Prima del patriarcato
Adriano Ercolani
19 Novembre 2024
Da kobo.com
Da studioso, non accademico, di simboli e archetipi, nei miei anni di ricerca mi sono obbligatoriamente imbattuto nella necessità di frequentare l’ambito archeologico. Non posso accampare competenze tecniche, mi limito a riportare, da appassionato, la testimonianza dell’influenza di determinate figure ed incontri sul percorso intellettuale del sottoscritto (e di molti altri).
Per il mio percorso intellettuale e spirituale, legato in particolar modo allo studio della devozione degli aspetti femminili del divino, non ho potuto non imbattermi nella lettura dei saggi di Marija Gimbutas. Parliamo di una figura fondamentale nello studio della preistoria europea, in particolare per il suo approccio ai culti della Grande Madre. Le sue ricerche, condotte principalmente tra il ’46 e il ’71, hanno messo in luce l’importanza delle società matriarcali e dei culti legati alla fertilità, proponendo una reinterpretazione della storia antica.
Gimbutas ha identificato e analizzato numerosi reperti archeologici, come statuette di donna e simboli associati alla fertilità, provenienti da culture neolitiche dell’Europa, suggerendo che queste culture avessero un forte legame con la venerazione della Dea Madre, simbolo di fertilità, vita e rigenerazione.
A differenza della visione più largamente storico-culturale del matriarcato di Bachofen, per alcuni versi simili a livello concettuale ma che sorgeva da una combinazione di fonti mitologiche e storiche, l’archeologa (nata lituana, poi naturalizzata americana) basava le proprie tesi sullo studio di dati archeologici concreti.
Gimbutas interpreta molte delle divinità femminili ritrovate nei reperti archeologici in un modo per molti versi convergente alla visione dell’archetipo junghiano della Grande Madre; chiaramente, la sua interpretazione pertiene più all’aspetto simbolico-religioso che strettamente psicanalitico (soprattutto se pensiamo al saggio di Erich Neumann La grande madre. Fenomenologia delle configurazioni femminili dell’inconscio, che sottolinea anche il ruolo potenzialmente oppressivo di una potenza inconscia così “ingombrante”).
L’opera di Gimbutas ha influenzato non solo la ricerca archeologica, ma anche i movimenti femministi e ha contribuito a plasmare una nuova visione della spiritualità, che, nel calderone fertile quanto confuso della New Age, si è sposata facilmente con la riscoperta di massa della filosofia orientale, alimentando un rinnovato interesse per il sacro femminile e le pratiche cultuali legate alla Dea.
Il saggio più importante di Marija Gimbutas è probabilmente The Language of the Goddess, pubblicato nel 1989 [trad. it. Il linguaggio della Dea, Venexia 2008, Ndr]. In quest’opera, Gimbutas riassunse la sua tesi fondamentale ovvero, appunto, l’idea che le antiche civiltà europee neolitiche fossero fondate su una struttura sociale matriarcale e una forte venerazione per il divino femminile, come testimoniato da una vasta e variegata iconografia di dee.
A Gimbutas si deve anche la famosa “ipotesi kurganica”, pubblicata nel 1956 all’interno del saggio The Prehistory of Eastern Europe: una delle teorie più affascinanti e influenti sull’origine delle popolazioni indoeuropee e sul cambiamento culturale che ha trasformato il volto dell’Europa antica. Secondo questa ipotesi, le popolazioni indoeuropee, portatrici di una cultura guerriera e patriarcale, ebbero origine nelle steppe a nord del Mar Nero, in un’area che oggi si estende tra Ucraina, Russia e Kazakistan, circa tra il V e il III millennio a.C. Queste popolazioni, conosciute come “kurgan” (termine che in russo significa ‘tumulo funerario’ e si riferisce alle sepolture monumentali caratteristiche di questi gruppi), si sarebbero espanse verso l’Europa e l’Asia, portando con sé una cultura, una lingua e un sistema di valori nuovi, che gradualmente sostituiranno quelli delle popolazioni autoctone.
Gimbutas, come detto, sostiene che prima dell’arrivo dei Kurgan, l’Europa fosse abitata da comunità agricole e matrilineari, pacifiche e basate su un culto della fertilità e su una venerazione della Dea Madre. Queste società, incentrate su valori di cooperazione e armonia con la natura, svilupparono un simbolismo complesso che celebrava il ciclo della vita e la rigenerazione. Con le ondate migratorie delle popolazioni Kurgan, Gimbutas ipotizza l’arrivo di una società patriarcale e gerarchica, basata sul potere militare e sul dominio maschile. La spiritualità della Dea Madre e della natura cedette il passo a divinità maschili e a un simbolismo centrato sul potere e sulla guerra.
Come spiegò lei stessa in un’intervista del 1992: «Il sistema da cui proveniva la cultura di matrice materna antecedente agli Indoeuropei era molto diverso. Dico di matrice materna e non matriarcale perché quest’ultima desta sempre idee di dominio, ed è semanticamente contrapposta al patriarcato. Quella era una società equilibrata, non è vero che le donne fossero talmente potenti da usurpare tutto ciò che fosse maschile. Gli uomini occupavano le loro legittime posizioni, facevano il proprio lavoro, avevano i loro compiti e avevano anche il loro potere».
