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Tutto è lingua e le parole ti toccano, spesso ti feriscono. È vero, possono far male, ma il più delle volte aprono la via per formulare un pensiero tuo, a patto di non rimanere nelle reazioni automatiche già previste. Oppure capita che le parole mancano e senti la realtà che ti pesa addosso come un macigno. È ciò che vivo in questi giorni, è ciò che ho da dire.

Mi sento come schiacciata da questo presente così gonfio di guerra e di rivalsa maschile e vengono meno le parole. Ai miei stessi occhi rischia l’insignificanza quello che faccio: ha ancora senso farlo quando parole sinistre come “guerra nucleare” e “riarmo dell’Europa” non sono più tabù e rientrano a far parte delle prospettive plausibili? Come uscirne?

Lavorando a questo numero di Via Dogana3 ho capito che nel produrre la sensazione di schiacciamento un ruolo decisivo hanno i mass media per come raccontano la realtà. Al riguardo rimando alle acute analisi di Ida Dominijanni e Giulia Siviero presenti nel video https://www.youtube.com/watch?v=7xHjYM9-Xj0. Senza dimenticare Luisa Muraro che già in Maglia o uncinetto (1981) ha mostrato come siamo dentro un regime ipermetaforico che traduce la materia viva delle esperienze, annullandola e restituendola secondo i suoi codici. E valeva allora, come vale ora, una lingua metonimica, che rimanga vicina a ciò che viviamo e patiamo.

È capitato a me, ma capita comunemente, di cogliere la discrepanza che c’è tra il racconto di chi ha partecipato in prima persona a un evento pubblico e quello che dello stesso evento fanno i mass media. Oggi la torsione comunicativa è tutta volta alla militarizzazione e all’esaltazione dello scontro. Un piccolo esempio. Alcune mie amiche hanno partecipato alla manifestazione dello scorso 25 aprile a Milano. Sono tornate a casa contente, perché secondo loro la manifestazione era riuscita a rimanere pacifica, nonostante qualche piccola tensione. Il giorno dopo erano indignate da come la manifestazione era stata raccontata dai telegiornali e da gran parte della stampa: i brevi scontri occupavano tutta la scena e tutto il resto era sparito.

Tuttavia, per uscire dall’effetto schiacciamento, in gioco non c’è solo la consapevolezza di come operano i mass media. Molto dipende anche dalla concezione che abbiamo dell’esistente. Ho capito questa questione rileggendo in Parole non consumate la polemica che Chiara Zamboni apre con lo scritto di Sartre Immagine e coscienza. Zamboni fa vedere come Sartre abbia una concezione soffocante del presente, come un tutto pieno massiccio e incombente, che supera con l’attività immaginativa. Per lui l’immaginazione è un “fare come se” che diventa luogo di libertà, ma al prezzo di annullare la realtà. Per Chiara invece l’essere non è massiccio e immobile, ma in continua metamorfosi per cui aprirsi al gioco del linguaggio permette di trovare potenzialità nell’occasione che si presenta e nel saperla riconoscere. Per lei l’immaginazione è una dimensione dell’essere, non è fuga dalla realtà ma apertura (pp. 93-94). Richiamo queste considerazioni di Chiara Zamboni perché mi fanno pensare che per uscire dalla stretta del presente si possa mettere all’opera un pensiero immaginifico che colga e potenzi quello che c’è già, che nutra quei semi che già fanno intravvedere un possibile cambio di civiltà.

Ragionando attorno a questi problemi, tuttavia, bisognerà pur dirsi che la logica violenta della contrapposizione da un po’ di anni a questa parte è entrata anche nel campo femminista, compreso quello della differenza.

Se vado indietro nel tempo, rivedo gli anni in cui il comune sentire era di far parte di un esteso movimento delle donne, e le polemiche anche aspre tra posizioni e gruppi diversi non intaccavano questo sentimento. Invece oggi, proprio in un tempo in cui il femminismo è davvero in tutto il mondo – e il recente libro di Giulia Siviero, Fare femminismo, ben lo mostra – prevalgono gruppi incomunicanti, spezzettamenti, chiusure identitarie, accompagnate spesso da furia etichettatrice. Troppo spesso la posizione diversa viene rapidamente catalogata come nemica e ci si comporta di conseguenza. Si adottano modalità aggressive, magari inchiodando una giovane che è ancora in ricerca, a cose dette cinque anni prima. Più che conflitti che da posizioni diverse portano avanti la riflessione, si aprono guerre con le parole, tendenti a screditare le presunte “avversarie”. Le guerre verbali, come le guerre sul campo cominciano da una prima aggressione, a cui segue una risposta e così in un crescendo. Quello che so per me è che la mossa giusta è non entrare nella spirale, non rispondere, non giocare a quel gioco, che è il gioco della guerra. Ma, a parte questa pratica, che non è poi così semplice per una come me che ha una natura sanguigna, cosa pensarne? 

