Quando parlar bene delle donne non è facile
Betti Briano
22 Maggio 2018
Mentre mi viene naturale parlar bene di quanto le donne esprimono nel campo dell’arte, del pensiero e della letteratura, mi risulta invece difficile per quello che esse fanno e dicono nell’ambito della politica ufficiale. La ragione penso sia riconducibile a un generale sentimento di diffidenza nei confronti della politica e in particolare a un giudizio di omologazione al maschile nei confronti delle donne che si affermano in quel campo.
Da poco tempo mi sono però imposta di astenermi almeno dal parlar male, qualora non riesca a parlar bene, anche delle donne politiche. La decisione è seguita a una travagliata riflessione autocritica intorno al più recente episodio nel quale mi sono trovata a esprimere un giudizio negativo su donne protagoniste di un avvenimento politico. Al centro della riflessione c’era un mio articolo, uscito in occasione delle ultime elezioni amministrative per il Comune di Savona, nel quale stigmatizzavo la candidatura delle due donne che si contendevano la carica di sindaco al ballottaggio come mera operazione cosmetica e di facciata da parte dei partiti in forte crisi di credibilità nell’opinione pubblica. Una volta divenute una sindaca e l’altra capa dell’opposizione, mi sono sentita in forte imbarazzo e impedita nel fare interventi nel merito avendo realizzato che ogni possibilità di interlocuzione e confronto risultava compromessa in partenza proprio a causa del mio articolo; d’altronde mi son chiesta come avrebbe potuto agire quello stigma a parti invertite e ho dovuto ammettere che difficilmente io stessa avrei potuto avere sentimenti di apertura e disponibilità al confronto con chi mi avesse giudicata incapace di volontà propria e mero strumento di disegni altrui.
L’autocritica mi ha portato pertanto a concludere che, per quanto convinta di aver detto il vero, ritenendo in quel momento di non avere elementi per parlar bene a meno che non volessi limitarmi a esaltare la novità delle candidature in rosa, avrei fatto meglio a tacere. L’invito di ViaDogana3 all’incontro del 13 maggio ha però riaperto la questione e mi ha fatto capire che non potevo accontentarmi della conclusione cui ero arrivata, per cui mi sono recata all’incontro determinata ad accogliere qualunque idea in grado di aiutarmi a sciogliere il nodo nel quale mi sentivo avviluppata. In effetti le relazioni introduttive e diversi interventi hanno soddisfatto pienamente le mie aspettative consentendomi di mettere a fuoco i differenti modi nei quali avrei potuto agire positivamente nel caso in esame, evitando la chiusura della comunicazione e anzi tenendo la porta aperta a impreviste possibilità di scambio.
Accogliendo il senso dell’introduzione di Chiara Zamboni, avrei potuto sospendere il giudizio per rimanere in posizione di apertura e attenzione verso la “potenzialità di essere” insita nella scelta di mettere a disposizione della collettività la propria esperienza femminile da parte delle aspiranti sindache oppure, sull’esempio della celebre intervista di Ida Dominijanni a Patrizia D’Addario, fare un passo indietro e dare la parola alle due donne per fare emergere il loro punto di vista sul dispositivo (di potere) che aveva portato alla candidatura in rosa. La sospensione temporanea del giudizio avrebbe potuto consentire interventi successivi mirati e anche, come suggerito da Giordana Masotto, l’apertura di conflitti atti a spostare in avanti il terreno del confronto, oppure di capire meglio e trovare una spiegazione non superficiale dei fatti, come precisato da Lia Cigarini.
Anziché impormi anche temporaneamente il silenzio avrei potuto intervenire, secondo l’indicazione di Luisa Muraro, articolando diversamente il discorso in modo da mettere in luce anche il lato positivo di quell’avvenimento politico e riconoscendo alle due donne ciò che sappiamo essere una leva potente, in genere sottaciuta, del protagonismo femminile nella scena pubblica: il desiderio di riscatto personale e collettivo da una situazione storica di inferiorità come anche la volontà di significare simbolicamente valore e sapere femminile anche in attività tradizionalmente maschili.
Una presa di parola contestuale ma saggia e consapevole, con maggiore probabilità della sospensione del giudizio, avrebbe lavorato per l’apertura alla possibilità di sviluppi futuri, ma per prendere quella parola avrei forse dovuto fare appello all’empatia e al senso di sorellanza, di cui hanno parlato sia Luciana Tavernini che Luisa Muraro, che purtroppo mi risulta ancora difficile nutrire nei confronti di tutte le donne e in particolare per quelle impegnate nella politica maschile. Penso infatti che dovrò lavorare ancora molto per alleggerire il mio sguardo e la mente da pre-giudizi, antipatie, false certezze per divenire capace di scorgere anche nel negativo la possibilità del bene ed imparare a parlar bene delle mie simili anche quando sono dissimili da me.