“Per un comunismo della cura”. A Milano incontro con Gian Andrea Franchi
Daniela Bezzi*
9 Giugno 2025
da Pressenza
Per i lettori di Pressenza il nome di Gian Andrea Franchi, da dieci anni in prima linea con Lorena Fornasir nell’accoglienza dei migranti che approdano dopo inenarrabili sofferenze lungo la rotta balcanica nella Piazza del Mondo di Trieste, suonerà sicuramente familiare. Parecchi gli articoli che salteranno fuori dai nostri archivi digitando il suo nome, in particolare quelli (febbraio 2021) che denunciavano l’incredibile accusa di «favoreggiamento dell’immigrazione clandestina», per aver ospitato una famiglia curdo-iraniana un paio d’anni prima. Indagine poi archiviata, ma che in quei mesi (si era nel dentro&fuori dalla pandemia) riempì di indignazione i tanti che da anni seguivano questa coppia di attivisti non più giovanissimi, nella loro instancabile, quotidiana, mirabile professione di cura, a cominciare dalle parti più martoriate di quei corpi in transito: i piedi. Piedi ridotti a zeppe di bolle e piaghe, chiusi dentro scarpe senza neppure i lacci, per non dire tutto il resto: l’esperienza dei respingimenti, il terrore accumulato in mesi o anni di viaggio, la realtà del trauma dentro gli occhi.
In risposta a quell’accusa, Gian Andrea si limitò alle seguenti righe:
«Rivendico il carattere politico, e non umanitario, del mio impegno con i migranti. Impegno umanitario è un impegno che si limita a lenire la sofferenza senza tentare d’intervenire sulle cause che la producono. Impegno politico, nell’attuale situazione storica, è prima di tutto resistenza nei confronti di un’organizzazione della vita sociale basata sullo sfruttamento degli uomini e della natura, portato al limite della devastazione (come la pandemia ci ha dimostrato). È inoltre tentativo di costruire punti di socialità solidale che possano costantemente allargarsi e approfondirsi.»
Parole che da sole basterebbero a sintetizzare i contenuti e le intenzioni di questo bel libro, che per l’appunto si intitola “Per un comunismo della cura”, recentemente pubblicato da DeriveApprodi, che Gian Andrea Franchi sta presentando ovunque si presenti l’occasione – e l’occasione per Milano è stata qualche giorno fa alla Libreria delle Donne, con la conduzione di Silvia Marastoni.
Incontro emozionante, anche grazie all’intervento di apertura di Lorena Fornasir, che non potendo essere presente di persona ci ha regalato una decina di minuti in diretta dalla “sua” Piazza del Mondo, con i ragazzi che arrivavano alla spicciolata… e quel monumento che per anni era stato il naturale punto d’incontro al centro della Piazza, ormai transennato da tutti i lati… e il vecchio porto austriaco in lontananza che per anni era stato il miserrimo rifugio per tanti, non più agibile, tombato pure quello d’ordinanza.
«In questa piazza approdano i figli dei figli del nostro colonialismo, delle nostre guerre umanitarie, i disastri che produciamo esportando guerra anche quando la chiamiamo pace» ci ha detto Lorena con l’urgenza imposta da quello che per lei era un momento di lavoro. «Percorsi di dolore di cui siamo testimoni da quando, nel 2015, abbiamo cominciato questa pratica di cura a Pordenone. Da allora a oggi il cambiamento è stato solo in peggio per la ferocia che si è compiuta su queste persone, che si presentano con i loro corpi torturati, seviziati dalle polizie ai vari confini […]. Ciononostante noi qui siamo, perché riteniamo che non sia possibile voltare la faccia dall’altra parte, perché come diceva Max Frisch pensiamo che il “silenzio delle pantofole sia molto più pericoloso del rumore degli stivali” e questo ci sostiene nella nostra resistenza quotidiana, contro queste politiche di morte, in cui la vita umana non vale più nulla. […]
Una sera è arrivato alla nostra “panchina della cura” un uomo che avrà avuto trent’anni ma ne dimostrava il doppio, tanto il suo corpo era devastato, ed è stato difficile per me intervenire su quelle ferite che non riesco nemmeno a descrivere; non osavo incrociare il suo sguardo e quando alla fine l’ho fatto ho capito che ciò che non osavo guardare era il mio stesso trauma, sapendo che a cento chilometri da qui nella bellissima Croazia (vi invito a boicottare la Croazia), ci sono ragazzi che muoiono annegati. I morti di cui non si saprà mai nulla e di cui noi ricamiamo i nomi su questo “lenzuolo della memoria”: sono soprattutto i ragazzi migranti che li ricamano…». E sul primo piano dei nomi ricamati in rosso sul bianco del lenzuolo, Lorena si scusa ma deve proprio andare: «Stanno arrivando sempre più persone, la Piazza mi chiama…».
