Restare nell’apertura
Chiara Zamboni
21 Maggio 2018
C’è una disposizione di apertura al mondo che viene logicamente prima dei giudizi positivi e negativi sulla realtà. Questa apertura mostra che noi ne siamo del mondo e il mondo è in relazione a noi. In termini politici questa apertura significa che le donne e gli uomini mi interessano, quel che fanno mi riguarda sempre e comunque. Ogni loro azione, discorso mi coinvolge, mi ferisce, aumenta il senso di me o mi diminuisce. Ha a che fare con la mia vita.
Non si tratta dunque di assumere come buona pratica il parlare bene delle donne contro la pratica del parlarne male, ma di portarsi su ciò che è essenziale e cioè questa apertura per cui tutto è interessante. Mi riguarda. Ed è a partire dal fatto che mi riguarda che sono portata poi – in seconda battuta – a formulare dei giudizi.
Compiendo questo passo indietro, mi fermerei sul fatto che questo interesse per il mondo prima di ogni giudizio mi porta a dare poi dei giudizi non tanto positivi o negativi, quanto singolari, circostanziati, sapendo che comunque sono coinvolta soggettivamente perché nel comportamento dell’altra c’è qualcosa che ne va di me.
Porto un esempio di passo indietro dall’immediatezza di un giudizio positivo o negativo nel considerare il comportamento di un’altra donna. Ricordo come nel 2009 Ida Dominijanni avesse presentato su «il manifesto» la figura di Patrizia D’Addario, una donna che era entrata nel circuito dello scambio sesso-denaro nella costruzione del mito di potere ruotante attorno alla sessualità maschile di Berlusconi. Avevo letto allora gli articoli. Ho riletto poi su Patrizia D’Addario le pagine che Ida Dominijanni le dedica in Il trucco. Sessualità e biopolitica alla fine di Berlusconi (Ediesse, pp.71-101). Lo porto come esempio cruciale perché mi ricordo che nel dibattito femminista del tempo D’Addario veniva giudicata o positivamente (si tratta di libertà femminile e ognuna può regolarsi come crede) o negativamente (è un esempio di sottomissione alla logica di uno scambio maschile). Dominijanni ha fatto un passo indietro rispetto a questa contrapposizione. Ha intervistato, cioè dato parola pubblica, a D’Addario. Ha dato voce agli elementi di scarto soggettivo rispetto al modello previsto di giovane donna nel contesto della sessualità di potere maschile, al lato affettivo di differenza femminile che ha spinto lei, a differenza di altre, a portare a luce pubblica i comportamenti di Berlusconi mostrando il castello di carta di una sessualità di potere, che è di carta solo se donne a partire dalla loro esperienza ne parlano.
Ovviamente il lavoro simbolico di mostrare le potenzialità politiche del gesto di D’Addario è tutto di Dominijanni, perché Ida ha a cuore la politica delle donne, che è come dire che le interessa il mondo e se ne sente parte.
Quale guadagno da questo esempio? Che in realtà l’invito a parlare bene in generale delle donne – quando è una posizione presa a priori, come postura – significa creare un tempo di sospensione dall’accettazione o rifiuto immediati. Comporta che per un po’ mettiamo tra parentesi il lavoro simbolico di capire il comportamento di quella singola. Questo di solito per due motivi. In primo luogo perché per il momento non abbiamo elementi per arrivare a un giudizio singolare. In secondo luogo abbiamo bisogno di fare silenzio dentro di noi e riorientarci. Dunque interpreto l’invito a parlare bene delle donne in modo generale come attesa per avere il tempo di andare a una conoscenza effettiva della situazione. Certo c’è un guadagno di tutte a fare un passo indietro dall’immediatezza dell’accettazione o rifiuto. Per poi, come nel caso di Ida Dominijanni e Patrizia D’Addario, andare a una comprensione dell’altra, cioè a dare spazio alla voce singolare all’interno di una trama simbolico-politica della realtà.