Del resto, come spiega Eva Cantarella (nella voce “matriarcato” da lei curata nell’Enciclopedia delle Scienze Sociali), Gimbutas non amava il termine “matriarcale”: «nella ricostruzione di Gimbutas questa dominanza delle donne non sarebbe stata sopraffazione e sottomissione degli uomini. Nel periodo al quale risale il complesso di simboli di cui sopra, infatti, non vi sarebbe stato né matriarcato né patriarcato bensì “gilania”, parola coniata da Gimbutas utilizzando le radici greche gy (donna) e an (uomo), unite da una l centrale, quasi a simbolizzare il legame tra le due componenti sessuali dell’umanità».
Com’è noto, gli studi della Gimbutas hanno ricevuto diverse critiche: dal punto di vista strettamente storico-archeologico, si considerano le sue conclusioni troppo speculative e orientate ideologicamente al fine di enfatizzare il ruolo (financo per alcuni l’esistenza) delle società matriarcali, in assenza di evidenze testuali. D’altro canto, uno studioso come Joseph Campbell, discepolo di Jung, definì il suo contributo in termini epocali come la scoperta della Stele di Rosetta.
Rimane, per chi scrive, comunque l’importanza determinante della sua opera, nel tentativo coraggioso e illuminante di “riscrivere” la storia dell’archeologia (dunque, la storia della civiltà), da un’altra prospettiva.
In anni più recenti un impatto simile, se non superiore almeno come clamore mediatico, è stato causato dalla scoperta archeologica di Göbekli Tepe, nella zona della Turchia prossima al confine della Siria. Si tratta di uno sito archeologico dalla rocambolesca scoperta: prima scambiato nel ’63 per un sito funebre, fu riscoperto casualmente nel ’95 da un pastore; a quel punto partì una missione guidata da Karl Schmidt, a guida di un doppio team (del vicino museo di Şanlıurfa e dell’Istituto archeologico germanico), successivamente passata alle università tedesche di Heidelberg e di Karlsruhe.
La scoperta è stata veramente sorprendente: un’imponente costruzione megalitica, formata da recinti circolari formati principalmente da enormi pietre calcaree a forma di T, decorati con rilievi animali e motivi astratti, alcune delle quali con tracce antropomorfe (ad esempio delle mani allungate lungo i fianchi della struttura), ribattezzate per questo da Schmidt “i vigilanti”.
La scoperta ha rivoluzionato la linea fino ad allora supposta dello sviluppo della civiltà umana, predatandola e capovolgendone l’interpretazione: sintetizzando in maniera brutalmente provocatoria, non sarebbero i culti sciamanico-devozionali a derivare dalla scoperta dell’agricoltura nella mezzaluna fertile, al contrario sarebbe stata proprio la spinta comunitaria alla devozione in luoghi sacri a indurre il processo di sedentarizzazione.
Parliamo di circa diecimila anni fa.
Un’ipotesi vertiginosa che riporterebbe il Sacro al centro dell’esperienza umana, come motore dello sviluppo sociale, non come sovrastruttura successiva allo sviluppo delle attività umane.
Anche in questo caso, per correttezza, devo riportare come una serie di ultime ipotesi derivate dagli ultimi scavi (secondo l’opinione di Lee Clare) facciano tramontare lo scenario del “tempio” come unico ruolo del sito, propendendo per una sorta di ampio rifugio per una comunità di cacciatori e raccoglitori.
Ma al di là del dibattito, chiaramente ancora in fieri, questa scoperta, e le speculazioni derivatene, ha ispirato una serie di intriganti suggestioni romanzesche: personalmente, confesso di essermi appassionato al tema durante la visione della serie turca The Gift (ingenua quanto suggestiva), fino a visitare il sito con degli amici archeologi; l’effetto dal vivo non può non far pensare, rimanendo su un piano di suggestioni da archeologia misteriosa, a uno scenario stile X-Files.
Ancor più impressionante è il sito “gemello”, i Karahan Tepe (“tepe” in turco vuol dire “collina”, “cima”), sempre nella provincia di Şanlıurfa, a circa 40 km dal più noto, ancora anteriore (circa 12mila anni fa), ma attualmente ancora in fase di studio, dunque meno promosso mediaticamente.
Posso testimoniare l’emozione “primordiale”, se mi consentite un’espressione così vaga e ingenua, nel vedere dal vivo statue antropomorfe, dal volto impressionante per intensità espressiva, che ci guarda con fissità ieratica dalla Preistoria.
Da qualche settimana a Roma, nel Parco Archeologico del Colosseo, è aperta una mostra, “L’enigma di un luogo sacro”, dedicata proprio alla sconvolgente scoperta archeologica di Göbekli Tepe.
Personalmente, ho avuto la possibilità di visitare il Museo Archeologico di Şanlıurfa, che ricostruisce su scala 1:1 il sito archeologico e consente quindi di visitarlo “virtualmente” con una capacità di dettaglio molto realistica (il sito dal vivo è chiaramente visitabile solo da una distanza di sicurezza), ma credo che sia comunque una possibilità interessante per scoprire un vero e proprio “evento” della storia dell’archeologia.
In un periodo in cui le masse sono preda di un’accelerazione tecnologica inversamente proporzionale alla ricerca interiore, riscoprire l’archè può essere una fonte di salvezza.
Credo che sia più saggio cercare di ritrovare il senso dell’esistenza seguendo le indicazioni contenute nei frammenti di Eraclito o nel Prologo di Giovanni, piuttosto che nei tweet di Elon Musk o nelle risposte di Chat Gpt.