Rigenerare la vita e la politica
Marco Deriu
9 Dicembre 2019
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, domenica 1 dicembre 2019 Crisi ambientale: i nodi al pettine.
Guardare fino in fondo la crisi ambientale e il cambiamento climatico è come guardarsi allo specchio. La crisi ecologica e climatica non ci sta di fronte. Non è un problema di cui ci possiamo occupare o non occupare come si fa con altre cose. Noi ci siamo completamente dentro, riguarda le nostre vite e noi stessi. C’è qualcosa infatti che ci implica in maniera profonda e che è stato non a caso subito sottolineato da Greta Thunberg.
Quando nel settembre 2018 Greta ha iniziato il suo primo sciopero ha scritto una lettera con la quale spiegava le ragioni del suo sciopero. C’è un passaggio di quella lettera che mi ha toccato profondamente: «[…] La crisi climatica è il tema più importante dei nostri tempi, eppure c’è ancora chi crede che possiamo risolvere questa crisi senza sforzo, senza sacrificio. […] Se vivessi cent’anni, nel 2103 sarò ancora viva. Quando voi oggi pensate al “futuro”, non pensate oltre il 2050. Ma io, nel migliore dei casi, nel 2050 sarò arrivata a metà della mia vita. E cosa accadrà dopo? Nel 2078 compirò settantacinque anni. Se avrò figli e nipoti, vorranno festeggiare quel giorno con me. Vorreste che parlassi loro di voi? Come vorreste essere ricordati? Ciò che state o non state facendo oggi, influenzerà la mia vita e la vita dei miei figli e dei miei nipoti. Forse mi chiederanno perché non avete fatto nulla e perché chi sapeva o poteva parlare non lo ha fatto».
Questo passaggio in cui si rivolge direttamente al mondo degli adulti mi interpella: «Vorreste che parlassi loro di voi? Come vorreste essere ricordati?». Ci ricorda al fatto che come esseri viventi, come esseri umani, nasciamo e viviamo di relazioni. Siamo chi siamo perché dipendiamo e ci rispecchiamo gli uni negli altri. Questo è un insegnamento chiave del femminismo veniamo al mondo attraverso la relazione con la madre e ancora prima attraverso l’incontro di due persone. E viviamo, ci nutriamo, ci sviluppiamo, cresciamo, ci individuiamo attraverso le relazioni. Questo tema delle relazioni è importante anche nell’ecologismo, o almeno in un certo ecologismo, perché l’ecologismo non è tutto uguale. Come ci ha insegnato Gregory Bateson, per tutto ciò che riguarda la vita e il vivente «la relazione viene prima, precede».
Quello che vorrei dire dunque è che i “nodi che vengono al pettine” sono le nostre relazioni, riguardano non solamente cosa stiamo facendo e cosa stiamo lasciando a chi verrà dopo di noi o cosa stiamo facendo agli altri popoli o alle altre specie. Riguardano chi siamo noi oggi. Chi siamo come esseri umani, come uomini, come donne, padri, madri, nonni, nonne, fratelli, sorelle. Ma anche chi siamo come “generazione”, come “soggetti politici”, come “cittadini democratici”, perfino chi siamo come “specie”. Noi siamo le nostre relazioni. Siamo nelle e attraverso le nostre relazioni. I nodi che vengono al pettine riguardano dunque non solo come pensiamo “la natura”, “il pianeta”, “il futuro”, ma come pensiamo noi stessi. Come ci pensiamo. Come pensiamo e basta. Se pensiamo come individui o soggetti isolati o se riconosciamo relazioni, differenze, interdipendenze. Se pensiamo come famiglia, come clan, come nazione, come specie se pensiamo per relazioni, in quanto esseri conviventi. La situazione attuale – che la si chiami antropocene o capitalocene – come ha notato Donna Haraway è stata creata su basi relazionali e va disfatta su basi relazionali.
Occorre da questo punto ampliare la prospettiva a partire dalla quale si assumono gli orientamenti e le decisioni. In fondo si tratta di un problema di inquadramento contestuale e di significazione dell’esperienza. Aveva probabilmente ragione Gregory Bateson quando ci suggeriva di considerare il destino in cui la nostra civiltà è entrata “un caso particolare di vicolo cieco evolutivo”. Abbiamo iniziato a pensare con un’ottica sempre più ristretta e di breve periodo (in quanto specie, in quanto maschi, in quanto bianchi occidentali, in quanto paesi sviluppati, in quanto generazione) e i comportamenti che offrivano vantaggi a breve scadenza per “noi” sono stati prima adottati e poi programmati rigidamente. Ma alla fine sui periodi più lunghi, questi stessi comportamenti (e i loro relativi modi di pensare) hanno cominciato a rivelarsi disastrosi e a costituire una minaccia per tutti e tutte. Quindi le strategie che si sono apparse funzionali e premianti fino ad un certo punto (il più forte, il più armato, il più grande, il più ricco, il più sviluppato, il più tecnologico) oggi si rivelano essere il principale ostacolo, l’elemento di rigidità che ci rende difficile pensare di cambiare e pensare di salvarci. Occorre dunque revisionare radicalmente questo modo di pensare. Come alcuni scienziati cominciano a rivelarci, «non siamo mai stati individui».
