Riflessioni sull’odio politico tra donne
Sandra De Perini
24 Novembre 2015
Dopo trent’anni di impegno nella politica della differenza, sulla base della mia esperienza, penso che le donne conoscano ancora molto poco l’odio “politico”, mentre sono esperte di cattivi sentimenti che, però, difficilmente ammettono di provare e tendono a vivere unicamente sul piano privato.
Io ho un’idea nobile dell’odio: odiare qualcuna vuol dire riconoscerle su di me una presa potente, attribuirle un valore straordinario. Quella donna, infatti, mi mette in contatto con il male di origine femminile e mi chiede di guardarlo, di tradurlo in parole. Il mio odio non è cieco: se provo odio per una donna, non semplicemente fastidio e antipatia, prendo atto di essere ancora in relazione. L’odio è l’ultima porta che si apre, prima dell’indifferenza e del definitivo distacco, quando tutte le altre si sono chiuse alle nostre spalle. Offre un’ultima possibilità di azione, di rilancio, apre un imprevisto campo di battaglia.
Quella dell’odio politico è la lezione più difficile da imparare. Comporta la consapevolezza di essere in grave pericolo, insieme a un mondo di scambi, di relazioni, di contatti, di saperi e di pratiche e la necessità di trovare mediazioni.
Pensando alle ragioni che una donna può avere per provare questo sentimento forte e negativo nei confronti delle proprie simili, oggi che l’autorità femminile c’è, mi viene in mente un lungo elenco di comportamenti che minano la politica delle donne.
Per questo motivo dico “odio” le eterne piagnucolose, le meschine, le miserabili, le donne perfide che sanno come fare del male alle proprie simili, quelle che provano piacere ad umiliare, a ferire con le parole o anche solo con uno sguardo l’altra, con cui sono in rivalità e forte competizione. Odio le avare, quelle che fanno cadere sistematicamente nel vuoto i desideri, lesinando il nutrimento necessario perché l’azione comune prenda slancio, le indecise che, con le loro infinite paure e continue insoddisfazioni, mettono le mani avanti e minacciano il lavoro comune. E poi ancora: odio le vigliacche che, al riparo della parola pubblica, mettono in cattiva luce i progetti di altre, le false che dicono di venire in pace, disarmate, ma nascondono un complotto, quelle che dichiarano la propria fedeltà e poi sono pronte a schierarsi, rinnegando il debito della relazione; quelle che nei conflitti si credono automaticamente dalla parte del giusto e del vero, quelle che pensano di essere autorevoli, solo per la posizione che occupano, ma in realtà non sanno che cosa significhi quella parola in termini di fatica, generosità, coraggio di fare tagli; quelle a cui non bastano mai i riconoscimenti e ne vogliono ancora e sempre di più; quelle che si infuriano, quando ricevono critiche e indicazioni, indisponibili ad una modifica profonda di sé e del proprio orientamento. L’elenco sarebbe ancora lungo. Mi fermo qui.
È necessario trasformare l’odio in un sentimento politico, in una forza costringente, per cui non ci sono colpe da espiare, ma errori da riconoscere, comportamenti da abbandonare o modificare, gesti pubblici da inventare. Con il tempo si impara ad apprendere quella che Angela Putino chiamava “l’arte di polemizzare tra donne”, di farsi la guerra con onore (Sottosopra blu, 1987). C’è una pratica del conflitto che mette al bivio tra l’andare avanti, fingendo che tutto vada bene, o risvegliarsi e combattere perché ci sia verità nei rapporti tra donne.
La libertà di una donna comincia quando cessa la pretesa di essere amata: questa affermazione sta all’inizio della mia presa di coscienza e del mio impegno politico nella differenza. Erano gli anni Ottanta, mi trovavo immersa nel grande mare dei rapporti “tra” donne, scelte come uniche e privilegiate interlocutrici della mia vita, in un continuum che non aveva alcuna finalità se non il piacere e la gioia che potevano dare le relazioni, le feste, le vacanze, le cene insieme, le notti passate a ridere o a raccontare di sé. Mi avvicinavo ogni volta all’altra disarmata e disarmante, curiosa, con il desiderio di conferme d’amore, di comprensione e alleanza. Furono, invece, contrasti, schieramenti, rotture, malintesi, maldicenze. Non c’era ancora nella mia vita una ricerca condivisa di senso, non mi sentivo responsabile della libertà dell’altra, volevo solo goderne e quando, per desiderio mio e di poche altre, quella ricerca incominciò, era il 1984, il mondo si divise in due: da una parte noi, percepite come traditrici di quella prima forma di comunità, costruita con tanta fatica, dall’altra quelle che, non vedendo la necessità di un percorso politico, decisero di rimanere in quel cerchio magico di relazioni che, all’inizio, era sembrato a tutte un “mondo” grandissimo, ma che, di fatto, era una piccola casa sull’albero, un fortino, un recinto, in cui ognuna poteva avere accesso, pronunciando determinate parole d’ordine e da cui usciva, lasciando invisibile la parte più vera di sé, in cambio di credito sociale. Risalgono a quegli anni le mie prime esperienze di odio provato e ricevuto da altre donne sotto forma di attacchi, duri colpi, tentativi di eliminazione. Da lì un lungo cammino, più di trent’anni di “nuovi inizi”, di progetti, di scacchi, di conflitti vissuti con onore e disonore, intenta a intrecciare legami, a dipanare nodi, a costruire una “lingua comune delle donne”.
