Quali parole per… quali parole?
Marina Santini
9 Giugno 2024
Inizio con una citazione tratta dal libro di Melita Richter Malabotta Guarire mondi in crisi, letto su suggerimento dell’amica Luciana Tavernini.
Siamo intorno al 1995: l’autrice cerca a Zagabria per «alcuni amici che seguivano un corso di lingua all’Università Popolare di Trieste un libro di testo di “croato-serbo”, […] un buon libro di testo. Nella libreria – continua la Richter – non vollero vendermelo. Lo avevano ma non lo vendevano più. Per quell’abbinamento “croato-serbo”. Ritirato. Quasi si trattasse di stampa nemica. E mi guardavano con astio per il solo fatto che avevo osato chiederlo. […] Lo stesso astio che notai nella risposta della commessa di una nota salumeria quando chiesi dei “viršli” (Würstel) parola sempre usata a Zagabria. “Non li abbiamo”, disse la commessa. “E quelli lì?”. “Hrenovke, signora. Noi non vendiamo viršli, solo hrenovke”».
La guerra dei Balcani è diventata anche una guerra sulle parole. Oggi trent’anni dopo, anche qui da noi, assistiamo nel linguaggio dei media a uno scivolamento verso termini guerreschi.
L’incontro odierno vuole portare elementi di consapevolezza sull’uso delle parole, su come si forniscono le notizie e gli effetti che producono. Mentre con il Vietnam molta parte dell’informazione suscitava il rifiuto della guerra, dal ’91 (prima guerra del Golfo) in poi, come dice Ida Dominijanni, l’informazione induce a prendere posizione “per i buoni”. È la guerra giusta. Di quello che accade sul campo non veniamo a sapere nulla. Il dissenso nasce col giornalismo di prossimità che restituisce l’esperienza della guerra di chi la fa e di chi la subisce: mostrare la guerra produce reazioni avverse alla guerra stessa. Se all’inizio dell’invasione le numerose interviste e immagini delle donne ucraine hanno favorito una sorta di empatia nell’opinione pubblica occidentale, poco o niente è accaduto con le donne palestinesi.
Pochi giorni fa, ho visto l’installazione Art for the Art World Surface Pattern del 1976 di Adrian Piper al PAC di Milano. Una minuscola stanza è interamente tappezzata di immagini ripetute tratte da giornali che riportano vari tipi di atrocità avvenute nel mondo. Su queste immagini, in rosso, è impressa più volte la scritta provocatoria “Not a Performance”, e un audio trasmette la voce dell’artista che imita il distacco e l’indifferenza di chi osserva. Mi ha colpito la distanza tra ciò che è rappresentato e la voce fuori campo. Le fotografie sono state scattate da chi è prossimo a ciò che accade e inducono a partecipare al dolore delle vittime, mentre l’audio mi ha richiamato il linguaggio utilizzato dalla maggior parte della politica attuale e dei media, dove le informazioni e i commenti carichi di espressioni e parole violente conducono progressivamente all’assuefazione che ci fa scivolare nella medesima indifferenza.
Ora in ogni campo c’è in atto una sorta di polarizzazione che carica in chiave bellicosa e aggressiva le parole.
La ministra Roccella, che pure si dice femminista, contestata a Catania all’inizio di maggio accusa di subire una censura dalle ragazzine, che protestano e manifestano un dissenso. Nella scelta di usare censura, in questo rapporto asimmetrico tra chi detiene il potere e chi vi si oppone, diventa evidente che siamo di fronte a un problema: si distorce il significato delle parole, perché questa parola è legata al potere ed è solo con il potere che si può impedire la libera espressione.
Donne e uomini sono sottoposti a questi meccanismi, che vorremmo cominciare a smontare. Quali parole scegliere? Un esempio: è più facile leggere e sentir parlare di invio di armi al posto di guerra. Non si discute più di guerra, siamo già oltre!