Ritengo che qui scontiamo il riflesso del narcisismo individualista del nostro tempo. Nei nostri incontri abbiamo sempre detto che le donne sono meno narcisiste degli uomini, e questo è vero, però è ora di constatare che c’è un narcisismo femminile da guardare più da vicino, che porta a posizione egocentrate che facilmente individuano come nemica ogni differenza e entrano nella spirale della contrapposizione violenta. In effetti, come ha ben spiegato Cristina Faccincani ne La carta coperta, il narcisismo presenta un io compatto, in cui «risulta compromessa la relazione con l’alterità, sia interna al soggetto, sia riguardante l’altro da sé» (p. 37). Quindi, a maggior ragione, ritengo che il problema principale sia un difetto di senso della differenza. Ci vuole infatti più senso della differenza all’opera per dare spazio e risalto alla differenza tra donne e farne una fonte di pensiero e di pratiche.

In passato molto si è lavorato sull’asse della verticalità, simbolicamente rappresentato dal rapporto con la madre, producendo elementi di teoria e di pratica politica, quali l’autorità e la disparità, indispensabili per uscire dall’indistinzione di una notte in cui tutte le vacche sono nere. La disparità fa vedere una realtà in movimento perché non si è mai pari. C’è sempre un gioco mobile di più e di meno. Riconoscere un di più a un’altra donna ci rende più intelligenti perché fa comprendere meglio le possibilità che la realtà offre.

Penso però che all’interno di questa pratica sia rimasta troppo in ombra l’idea della differenza tra donne che allarga ancora di più il campo d’azione, soprattutto quando in ballo non ci sono grandi disparità intellettuali e umane facilmente riconoscibili, bensì disparità di minore entità. L’altra differente mi interessa, mi incuriosisce, mi interpella, mi fa arrabbiare e da lì passa conoscenza. Pensare l’altra nella sua insormontabile differenza, mi rimanda a me stessa per quello per cui differisco e rende più comprensibile il contesto che ci accomuna, che è il mondo presente con le contraddizioni che attraversano entrambe. Queste mie osservazioni scaturiscono dal riflettere su alcune mie relazioni nella redazione di Via Dogana3 e da alcune nuove relazioni con donne giovani politicamente distanti. Penso anche al rapporto con le mie sorelle.

In un vecchio numero di Via Dogana (34/35, dicembre ’97) Letizia Tomassone, teologa, apre una polemica con padre Vanzan sul fatto di intendere come paradigma della differenza la differenza uomo/donna, perché così «si cade nella trappola patriarcale della classificazione». Lei invece frequentando il pensiero della differenza intende la sua libertà di movimento non in relazione a «un differente da me» bensì nella consapevolezza della sua parzialità che le «permette di essere in una relazione di differenza e di alterità in primo luogo con le altre donne». Lì si gioca la sua differenza. «Si tratta di un luogo dove non posso mascherarmi, dove non posso abitare spazi già costruiti, ruoli già dati».

In un numero di Via Dogana 3 dal titolo La parola giusta ha in sé il potere della realtà, (dicembre 2018), Luisa Muraro riprende e approfondisce la stessa questione e la considera una buona intuizione su cui riflettere e su cui si aspetta commenti e contributi.

Lei dice: «Primo: sia chiaro che la differenza sessuale non è tra uomini e donne, sarebbe insensato perché, se distinguo i due sessi, maschile e femminile, vuol dire che la differenza ha già operato; diciamo perciò che la differenza sessuale è in. È in me, per cominciare, per cui dico: “io sono una donna”. Secondo: la differenza sessuale che ha già operato, traspare con il mio (tuo… nostro, vostro…) riconoscermi nelle altre donne. Essa consiste dunque nelle differenze tra donne; ma non è una consistenza, è un principio evolutivo della vita che si sviluppa e traduce nella cultura umana».

Per finire penso che c’è tutto da guadagnare a portare avanti questa riflessione.