Prostituzione tra memoria affettiva e indignazione sociale
Gigliola Mendes
31 Ottobre 2019
Sono una studentessa brasiliana che viene alla Libreria delle donne di Milano da settembre 2019. Il 6 ottobre ho partecipato all’incontro della rivista Via Dogana 3 per la prima volta. L’argomento su cui tre donne stanno ragionando mi fa desiderare di mettere in scena il mio “partire da sé” per ripensare con il mio corpo, in presenza, la mia storia e la relazione con mia mamma (e la sua storia). Sono tante le donne del passato e del presente che mi abitano in questo momento! Ricordo la relazione di gratitudine con tutte le donne prostituite che mia mamma mi ha insegnato.
Lei è nata in una famiglia molto povera nello stato brasiliano di Minas Gerais. Lei e i suoi fratelli hanno patito la fame nell’infanzia. Mia nonna preparava le caramelle perché i figli le vendessero nelle strade della città. Erano bambini che lavoravano per aiutare la loro mamma a portare cibo a casa. Già allora i bambini che restavano in strada a vendere qualcosa erano ignorati dalla gente più ricca. Quale madre permette ai suoi figli di stare fuori a lavorare? Con questi giudizi morali quei bambini non riuscivano a vendere le caramelle alle persone distinte (oggi chiamate “buoni cittadini”).
Erano le prostitute che provavano empatia per la loro situazione e, senza giudicare mia nonna, compravano tutte le caramelle dei poveri bambini. Così loro potevano tornare a casa e far mangiare tutta la famiglia. Semplicemente lì è stato costruito un legame di solidarietà tra donne: mia nonna non chiedeva ai suoi figli dove e come avevano potuto vendere i dolci, e queste donne non chiedevano ai bambini chi fosse la loro madre e perché già lavoravano… Le “donne di vita” – come il popolo chiamava le prostitute – a Uberlândia negli anni ’50 avevano soldi e senso di solidarietà sociale. Per questo ho imparato a rispettarle e a essere molto grata per la loro presenza nella storia delle donne della mia famiglia materna.
Così, in un primo momento, ho avuto una relazione quasi poetica con la prostituzione. Ma, essendo brasiliana, vedo la complessità di questo problema, perché ho davvero e per sempre quella gratitudine come eredità materna ma provo anche una forte indignazione per il modo in cui le donne sono prostituite nel mio paese.
Quindi chiedo, e non solo retoricamente, chi sono le donne che possono scegliere di vendere o no il proprio corpo in modo autonomo, farne un lavoro, un lavoro sessuale, dargli o no un prezzo? La mia domanda non ha un approccio morale ma un approccio socio-economico. Non propongo neanche un dibattito sulla legittimità o meno della decriminalizzazione della prostituzione o della lotta per il sex work. La cosa che mi colpisce adesso è il fatto che la prostituzione sia strutturale ed endemica in Brasile e come questo ci consente di avvicinare il Brasile e l’Italia, perché io oggi sono qui e penso da questo posto.
La prostituzione costituisce una necessità economica per molte famiglie brasiliane (e non solo brasiliane, perché so che è un fenomeno internazionalizzato) e alimenta una rete che fornisce sostentamento a molte persone. Alcune persone sono consapevoli che i soldi che le sostentano provengono da questo tipo di lavoro, molte altre sono ingannate da persone legate alle reti di sfruttamento sessuale di bambine e adolescenti o del traffico sessuale di donne. Dove c’è carenza di quasi tutto, la società dei consumi rende i corpi di bambine, adolescenti e giovani donne un prodotto desiderabile. Quindi sono spesso i genitori che offrono o incoraggiano la vendita dei corpi delle loro figlie, oppure spesso queste ragazze, abbandonate dalle famiglie, dallo Stato, invisibili a tutti noi, scoprono molto presto che i loro corpi hanno un valore di scambio e possono consentire loro di condurre una vita di sopravvivenza, spesso breve e intrecciata con innumerevoli violenze. La prostituzione è crudelmente una fonte di reddito indispensabile per molte famiglie e molte piccole città.
Ma la relazione tra Brasile e Italia pensata dalla prostituzione ha attirato la mia attenzione nel 2009, quando sono andata in Ceará per restare più di un mese da un mio caro amico. Abbiamo fatto un giro tra molte spiagge bellissime, con acqua calda e di un azzurro quasi trasparente. La bellezza di quello Stato è indimenticabile, però quello che mi ha colpito di più è stato il numero di turisti italiani accompagnati da ragazze o giovani donne brasiliane. Mi guardavo intorno e mi chiedevo: «È normale? Nessuno ne è disturbato? Sono solo io indignata per questi esempi espliciti di sfruttamento e prostituzione delle ragazze?»
Nello stato di Ceará, nel nordest del Brasile, i tassi di turismo sessuale sono molto alti. Come dimostrano i documenti ufficiali del governo brasiliano del 2013, gli italiani sono la maggior parte dei turisti stranieri. Forse non tutti vanno lì per turismo sessuale, ma molti ci vanno a questo scopo e questo lo sanno tutti, al punto che ci sono voli diretti dall’Italia verso Fortaleza, capitale di questo Stato, che tutti chiamano “il volo del turismo sessuale”. E la prostituzione di bambine, adolescenti e giovani donne davvero avviene alla luce del giorno sulle spiagge di Ceará, come se fosse qualcosa di naturalizzato e normalizzato in quel contesto. Per me è un crimine gravissimo. Ma è anche una fonte sicura di profitto per l’industria del turismo. E questa sarebbe una prima ipotesi per spiegare la normalizzazione di questo crimine in questo contesto, la cui economia dipende fondamentalmente dal turismo. Secondo il regista brasiliano Joel Zito Araújo che ha condotto una ricerca approfondita sul turismo sessuale e la prostituzione nel nordest del Brasile, in Italia e in Germania per realizzare il documentario Cinderela, lobos e um príncipe encantado, il 70% delle donne cercate da uomini stranieri per turismo sessuale sono nere e il 95% proviene da classi sociali inferiori. Sono dati che confermano l’impressione che ho avuto quando mi sono resa conto di questo problema, nel 2009. I corpi di ragazze nere e/o povere valgono meno sul mercato ed è per questo che il loro sfruttamento è così facilmente naturalizzato? O è il bisogno di sopravvivenza in un luogo privo di opportunità per la maggior parte delle persone che, insieme agli interessi economici, definisce i comportamenti? Queste sarebbero altre ipotesi che ritengo necessarie ad approfondire le cause della naturalizzazione dello sfruttamento delle donne.
