tesio, che rischia di essere sacrificato per un nuovo stadio. Forse di piante ne cresceranno sui tetti dei centri commerciali o sulle terrazze come nel Bosco verticale (giudicato fra i 50 più bei grattacieli), che ha sostituito il vicino Bosco di Gioia – orizzontale – dove 180 alberi sono stati abbattuti nel 2006 per fare posto al Palazzo della Regione. Oggi sopravvive ancora una magnolia, fra i vetri e il cemento.
Siamo in una fase di transizione e si sente qualcosa di nuovo e di grande. Un movimento che cresce e contagia perché ciascuna e ciascuno parte da bisogni concreti e dal sentire che ne va della propria vita. In molte fanno riferimento al femminismo. Mary Robinson (prima donna presidente dell’Irlanda) dice: “Questa crisi ha radici maschili comunque la si osservi. Porta la mano dell’uomo. Quando dico che c’è bisogno di un surplus femminista significa che anche i maschi dovranno essere inclusi in questa soluzione globale. Senza lasciare nessuno indietro. Perché ci si salva solo assieme”. Greta scrive in La nostra casa è in fiamme: “La battaglia per l’ambiente è il movimento femminista più grande del mondo, non perché in qualche modo escluda gli uomini, ma perché sfida quelle strutture e quei valori che hanno creato la crisi in cui ci troviamo”. Linda 24 anni di Roma (manifestazione NUDM 25.11) “Secondo me il femminismo adesso è il campo di lotta più credibile, accanto all’ecologismo C’è una penetrazione profonda delle istanze femministe nella mia generazione…”
Negli anni, molte donne si sono interrogate, ben prima che la crisi odierna lo mettesse in evidenza, sulle logiche dello sviluppo e dell’economia sulla distruttività di una civiltà che tratta il pianeta come un bene illimitato. Il pensiero di pensatrici come Rachel Carson, Laura Conti, Ina Praetorius. (di cui abbiamo parlato la volta scorsa) ci ha aiutato a cogliere le connessioni fra le scelte economiche e politiche, le ricadute sull’ambiente e i rapporti umani.
Sappiamo che il femminismo è stata una rivoluzione, l’unica che ha vinto senza violenza e pensiamo possa ispirare i movimenti che si battono per un cambiamento radicale. Ha criticato l’universalismo patriarcale e reso palese la connessione tra questa cultura e lo sviluppo capitalistico predatorio, fra fenomeni in apparenza lontanissimi tra loro: il militarismo e la violenza maschile sulle donne, la tratta e i bilanci statali; ha parlato di intelligenza domestica e del lavoro per mantenere l’esistenza, di produzione e riproduzione sociale come tutto il lavoro necessario per vivere (Sottosopra. Immagina che il lavoro). Vandana Shiva dice: “quando l’economia entra in conflitto con l’ecologia, risulta la cattiva amministrazione della Terra”, sottolineando la matrice comune di ecologia (scienza della casa) ed economia (amministrazione della casa) con la parola greca oikos (casa); Ina Praetorius ci ha parlato di ‘cura’ come ‘preoccupazione per il mondo’, ci chiede di prenderci cura di tale transizione; il valore del sapere dell’esperienza, ha consentito lo scambio tra donne molto diverse, ripreso ancestrali modalità di resistenza e inventato pratiche politiche nuove, messo in discussione la stessa concezione di sviluppo.
Questa è una occasione per mettere a confronto realtà diverse, e vedere come possiamo contribuire insieme alla creazione di una cultura, di un immaginario e di un linguaggio per una transizione positiva.