Si parla della morte di una donna vittima di femminicidio, e non di uccisione. Si parla di invasione per l’Ucraina e di conflitto per la Palestina. I governi vengono confusi con i popoli e ignorate le diverse posizioni che ciascuna/o ha all’interno dei singoli Paesi. Hamas è popolo palestinese? Si parla di vittime o di morti, volutamente confondendo i connotati diversi delle due parole. Prevale l’astrazione alla precisione in una generale sciatteria in cui quasi tutti i media si sono allineati. Giulia Siviero, giornalista de Il Post, ha fatto su questo uno studio lessicale e statistico. Si parla di emergenza non di dignità per la guerra, per i migranti; gli esseri umani sono ridotti a emergenza umanitaria.1
Contemporaneamente non si dà notizia del dissenso in Israele, delle pratiche di pace in Russia, della diserzione di molti uomini in Ucraina, si tacciono le molte voci contrarie in Europa.
È facile perdere la fiducia nella lingua, quella che la madre (o chi per lei) ci ha insegnato mettendoci nelle mani il mondo, se quello che vediamo non corrisponde alla parola detta. Ci ritroviamo afasiche: un’amica qualche giorno fa diceva che le mancavano le parole per significare l’esistente.
Luisa Muraro in un intervento del 2006 in Lingua bene comune dice «restiamo moralmente disgustati, sì, ma senza argomenti politici, davanti all’uso strumentale della parola nella vita politica – anche questa una presa di parola – e davanti alla degradazione che colpisce l’una e l’altra. […] ci si allontana dalla politica per convinzione che non ci sia nulla da fare, invece di allontanarsi, insieme alla politica, dai comportamenti che la degradano»2.
Quali parole usare per dire quello che sentiamo?
Tremo e temo quando cerco di mettermi in contatto con la signora ucraina che ha vissuto con i miei genitori negli ultimi anni della loro vita. Paura che non mi risponda, come è successo varie volte; poi finalmente la sua voce sempre più stanca per le notti passate a cercare di dormire vestita in cantina, i figli e i nipoti messi in salvo lontano, la sua solitudine in un territorio di confine, ormai spopolato. Racconta a lungo, se le linee non cadono, se c’è elettricità. Poi il discorso prende la via della quotidianità “normale”: le patate da piantare, le rose italiane sbocciate e subito bruciate dal gelo che è tornato e tarda a lasciare posto alla primavera, la “decabrista” figlia della mia, che quest’anno ha fatto due fioriture. Ci salutiamo, la promessa di sentirci presto e, chissà, forse di rivederci.
Mi volto a guardare la mia piantina che sta sul balcone, aspetta il sole e l’annaffiatura e penso alla “decabrista” di Lyudmyla che non sa cosa aspettare.
La mia paura della guerra, la sua paura della guerra. Quanta distanza di significato in questa parola! Quali parole usare per dire la realtà che ci sta di fronte?
Nel 1987 fa uscivano le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini, in quegli anni ho avuto molte difficoltà con il preside della mia scuola, quando rivolgendomi alle ragazze con il femminile e ai ragazzi con il maschile, ne marcavo la differenza.
Ci sono voluti quarant’anni perché l’uso del femminile fosse interiorizzato e si sentisse come una imposizione politica la presidente del Consiglio che vuol essere chiamata il presidente, facendo scivolare chi la segue in evidenti errori di grammatica. Ma, contemporaneamente, assistiamo di nuovo a una cancellazione progressista del femminile con la sostituzione, almeno nello scritto, della inclusiva ә o dell’*.
Accenno per ultimo anche alla questione dei social, che peraltro non frequento, dove il linguaggio è spesso violento, anche se non direttamente riferito alla guerra, e mira alla polarizzazione producendo un’aggressività delle parole in tutti i campi.
Riprendo le domande dell’invito pensate per avviare la discussione.
Come uscire da questa stretta? Come dare forza a una parola che non stia nella logica violenta della contrapposizione? Come produrre una parola autorevole femminile che non si confonda con un’espressione narcisistica di sé che poco ci interessa?
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Lingua è politica, 9 giugno 2024