La prostituzione in Brasile è spesso ancora legata a contesti di schiavitù o servitù contemporanea, nutrita dal neocolonialismo e giustificata dalla complessa rete di oppressioni vissuta dalle donne brasiliane, secondo la nostra realtà sociale, culturale ed economica: oppressione di genere, razza, classe e molti altre non ancora nominate. Ma, contraddittoriamente, come mostra il documentario sopra citato, anche negli scenari peggiori, che agli occhi di donne privilegiate come noi superano tutti i limiti della dignità umana, molte ragazze e donne vedono lì un’opportunità per cambiare la propria vita. Molte di loro nutrono il sogno romantico di incontrare un principe azzurro che potrebbe salvarle da ogni sofferenza. Perché per loro queste fugaci relazioni con uomini stranieri sono di solito le loro uniche fonti di affetto e apprezzamento per la loro autostima. Il contesto mostrato in quel film e la mia esperienza di indignazione in Ceará risalgono al primo decennio di questo secolo e ora sia i programmi sociali dei governi progressisti che abbiamo avuto in Brasile dal 2003 al 2016, sia i numerosi progressi dei movimenti femministi hanno contribuito a trasformare la vita di molte donne.
Ma domando: che cosa si potrebbe fare dall’Italia in modo che i ragazzi in formazione oggi non diventino prostitutori o consumatori di turismo sessuale in futuro, sfruttando ragazze di paesi come il Brasile? Chi dovrebbe fare qualcosa? Servirebbe a educare i loro desideri mostrargli le conseguenze delle loro scelte sessuali sulla vita delle donne? Gli uomini prostitutori, da adulti, dovrebbero essere puniti in conformità con le leggi del loro paese di origine e del paese in cui sfruttano le donne? Queste sono le sfide del patriarcato internazionalizzato che dovranno essere affrontate.
La riflessione che sto facendo vittimizza ancora le donne? Penso di sì, ma insisto con questo tono perché molte donne, in paesi resi subalterni (o di paesi subalterni portate in Europa), sono le principali vittime di un sistema capitalistico, patriarcale, colonizzatore e razzista che sfrutta ripetutamente i loro corpi per mantenere i suoi profitti e le sue posizioni di potere, alimentando industrie come il turismo sessuale nonostante le sue terribili conseguenze.
Comunque la prostituzione mi attraversa, mi appartiene e mi sconcerta. In Europa, in particolare in Italia, paese che consuma ripetutamente la prostituzione brasiliana, io sono vista da molte persone attraverso questa prospettiva e ne sono giudicata moralmente. Sono quindi una brasiliana che parla di prostituzione in un luogo in cui l’immagine preponderante della donna brasiliana è di prostituta. Questa immagine è stata costruita all’estero dallo stesso governo brasiliano, principalmente negli anni ’70 e ’80, attraverso strategie pubblicitarie e di marketing per promuovere il turismo in Brasile. Ma deriva da meccanismi interni costitutivi e molto più antichi di quanto siamo noi come paese, senza dimenticare che la schiavitù è stata per quasi quattrocento anni la principale istituzione del modello di colonizzazione brasiliano.
Un modello socio-economico basato sulla violenza simbolica sulle donne, in particolare sulle donne di colore, i cui corpi sono stati (e sono ancora) proprietà dei padroni e che sono sempre state concretamente e simbolicamente a loro disposizione per essere sfruttate e violentate. Le donne di colore, anche dopo l’abolizione legale della schiavitù, sono ancora rappresentate attraverso stereotipi che contribuiscono alla perpetuazione delle numerose violenze che vivono concretamente e che sono indispensabili per alimentare il desiderio dei consumatori maschi.
Quindi voglio concludere riaffermando la necessità e l’importanza di costruire legami di solidarietà tra donne diverse, attraverso un costante sforzo di riavvicinamento e comprensione tra i loro diversi mondi, come mi ha insegnato la storia di mia madre e di mia nonna. Lo scopo della mia riflessione era quello di rivelare le emozioni e i ricordi che il tema della prostituzione mi provoca, e non di parlare a nome delle molte ragazze e donne brasiliane la cui situazione nutre la mia indignazione, come se non avessero voce e avessero bisogno di essere salvate da me. Primo, perché so che hanno voci, voci diverse e anche protagonismo (e organizzazione sociale), che spesso permette loro di ricostruire le proprie vite. E immagino anche che le loro voci, se fossero ascoltate e diffuse, offrirebbero sfumature mai pensate da esperienze diverse come la mia. Infine, non faccio affidamento su una prospettiva religiosa per presentare i miei argomenti in una dimensione di salvezza, ma noi donne della periferia del mondo (e non solo di lì), a causa della complessità dei problemi che dobbiamo affrontare quotidianamente, non possiamo ancora rinunciare a un certo messianismo per rimanere attive nella lotta per altre modalità di esistenza.