Porto un secondo esempio. Frequento occasionalmente a Verona il gruppo di giovani donne del movimento Non una di meno. Il mio giudizio è positivo o negativo? Da un lato sono molto contenta che ci siano perché è legato a un movimento femminista presente in più paesi, che oggi trovo tra i più interessanti. Le ragazze del movimento a Verona hanno un riconoscimento vero, non formale, del pensiero della differenza e allo stesso tempo sono del tutto impegnate in una loro ricerca autonoma attorno alla parola orientante di transfemminismo, come termine ancora da scoprire e inventare. Tuttavia in una città come Verona, nella quale la sinistra tradizionale è più assente che altrove, si stanno caricando di compiti, che sono stati propri della sinistra: l’antifascismo, le manifestazioni per il 25 aprile, e così via.
Da un lato vedo in loro delle grandi potenzialità, un femminismo radicato, ma allo stesso tempo osservo che si fanno portatrici di valori già consolidati e sperdono la loro energia nell’organizzazione di manifestazioni che tendono in parte a sostituirsi alla sinistra nella forma dell’attivismo.
Perché porto questo esempio? Sono ragazze che mostrano grandi potenzialità. Sono vitali, intelligenti, appassionate del femminismo. Tuttavia rischiano di sperdersi per sostenere battaglie non loro. Non mi sento di dare un giudizio definitivo né di bene né di male. Ho un atteggiamento di apertura nei loro confronti perché sento la potenzialità che esse fanno essere anche per me. La loro potenza d’essere è un processo in atto. Possono fare degli errori, sbagliare, ma sento che il loro percorso è agli inizi, si misura nel processo stesso, che sicuramente è a zig zag, non lineare.
In questo caso il parlarne, dandone un’immagine complessivamente positiva e generale senza rigettare subito certi aspetti particolari, significa lasciare tempo che questo movimento inaugurale si faccia processo. È avere fiducia nella loro potenzialità generativa che è viva.
Questa riflessione è estendibile al rapporto con molte donne che mi interessano. La vita di una donna infatti non è un percorso legato a un destino che realizza consapevolmente.
Hannah Arendt alludeva al fatto che solo dopo la morte possiamo vedere il disegno che con i nostri passi abbiamo disegnato. Mentre siamo in vita, prevale invece il senso dell’imprevisto, della possibilità di una nuova nascita, di una potenzialità d’essere che una donna vive come processo in atto. Se mi è facile vedere in un movimento politico inaugurale la potenzialità che si fa processo, più complesso riconoscere questa potenzialità in donne che conosciamo da tempo e che vediamo ripetere gesti che esprimono una ferita interiore. Ma anche la ferita può diventare potenzialità politica-esistenziale. Penso che giudicare apre uno spazio simbolico positivo se manteniamo sempre aperto il senso di questa potenzialità d’essere, la possibilità di una svolta, di un nuovo inizio.
Allora anche un giudizio negativo rivolto a una donna a cui si tiene può risultare un aiuto per rimettere in movimento il processo trasformativo che magari vediamo essersi bloccato.
Voglio differenziare in modo netto l’invito a parlare bene delle donne in forma generale dalla pratica del conflitto politico. I conflitti politici con altre non nascono da giudizi positivi o negativi su di loro, ma per un discorso sulla realtà che viene fatto in modo contrastante e dove ognuna porta ragioni diverse. Il conflitto politico riguarda precise questioni del mondo comune e il significato da dare alla realtà. Scontrarsi politicamente con una donna non implica parlare male di lei nella sua singolarità d’essere. Anche se da sempre mi interessa capire il legame tra uno stile di vita, un modo di esserci e le posizioni prese sul mondo.
Detto questo, mi sono chiesta che parte abbia il legame con il materno nei giudizi particolarmente negativi di donne su altre donne.
Si sa che tra noi e le altre donne c’è un legame in cui le soggettività non sono del tutto individualità separate. Né una né due ma anche allo stesso tempo una e due con l’altra. Ciò accentua l’opacità fantasmatica, onirica del nostro rapporto con le altre. Non siamo di fronte ad una vera e propria confusione ma non si può parlare nemmeno di autonomia individuale e questo ha a che fare con il nostro legame con la madre da cui ci siamo separate ma anche non ci siamo separate. E così con le altre donne. Lo considero un elemento di forza che però rende complesse le relazioni femminili. Un aspetto che vedo risulta abbastanza incomprensibile agli uomini.
