Reato di femminicidio, la giurista Tordini Cagli: “È solo una norma spot, repressiva e inefficace”
Valeria Pacelli
9 Luglio 2025
da Il Fatto Quotidiano
«Una norma spot poco efficace. Utilizzano lo strumento penale in funzione prevalentemente simbolica». Silvia Tordini Cagli, professoressa associata all’Università di Bologna, dove insegna Diritto penale, è una delle novanta giuriste firmatarie di un appello al governo Meloni per intervenire sul disegno di legge 1433 del 31 marzo scorso che introduce il delitto di femminicidio.
Professoressa, l’introduzione del reato di femminicidio è però una novità?
Certamente. Questa è la prima specie di reato, forse la seconda dopo quello di mutilazione dei genitali femminili, orientata dal punto di vista del genere alla donna. Normalmente le fattispecie incriminatrici sono neutre da un punto di vista del genere. Dunque, da questo punto di vista, è una novità: c’è la volontà di dare un messaggio culturale, simbolico, di grande impatto.
Quali sono le criticità?
Il nuovo reato, il 577 bis del Codice penale, prevede come pena fissa l’ergastolo. Questo crea una serie di difficoltà per quanto riguarda la compatibilità con le funzioni costituzionalmente previste della pena, in particolare è in contrasto con quella che dovrebbe essere la funzione rieducativa della pena. E poi l’altra grande criticità riguarda il piano della previsione degli elementi descrittivi del fatto. Almeno con riferimento alla prima versione, gli elementi descrittivi, che sono fondamentali anche per distinguere il reato di femminicidio dalle altre ipotesi di omicidio, sono tutti di carattere molto soggettivo che attengono alle finalità, alla psicologia dell’omicida e dunque sono molto difficili da provare. Questo rende la norma poco determinata e in contrasto con il principio di certezza.
Nel ddl si dice che è femminicidio “il fatto commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio” delle sue libertà. Ora la maggioranza ha presentato un emendamento (potrebbe essere votato già oggi) che riscrive il reato: femminicidio è quando l’assassinio è “conseguenza del rifiuto” della donna di avere una relazione o di subire una condizione di soggezione o limitazione. Questo emendamento supera le criticità di cui parlava?
In parte sì. Stanno provando ora a sistemare le cose. Perché nella prima stesura si diceva ad esempio che il femminicidio si poteva contestare quando viene uccisa una donna solo perché donna e per la volontà dell’omicida di limitarne la libertà. Questo diventa dimostrabile solo se lo ammette l’omicida stesso. Immaginiamo le difficoltà che avranno i pubblici ministeri. Se venisse votato l’emendamento il reato sarebbe più facile da dimostrare.
Perché avete deciso di fare un appello al governo?
Perché ci è sembrato di essere davanti a un esempio emblematico di un modo sbagliato di fare diritto penale, che va contro i principi di garanzia richiesti dal diritto penale. Siamo di fronte all’ennesima norma repressiva che non aggiunge nulla: non ha una funzione di prevenzione né di deterrenza. Bisogna lavorare su questo fenomeno in modo diverso: il femminicidio è la punta dell’iceberg. Se non si prevede alcun tipo di supporto alle pratiche antidiscriminatorie e di prevenzione non si risolve niente: è solo un’operazione di immagine. Manca invece tutta la parte degli investimenti nelle strutture, ad esempio per le case che accolgono le donne, e per il personale in genere. Introdurre una nuova ipotesi di reato è molto spesso la via più semplice e più economica, perché di per sé non prevede la necessità di fare degli investimenti.
Siamo di fronte a un’operazione spot?
Assolutamente. Da anni c’è una tendenza a utilizzare lo strumento penale in funzione meramente simbolica, quando poi in sostanza da un punto di vista di quella che è l’efficacia non si arriva a nulla. Questo strumento viene utilizzato con troppa disinvoltura.