Ripensare la cittadinanza
Giordana Masotto
16 Febbraio 2019
Nell’incontro sull’immigrazione i due interventi di apertura sono stati preziosi perché hanno portato due esperienze e quindi due punti di vista molto diversi. Molte hanno raccolto il contributo di Anna di Salvo che metteva a fuoco un punto di vista preciso: le donne all’interno dell’immigrazione. Quindi l’urgenza, il disagio, la necessità, ma anche la possibilità di sessuare il discorso dell’immigrazione e il modo in cui ci mettiamo in relazione con l’immigrazione.
Dall’altra parte il discorso e l’esperienza di Tahereh Toluian diceva altro: la sua è un’esperienza forte, magica per certi aspetti, quella di sentirsi contemporaneamente dentro due mondi, di essere quei due mondi. Un faro: mette insieme nell’esperienza individuale problemi che sono radicali nel mondo di oggi. Invece di guardarli, lei dice: io sono, io incarno l’attraversamento di questi problemi.
In misura minore è quello che sentiamo tutte e tutti. In misura minore (ma ognuna soffre i propri disagi e pensa che siano già belli pesanti) il peso dell’immigrazione lo viviamo tutte non solo perché ce l’abbiamo di fronte e vediamo il dolore e la cattiveria che sembra stiano mangiandosi tutto il resto, ma perché è vero che il luogo che abitiamo – quel concentrato di possibilità, di esperienze, di cultura, di identità storico culturale che ci è familiare – si è incrinato pesantemente. È a un bel punto di crisi. Ognuno di noi lo vive: negli sguardi, negli odori, nell’intrico di lingue e di toni che senti mentre viaggi sui mezzi pubblici… Io che da giovane andavo all’estero perché mi sembrava che in un’altra lingua potevo inventarmi meglio la mia vita, se però piglio il tram sotto casa e non c’è più una lingua che riconosco, allora l’immaginazione creativa si spegne e soffro la babele. Perfino l’andare lontano, il viaggiare è diventato un po’ senza senso, e ogni altrove è attraversato da inediti spostamenti. Ognuna potrebbe fare bei racconti su come vive sulla propria pelle la trasformazione del luogo che stiamo abitando… Simbolico che s’attacca alle case, ai suoni, ai movimenti.
Il vero problema, il nodo teorico e politico interessante, è che la cittadinanza come la conoscevamo non c’è più. Non si tratta solo di sessuare la realtà dell’immigrazione da una parte e di ripensare sia le paure sia l’accoglienza dall’altra. La posta in gioco, la scommessa che abbiamo di fronte, è che possiamo affrontare l’invenzione di una nuova cittadinanza.
Certamente attraversata dalla globalizzazione e dai movimenti delle persone.
Certamente secondo me – d’accordo con Ada Colau (ricordate il manifesto delle sindache Colau, Carmena, Hidalgo?) – radicata nel luogo/città, cioè nel luogo dove vivi. E che lì può essere reinventata, rimessa in gioco.
Certamente questa nuova cittadinanza è attraversata radicalmente, potentemente, come noi ben sappiamo e vogliamo, dalla differenza sessuale, dalla presenza delle donne nello spazio pubblico.
Infine, la nuova cittadinanza ha un altro elemento di radicale trasformazione: il prolungarsi della vita. Il rapporto con l’età e con la malattia è mutato, con grandi sconvolgimenti nel lavoro necessario per vivere (sia per il mercato che di manutenzione dell’esistenza, sia nella produzione che nella riproduzione, lavoro non toccato dall’automazione e fortemente legato alla immigrazione).
Il nodo politico che dobbiamo affrontare è dunque come vogliamo agire nel luogo che abitiamo – per molte di noi è Milano – per ripensare una nuova cittadinanza, radicata nelle nostre soggettività e attraversata da tutti questi nodi: migrazioni, postpatriarcato, interdipendenze.