Questa prossimità intessuta di fantasmi spiega la durezza di giudizio di alcune donne sulle altre, che nasce di frequente dal fatto che l’altra non è lo specchio in cui vorremmo rifletterci. Non è mai sufficientemente all’altezza, non è mai perfetta. Non essendo perfetta, riflettendoci in lei, noi stesse ci sentiamo di meno. È questo che è insopportabile.
Ho in mente lo sguardo di amarezza, la bocca piegata in una smorfia in chi con sdegno parla male di altre donne. Non si tratta di un giudizio morale: c’è qualcosa di ferito rispetto a sé quando l’altra non è all’altezza.
È proprio in rapporto a questa situazione che è così importante l’orientamento della politica delle donne che tiene assieme aspetto soggettivo e politico: riscatta infatti le nostre ferite, le nostre mancanze, non negandole o aggirandole, ma mostrando che la loro verità è parte di un percorso politico dove la nostra soggettività è il luogo di sperimentazione di quello che capiamo e possiamo fare. Senza dunque sanarle, ma facendole parlare. La politica delle donne impara dalle mancanze e dalle ferite, e per questo aiuta a limitare il rifiuto della inadeguatezza di altre in cui ci rispecchiamo.
Cosa succede quando un giudizio negativo – comunque alla fine formulato – può andare a male, diventa disgregante? Questo tema è al centro del libro di Diotima La magica forza del negativo (Liguori).
Mi sono fatta l’idea che parlare bene delle donne come atteggiamento di fondo, come interesse e apertura, permette di dare spazio al negativo senza che questo vada a finire male. Può sembrare un paradosso ma non lo è. Cerco di spiegarmi.
Succede a volte che lo scarto che noi avvertiamo nei confronti di un’altra su cui formuliamo un giudizio negativo scivoli nella disgregazione del rapporto, con uno scacco conseguente sia della lingua sia della politica. La differenza che sentiamo con lei e che porta ad un giudizio negativo, se va oltre un certo limite, diventa ostilità nichilistica. Muro. Interrompe il circuito della politica.
Per questo è così importante formulare con finezza un giudizio singolare e circostanziato sull’altra. Questo impedisce che lo scarto tra me e lei diventi disgregazione e assuefazione alla disgregazione, cosa ancora peggiore.
In un saggio intitolato La grazia del no e contenuto in questo libro di Diotima, Cristina Faccincani rilegge il racconto di Melville intitolato Bartleby, dove lo scrivano pagato per trascrivere dei documenti dice: preferirei di no. Cristina lavora sulla grazia del no come un sottrarsi, un aprire uno spazio simbolico. Lo scrivano si ritrae «abolendo contemporaneamente ogni accettazione e ogni rifiuto, devasta e sabota i presupposti di ogni reattività abituale. (…) Facendosi vuoto di contenuti consolidati e familiari, apre spazi al processo, all’ignoto, alla differenza, al cambiamento, alla creazione» (p. 196).
Cosa guadagno da questo testo rispetto alla questione che ci sta a cuore? Rileggo la proposta di parlare bene delle donne come passo indietro dal parlarne male. Non tanto effettivamente parlarne bene sempre e comunque nei giudizi, ma astenersi dal parlarne male, perché ciò crea vuoto nei confronti dei contenuti consolidati, familiari, scontati e reattivi. Apre alla differenza, allo scarto, alla possibilità di cambiamento. Evita l’atteggiamento immediato di accettazione e rifiuto, facendo un passo indietro, cioè stando nell’apertura di cui parlavo all’inizio.
In questo modo si permette che appaia altro dell’altra. Ricordo una frase di Simone Weil nei Quaderni: «Ogni essere grida in silenzio per essere letto altrimenti» (Quaderni, vol. 1°, p. 258).
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Parlare bene delle donne, del 13 maggio 2018.