E adesso sono qui a dire che l’odio c’è. Rimosso, cacciato indietro, bandito dai rapporti tra donne, ma c’è. E fa paura. Non è solo un sentimento, è una forza, di cui bisogna tenere conto, per realismo. Può scorrere per anni silenzioso, sotterraneo e poi balzare fuori all’improvviso, incrostato di invidia e di risentimento. Può manifestarsi imprevisto e distruggere in poco tempo un lavoro politico di anni.
Al suo passaggio cadono ponti, si spezzano reti, si squarciano scenari per lasciare posto alla nuda realtà di un sentimento irriducibile. La corrente dell’odio fa vibrare i corpi di disgusto, riempie le bocche di accuse e di parole taglienti e le menti di fantasmi.
Non c’è riparo dall’odio. Si subisce e si prova. Ci vuole coraggio per guardarlo in faccia, per riconoscerlo riflesso nel proprio sguardo, senza provarne vergogna: l’odio pietrifica, scava buche profonde nell’anima, fa dimenticare la pietà e la compassione, trasforma i sentimenti malefici, le paure, i profondi contrasti tra donne in orsi feroci, lupi in agguato, corvi minacciosi che volano in cerchio, pronti a scendere in picchiata.
Che cosa placa l’odio? Non la “medicina” dell’amore. Ci vuole altro, ben di più, perché l’odio è un sentimento assoluto e l’amore non è il suo contrario. È necessario un gesto sottratto alla catena dell’azione – reazione, attraverso cui l’errore sia pubblicamente riconosciuto e si renda di nuovo possibile, se non la gioia dell’incontro, forse perduta per sempre, almeno un confronto politico tra avversarie eccellenti. Occorre “espiazione”, come nel Medioevo, sofferenza trasformatrice. Allora sì che l’odio si placa, trova una misura e ritorna nel mondo infero da cui proviene.
Ogni tentativo di mediazione, di fronte all’odio, si rivela spesso un assestamento fragile, inconsistente. Perché l’odio ha fame, non conosce misura né compromessi, non teme le voragini che si aprono sotto i piedi, si lancia nel vuoto, prendendo fuoco in velocità. Agisce sprezzante e colpisce senza esitare le parti più fragili e tenere dell’essere. Il suo prezzo è la bruttezza, lo schiacciamento nel qui e ora. Il guadagno è un’intelligenza sottile, attentissima alle trappole e agli inganni, una strana libertà, aspra e brutale, un sapersi muovere nel buio, senza cadere nella tentazione del perdono né cedere all’illusione che basti un semplice atto di volontà per cancellare il male fatto o ricevuto.
Bisogna averlo provato l’odio, almeno una volta, per riconoscerlo. Occorre aver attraversato l’inferno dei rapporti tra donne, il disordine delle passioni viscerali, essersi trovate immerse in laghi di cattiveria e infedeltà femminile, aver incontrato sguardi che feriscono e tagliano in due il contesto, per toccarlo con mano e coglierne il suo frutto velenoso: il disamore, il profondo disprezzo, il desiderio di vendetta.
La donna che odia è forte, determinata a vincere sull’altra, pronta a battersi, disposta a “cedere il regno per un piatto di ceci”, a perdere tutto, anche a sparire per sempre, in cambio della gioia selvaggia di un solo momento di riscatto.
L’odio assume forma politica quando smaschera la falsità del “volersi bene” tra donne che, come una viscida patina, avvolge i rapporti, rendendoli deboli e insipidi, riducendoli ad un misto di ricatti, differenze caratteriali, richieste di consolazione, astute seduzioni per soddisfare reciprocamente il bisogno di continue conferme.
Allora l’odio si presenta, indomabile come un cavallo selvaggio. A quel punto, conviene assecondarlo, non fare resistenza né illudersi di riuscire a governarlo, ma seguirne i movimenti e, un attimo prima che inizi a lanciarsi nella sua veloce corsa, avere la presenza di spirito di saltargli in groppa “con la spada in mano” (direbbe Luisa Muraro)
L’odio politico è un’azione personale e allo stesso tempo impersonale: con uno schiaffo irriverente e ironia beffarda, ponendosi a grandissima distanza, scompiglia le truppe dei buoni sentimenti, mettendo a soqquadro patti ed equilibri durati troppo a lungo, riconciliazioni illusorie. Costringe a dire la verità del proprio scacco, ad ammettere l’ambiguità di un desiderio di potere che ha intrappolato un progetto di libertà, per cui tante si erano spese, il fallimento di un desiderio di grandezza femminile, smentito clamorosamente dalla miseria che è rispuntata in contesto, invitata da quelle che hanno avuto paura della propria forza.
Quando odiamo o siamo odiate, non possiamo contare su una madre accogliente che ci consola e ci giustifica: siamo poste tutte di fronte alla potenza del “negativo di origine femminile” (Sottosopra oro, 1989). È segno di responsabilità politica non diffondere quel male: di qui, a volte, la scelta di fare silenzio, di porsi al di sopra degli scontri, di non rispondere alle provocazioni con un’azione allo stesso livello.
Poi, però, bisogna pur capire come andare avanti in positivo, perché la politica delle donne non è una valle di lacrime, scommette sulla felicità. Allora entra in campo la mediazione femminile che non cerca compromessi e facili assestamenti, ma crea un contesto dove si possa mettere in scena una “battaglia” per trarre dal conflitto, nominato in termini politici, un guadagno di senso per tutte e un nuovo orientamento.