Promising Young Woman – Una donna promettente di Emerald Fennell (USA, 2020, 108’)
Silvana Ferrari
22 Giugno 2021
Film militante già dalla prima scena che capovolge quello che il cinema ci ha abituati a vedere, corpi femminili in primo piano. Lo sguardo della regista inquadra bacini e anche maschili ruotanti, toraci dentro camicie topdown e cinture in pelle che si muovono al ritmo di Boys della cantante Charli XCX che con voce sognante desidera i boys, buoni e cattivi che siano.
Ovviamente non è questo il capovolgimento che desideriamo vedere, ma come inizio fa ben sperare.
La camera si sposta. Altro primo piano su un gruppo di uomini intento a ridere, scambiandosi battute sessiste su una loro collega. Pochi secondi. Altra decisa virata ed ecco là la vittima designata: una donna sdraiata su un divanetto, semicosciente, che attira l’attenzione del branco che, come previsto, le si avvicina. E tu che guardi inizi a intuire, con ansia crescente, quello che succederà dopo i loro malintenzionati tentativi di aiutarla ad alzarsi, condurla verso l’automobile con cui l’accompagneranno a casa. E sei lì in attesa di quello che sai che avverrà, il peggio per una donna. Ma no! Di nuovo tutto cambia e a questo punto la sola idea certa del film è che nulla di quello che guarderai risulterà prevedibile o già visto.
Questo senz’altro il merito di Emerald Fennell, sceneggiatrice del film (Premio Oscar alla Miglior Sceneggiatura), al suo esordio nella regia, ma non nuova sulla scena cinematografica e televisiva come autrice della serie Killing Eve, per cui è stata nominata ai Golden Globe, e come attrice nella super premiata serie The Crown.
Cambio di scena e la storia inizia. Cassie, la giovane donna, interpretata da Carey Mulligan, non è la vittima ma l’artefice di un piano di vendetta. Va nei locali alla caccia di predatori potenziali fingendosi ubriaca e vulnerabile; quando tutto sembra per lei andare verso il peggio si rivela: completamente sobria, inizia a mettere in scena l’azione di terrore che si era prefissata (e altro ancora come forma di rieducazione).
Ultima citazione per mettere meglio a fuoco il personaggio di Cassie: eccola al banco della caffetteria dove lavora: trecce bionde, abiti color pastello, volto sorridente come una qualsiasi brava ragazza che vuole mostrarsi carina. Veniamo a sapere che Cassie aveva abbandonato medicina quando la sua amica d’infanzia Nina, anche lei brillante studentessa, si era tolta la vita dopo essere stata violentata durante una festa studentesca. Vive ancora con i genitori e una sola amica, Gail, la proprietaria della caffetteria. Cassie ha un unico progetto nella vita, la vendetta nei confronti degli uomini predatori che va a stanare nelle discoteche la sera.
Film estremo nel raccontare le scelte di Cassie e le loro conseguenze verso le quali una sceneggiatura molto radicale le indirizza in una decisa accelerazione.
Decisioni che non si stemperano nella breve e quasi spensierata relazione con Ryan, suo ex compagno di università: qui il film sembra deviare portandoci verso territori più conosciuti e accettabili, quelli del discorso amoroso e della commedia romantica. Ma lo scopo non è quello.
Il messaggio della regista è chiaro: lo stupro è una tale ferita, un taglio così irrimediabile per la donna che lo subisce che difficilmente la sua esistenza riuscirà a volgersi verso un qualcosa di minimamente accettabile.
Nel film questo senso di irrimediabilità, irreparabilità è racchiuso lucidamente nella figura di Cassie e nelle sue decisioni, come il suo restare cristallizzata a quel particolare momento della vita, sua e della sua amica, per mantenerne vivo il ricordo.
Fennell dichiara esplicitamente il suo intento: “Volevo intensamente poter scrivere un film sulla vendetta femminile… Il mio obiettivo era di scomporre la nostra cultura (intrisa di tossicità della cultura sessista) e il modo in cui pensiamo, come facciamo tutti parte di un groviglio orribile che è giunto il momento di sciogliere”.
Dalla vicenda personale di una donna la regista va alla messa in scena politica – condannandolo – di un sentire quasi comunemente accettato che permea il modo di pensare e di comportarsi di molti – soprattutto maschi, ma anche alcune donne – che fanno quadrato in difesa degli stupratori e per i quali stupri e violenze sulle donne, commesse da giovani uomini, rientrano nelle cosiddette ragazzate “come un passo che un uomo può trovarsi a compiere senza essere uno stupratore”, il che implica da parte dei giovani uomini che “la consapevolezza di sé e del proprio mondo è che il no di una donna non sia mai un no”. Come scrive Chiara Valerio in un articolo su Repubblica del 21 aprile 2021 (anche sul sito della Libreria delle donne) dal titolo Eravamo solo ragazzi.
Coraggioso e provocatorio nella sua denuncia del sistema sessuale maschile dominante, il film, anche se non direttamente frutto della politica del #MeToo, senza quel grande movimento non avrebbe potuto raccontare così bene della pervasività di quel potere e del suo svelamento.