Ma questa revisione o riconfigurazione cognitiva non va vista come un problema dei singoli individui, ma come un problema di cultura e educazione democratica. È la comunità politica democratica che deve seminare e coltivare nei cittadini un senso diverso del nostro essere e del nostro vivere che aiuti a superare la miopia e la strumentalità di un modo di segmentare la realtà troppo angusto. Se oggi la politica è in crisi, se non sa orientarsi nel presente e non sa proiettarsi nel futuro è perché ha perso il senso delle relazioni fondamentali su cui si basa il vivente e su cui si deve rifondare anche la comunità politica. Per dare luogo a una politica capace di futuro deve mutare la nostra percezione del qui e ora. Si può parlare a questo proposito di alcuni assi fondamentali lungo cui va inscritta la nostra libertà e ripensata la politica, riconoscendo e risignificando in maniera più profonda e più saggia le diverse forme di interdipendenza che riguardano le relazioni tra i sessi, tra i popoli vicini e lontani, tra generazioni passate e future, tra differenti specie viventi. Io credo ci sia una profonda relazione tra la crisi ecologica e climatica e la crisi della democrazia in termini politici, culturali e sociali. In termini di comprensione non è sufficiente infatti misurare e valutare la portata della crisi ecologica e climatica (in termini di emissioni e concentrazioni di gas climalteranti, di inquinamento, di perdita di biodiversità, di pressione sulle risorse ecc…) sulla base di un generico riconoscimento dell’origine antropogenica di queste alterazioni. Non è possibile infatti prescindere da un’approfondita indagine capace di interrogare le radici di tale disequilibrio ecologico a partire dalla strutturazione e dal funzionamento delle società umane e delle comunità politiche e delle relative istituzioni, migliorando così la comprensione riflessiva della condizione in cui ci troviamo.
Dobbiamo considerare fra l’altro che ci sono modi molto diversi di pensare la crisi ecologica e il cambiamento climatico, che implicano o suggeriscono prospettive e modelli di azione molto diversi: si tratta di un problema generato dal crescente impatto dell’umanità sul pianeta (l’idea dell’antropocene); oppure dal sempre più distruttivo ruolo del sistema capitalista (la categoria differente di capitalocene); dalla violenta storia dell’imperialismo; dal fallimento di un sistema tecnologico industriale che ha legato il suo destino a fonti fossili non rinnovabili; dall’egoismo di poche generazioni nei confronti di quelle successive; è l’esito ultimo di una specifica tradizione filosofica e culturale che è andata completamente e arrogantemente alienandosi dal proprio habitat (la prospettiva della deep ecology), oppure di un paradigma patriarcale che ha informato scienza ed economia fino a disconoscere il ruolo centrale della cura e della riproduzione (femminismo ed ecofemminismo), o ancora il frutto dell’ossessione quantitativa sulla crescita (la prospettiva della decrescita) eccetera… Ciascuna di queste congetture presuppone non soltanto analisi dissimili, ma soprattutto prospettive di lavoro che presuppongono percorsi, ricette e obiettivi pubblici e privati anche molto differenti. Insomma, il conflitto politico anche sul tema del cambiamento climatico non può essere espunto o trasceso. Un conto è il dato scientifico e incontrovertibile sul riscaldamento del pianeta e la sua origine antropogenica, un altro conto è ammettere le diverse responsabilità di fronte a questa condizione o comprendere che il cambiamento climatico significherà cose diverse per soggetti, territori, e tempi differenti, o ancora riconoscere l’esistenza di strategie e politiche alternative per affrontare questo problema.
