QUALE BUONA SCUOLA?
Mariella Pasinati
14 Novembre 2014
di Mariella Pasinati
Ancora una volta non è una scuola per bambine, ragazze e donne la buona scuola del documento governativo. Rigorosamente maschile è, infatti, tutto il suo impianto: dalla lingua utilizzata, all’assenza di qualsiasi idea di formazione che preveda l’esistenza di due soggetti, alla logica di un modello fondato sulla competizione e differenziazione in senso gerarchico fra docenti e fra scuole.
Sulla lingua utilizzata:
Nonostante il tono innovativo -facile, concreto, coinvolgente-, tutto il documento è scritto nel maschile-falso neutro che cancella e nega la presenza del femminile, confermando la posizione dissimmetrica che donne e uomini occupano nella lingua e nella cultura. Eppure, da decenni si discute intorno alla “sessuazione della lingua” cioè al dare visibilità ed esistenza “linguistica” al femminile, non già per una questione di “parità”, ma per la consapevolezza che la soggettività non solo si esprime ma si forma nel linguaggio, passaggio fondamentale perché nella lingua, nella cultura, nella scuola le bambine, le ragazze e le donne possano essere previste e non solo incluse.
Sull’assenza di una misura femminile:
In una scuola fatta ed abitata soprattutto da donne e nonostante decenni di ottime pratiche didattiche che con difficoltà ma con tenacia sono state agite nella scuola per segnare il processo dell’educare di una misura femminile, la cultura e l’esperienza delle donne continuano ad essere ignorate dalla buona scuola.
“Dimenticanza” tanto più grave in un clima di crescente violenza maschile sulle donne per combattere la quale occorrerebbe un serio lavoro educativo a partire dal riconoscimento che alla radice delle azioni violente che le donne subiscono c’è la violenza simbolica che ha sancito l’essere seconda della donna rispetto all’uomo, la sua espulsione storica dalla polis e dalla cultura. Promuovere una cultura non più centrata su un unico soggetto è la condizione per dare inizio ad una nuova civiltà delle relazioni, improntata al rispetto della differenza: una buona scuola dovrebbe registrare innanzitutto questo cambiamento del simbolico.
Sull’assenza di un impianto pedagogico e sulla continuità con i modelli di scuola del recente passato:
Nonostante la citazione, peraltro “senza conseguenze”, di don Milani e Maria Montessori, è del tutto inesistente nel documento qualsiasi riflessione pedagogica. Anche in questa assenza, la buona scuola sembra piuttosto portare a compimento il discorso ufficiale, da anni perseguito nel nostro paese, che ha puntato a sovvertire il senso dell’educare in nome di principi del tutto estranei al contesto formativo (produzione, competitività, autonomia, aziendalizzazione dell’istruzione).
Un discorso in cui la dimensione dell’insegnare è più una tecnica che una pratica, lontana dall’idea di un agire educativo fondato sulla relazione viva (fra docenti e fra docenti e studenti) che invece è caratteristica specifica del processo dell’educare, così come il desiderio di insegnare/imparare è elemento-base del processo di conoscenza.
Un discorso che ha, invece, nella questione del “merito” ed in quella del “governo” delle scuole due punti cruciali e che finisce col ridefinire un modello di scuola fondato sulla competizione, sul decisionismo e sulla gerarchizzazione, a partire dalla diversificazione della stessa organizzazione del lavoro dell’insegnante.
Su “merito” e “governance”:
La buona scuola prevede un ulteriore accentramento delle decisioni nella figura del/la dirigente scolastico/a (compresa la possibilità di scegliere direttamente “le migliori professionalità per potenziare la propria scuola” sulla base di “portfolio e curriculum” personali dei/lle docenti e della consultazione del futuro Registro nazionale dei docenti) con il conseguente indebolimento/svuotamento degli organi collegiali, “rivisitati” e resi “aperti, agili ed efficaci” -cioè depotenziati-. A questo si accompagna l’intenzione di costruire figure intermedie -dal docente “mentor” al “nucleo di valutazione”- che si pongono in una scala gerarchica fra presidi e docenti, diversificando un’organizzazione del lavoro che nella scuola è ”ugualitaria” non certo come istanza ideologica predefinita, ma in quanto caratteristica strutturale dell’organizzazione, dal momento che la funzione docente è, comunque, una sola.
A tutto ciò contribuirà il nuovo meccanismo di progressione economica (inteso, in maniera non corretta, come progressione di carriera) tramite gli scatti di competenza che interesseranno il 66% del corpo docente di ogni scuola sulla base del maggior numero di crediti conseguiti da ciascun/a docente, portando a compimento una configurazione del sistema scolastico niente affatto nuova nelle intenzioni e caratterizzata da competizione e differenziazione fra docenti. Una situazione che potrebbe portare anche a situazioni paradossali: mettendosi dal punto di vista delle famiglie, chi accetterebbe volentieri che il proprio figlio o figlia sia seguito dal 34% di docenti senza scatti di competenza, quindi per definizione “incompetenti”che necessariamente ogni scuola avrà?
L’impianto appare discutibile da più punti di vista e soprattutto sul piano del significato e delle implicazioni che il nuovo-vecchio sistema comporterebbe; infatti:
E’ certamente il momento di una discussione seria sul senso ed il significato della funzione docente (e quindi su che cosa la qualifica) nella scuola che cambia; è auspicabile che la buona scuola sia l’occasione perché una discussione vera possa realmente aprirsi con chi concretamente nella scuola opera e con chi ha a cuore una nuova civiltà delle relazioni, improntata al rispetto autentico della differenza.
Mariella Pasinati
Biblioteca delle donne UDIPALERMO