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Se un albero cade in una foresta ma nessuno ha messo una storia su Instagram, fa rumore?

Quando nei primi anni 2000 si sono uditi i primi vagiti dei social network sapevamo che avrebbero rivoluzionato il mondo ma non fino a questo punto. Per gran parte della popolazione (quanto meno tra under 20-30-40) sono diventati la prima forma di scambio, informazione, esistenza. Il nostro modo di comunicare si è scontrato con una nuova realtà, con le sue regole confuse, i suoi algoritmi misteriosi, le moderazioni prima umane poi sempre meno umane, e ne ha incassato i colpi. Non solo, la realtà si è rimpicciolita in uno schermo che va dai sei ai sette pollici e, di conseguenza, distorta per poter essere rappresentata in uno spazio così infinitesimale che ha la pretesa di farcela entrare tutta quanta. 

O forse siamo noi ad avere questa pretesa: a cercare di far conoscere a tutti la nostra visione del mondo, il nostro punto di vista, il nostro lato di noi che preferiamo. Così, troviamo slavate e intramezzate da selfies e codici promozionali immagini dilanianti della guerra, oppure la nostra foto in fila al seggio elettorale per far sapere a tutti che «sì, io vado a votare. Io sono un cittadino modello. Io».

È una politica avulsa dalla relazione, che vive in una cassa di risonanza in cui ci si dà continuamente pacche sulla spalla da soli, in cui non esiste il confronto, in cui esiste solo l’attacco e la difesa, in cui c’è un solo centro, un solo riflettore: io. Non è più il personale politico, ma il politico che diventa personale. Non solo è cambiato il linguaggio politico, ma i social hanno cambiato lo spazio politico, e come il soggetto lo vive. Così della politica non resta che una foto della durata di ventiquattro ore con cui ci ungiamo il capo, che diventa parte della nostra presentazione al mondo: l’ennesimo badge da mostrare nella selezione delle parti migliori di sé. Così nasce questa idra a tre teste: l’influ-attivismo, o almeno così ho parafrasato da una recente diatriba tra cd. influ-attiviste (oh, loro si sono chiamate così!) apertasi (e chiusasi) su Instagram. Diatriba svolta a suon di varie storie ricche di testo e prive di parole, in cui due personalità del mondo “politico” social si accusavano a vicenda di questo o di quello. Vorrei potervi dire di più, ma l’ho seguita poco: mi è sembrato surreale dedicare la mia attenzione a una inutile battaglia di ego, mentre arrivavano notizie sempre più tragiche dal fronte palestinese.

In un mondo in cui non solo le grandi influencer (vedi Ferragni e pandoro-gate) ma anche quelle ragazze che fanno dell’attivismo online il loro mestiere sembrano completamente sconnesse dalla realtà e devote solo alla loro immagine, la libertà femminile, la pace, la democrazia – di cui queste ultime si fanno portavoce –, diventano schiave dell’algoritmo, al nostro seguito.

Quando la storia più ri-condivisa dell’ultimo periodo è un’immagine generata artificialmente di un campo profughi a Rafah vuol dire che in questo lato del mondo il senso della politica è sparito, inglobato dall’esigenza di mostrarsi più sensibili, più informati, più impegnati. Non solo, i 47 milioni di ri-condivisioni spesso silenziano altre iniziative, altre voci – come quelle del gruppo “Mai indifferenti” di Renata Sarfati, e non solo.

Spesso mi sono chiesta come siamo arrivati a questo punto e che cosa possiamo fare per contrastare questa deriva che sembra fuori dal nostro controllo. Penso che la perdita della politica reale in favore di quella virtuale sia legata alla privazione degli spazi. La mia generazione ha subito più di altre la cementificazione dello spazio pubblico, concomitante con gli albori dei social network. Così, mentre fuori si asfaltavano i parchi e si chiudevano i centri sociali, si apriva una nuova vita, un nuovo luogo terzo che abbiamo iniziato ad abitare ignari di quanto sarebbe in futuro diventato primario.

E ora la mia generazione ha una grande responsabilità: quella di riportare la politica fuori dalle logiche degli algoritmi, fuori dalla censura dei vari CEO, fuori dalla monetizzazione della vendita dei nostri dati. Abbiamo il dovere, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni che si stanno plasmando, di riprenderci i luoghi della politica aperti sulla strada, non indicizzati su Google. E lo sta facendo: basti pensare ai picchetti per la liberazione palestinese in Università, un luogo che aveva ormai perso tutto il suo valore politico nella maggior parte dei casi per svendersi al miglior offerente. Non solo ciascuno nel suo piccolo, e qui forse parlo per mia personale esperienza, ha cercato di cambiare la logica dell’algoritmo, portando avanti la propria voce, fatta di pensieri e comunità: il progetto delle Compromesse, che poi mi ha indissolubilmente legato a quello analogo di VD3, è nato con l’idea di portare altro (e d’altronde non ci abbiamo mai tirato su un euro!) nella cassa di risonanza del femminismo-pop.

Forse sono un po’ troppo ottimista, ma siamo sulla buona strada: per ricostruire il futuro, abbiamo la responsabilità di ricongiungerci con il nostro passato, con la nostra storia e di ritornare a quel primato della parola ormai soppiantato dal primato dell’immagine.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Lingua è politica, 9 giugno 2024