Occorre d’altro canto riconoscere, in tutta onestà, che i regimi e le democrazie contemporanee si sono fin ora dimostrati non all’altezza dei problemi concreti, si pensi alla riduzione delle emissioni climalteranti per non parlare di cambiamenti più incisivi, e questo per ragioni strutturali e tutt’altro che superficiali. Un generico appello verso la democrazia – tanto più in un momento in cui i sistemi democratici sembrano sempre più sclerotizzati e platealmente vulnerabili alle forme peggiori di populismo e di sovranismo egoistico – non ha senso, se non come scommessa di rigenerazione e rinnovamento. Le democrazie liberali hanno la responsabilità storica di aver costruito gran parte del loro successo e del loro consenso sull’espansione e la moltiplicazione dei bisogni e dei consumi all’interno di un mercato capitalistico, contribuendo così ad accrescere l’impatto sull’ambiente e sul clima e a sedimentare e cristallizzare forme di disuguaglianza e di ingiustizia ambientale a livello globale. Basti pensare a come l’accesso alle risorse energetiche e alle altre risorse fondamentali sia stato garantito attraverso lunghi e sanguinosi conflitti e interventi militari. In passato per il petrolio, in futuro magari per le terre rare o per il cibo. Se una parte del successo delle democrazie liberali e di mercato si è fondato sulla capacità di assicurare energia, tecnologia, merci e prodotti a buon mercato ai propri cittadini allora è facile comprendere come la possibilità di costruire consenso politico attorno alla prospettiva di abbandonare le forme di economia capitalistica distruttiva, di sostenere un’automoderazione dei consumi, un livellamento del tenore di vita verso livelli dignitosi ma più sobri e sostenibili diventi una sfida complicatissima, e allo stesso tempo ineludibile.
Quello che ci è richiesto oggi è proprio la capacità di affrontare una radicale discontinuità, che richiede non solamente un’estensione della partecipazione e un maggior decentramento del potere, ma anche una capacità di apprendimento dei sistemi democratici e della cultura pubblica, in funzione di un salto di complessità e riflessività. Dunque, con quale idea di democrazia ci prepariamo a raccogliere queste sfide? Cosa significa concretamente ripensare la democrazia a partire dal riconoscimento (come avrebbe suggerito Hannah Arendt) della pluralità dei soggetti che abitano il mondo: uomini, donne, popoli, generazioni, specie viventi? In che modo il riconoscimento di questa pluralità – ovvero il ripensamento dell’idea stessa di cittadinanza e di sovranità – può riaprire il gioco della democrazia e donargli uno spazio, un tempo e una profondità differente?
Certamente, così come il femminismo ci ha ricordato che il riconoscimento delle donne, delle differenze, non può essere semplicemente un’aggiunta alla democrazia maschile, allo stesso modo la dimensione ecologica e della sostenibilità non può essere semplicemente un’aggiunta alla democrazia liberale di mercato. Entrambe le interrogazioni richiamano all’incapacità della tradizione democratica di mettere al centro il nodo delle relazioni, delle interdipendenze e quindi dei limiti. Dunque, non si tratta solo di affrontare qualcosa che è stato tralasciato o considerato secondario, si tratta invece di illuminare una ferita, un vulnus strutturale della teoria e della prassi democratica. Riconoscere questo peccato nella coscienza politica delle democrazie occidentali non significa chiudere i conti con la democrazia. Significa piuttosto sfidare il pensiero democratico a un necessario riorientamento complessivo.
Perché le donne hanno avuto un ruolo fondamentale nella rinascita di un pensiero ecologista moderno? E perché in tutto il mondo le donne guidano movimenti ecologici contro la deforestazione e l’inquinamento, contro i pericoli tossici e nucleari, per un cibo sano e per la tutela della salute? Come ha sottolineato Vandana Shiva, questo «non è dovuto a nessun cosiddetto “essenzialismo” femminile innato. È una necessità appresa attraverso la divisione sessuale del lavoro, poiché le donne sono lasciate a prendersi cura del sostentamento, fornendo cibo e acqua, salute e cure. Quando si parla di economia rigenerativa, le donne sono gli esperti, anche se non sono riconosciute come tali. Anche se l’apporto di sostentamento è l’attività umana più vitale, un’economia maschilista che comprende solo il mercato, lo tratta come non-lavoro».
Per immaginare e costruire assieme una comunità politica realmente democratica ed ecologica, dobbiamo dunque riconoscere e rimettere al centro l’idea centrale della cura. La cura intesa non in senso familistico, privatizzato e reso invisibile, ma come necessità complessiva di sussistenza e manutenzione, non solo ambientale, ma anche economica, sociale e politica. Dunque, la cura dei corpi, dei bisogni, dei desideri e delle aspirazioni; la cura dei bambini, dei giovani e degli anziani; degli uomini e delle donne; dei sani e dei malati; delle case, delle città e delle istituzioni; dei territori e del vivente; dei beni comuni, sociali ed ambientali; la cura della trama invisibile delle relazioni come impegno di tutta una comunità, costituisce l’aspetto fondamentale e ineludibile di ogni tentativo di rigenerazione della vita e della politica.