Il microfono può quindi passare a Gian Andrea, che a ottantanove anni ha ancora l’energia dell’attivista che in effetti è sempre stato. Ex professore di liceo in città diverse, ricorda con particolare entusiasmo quegli anni «a cavallo tra i ’60 e ’70, aperti alla speranza, in cui ci si sentiva parte di un movimento, di lotte, di tentativi di costruzione di forme nuove di vivere insieme… Fu in quell’epoca che decisi di entrare nel PCI e ne uscii dopo tre anni, deluso nell’assistere alla ritirata del Partito di fronte a quella che a me sembrava una fioritura, con le scuole occupate, gli studenti che si ponevano e ci ponevano delle domande, richieste di presenza, partecipazione, senso della vita… le stesse che si ponevano gli operai in sciopero nelle fabbriche, che senso aveva passare tutta la vita a una catena di montaggio… erano domande anche filosofiche, che finalmente circolavano a livello di massa. Poi nel 1969 c’è stata la strage di Piazza Fontana, ed è stato il segnale che il potere avrebbe reagito con inimmaginabile ferocia. E poi c’è stata l’involuzione, la lotta armata, ne ho conosciuti parecchi che si sono persi in quei percorsi.
Io mi sono chiesto perché è finita così e una delle risposte che mi sono data è che lottare, in un certo senso, è più facile che costruire. Noi abbiamo lottato, ma non siamo stati capaci di costruire qualcosa che durasse veramente, come anni dopo ci avrebbe insegnato il movimento zapatista: per lottare bisognava avere qualcosa in grado di durare, altrimenti rimane solo la lotta, in cui è l’avversario che decide anche per te, e tu ti definisci in rapporto all’avversario, rispondi ai suoi attacchi o schemi. […] E quindi appunto in questo libro ho cercato non solo di spiegarmi la complessità di ciò che è successo, ma anche di inquadrare il fenomeno della migrazione nella sua realtà: sia in prospettiva, perché secondo i calcoli dell’IOM (International Organization for Migration, che fa parte dell’ONU) i migranti potrebbero essere un miliardo e mezzo entro vent’anni, e addirittura quattro miliardi entro la fine del secolo, sia come opportunità, per un cambio di rotta quanto mai necessario.
E quindi ecco il riferimento al comunismo, nel suo significato più fondamentale, come “messa in comune della cura”, creazione di nuove forme di comunità, antidoto alla malattia mortale delle nostre società che è l’individualismo, in cui ognuno guarda solo alla propria cerchia, famiglia, territorio. Essendo andato a sbattere contro questo fenomeno migratorio, ho capito che in questo confronto con situazioni estreme poteva esserci una chiamata a cui rispondere: non solo per cercare di aiutare loro nei loro bisogni e aspirazioni, ma come indicazione di futuro per tutti noi. Perché come non capire che il motivo fondamentale di questi flussi migratori è un problema che ci riguarda tutti come esseri viventi, ovvero l’alterazione degli equilibri biologici che regolano il pianeta terra, la vita stessa? Come non capire che questi giovani che arrivano soprattutto dall’Asia del sud, ma anche dall’Africa, sono solo un’anticipazione di un fenomeno ben più grande che molto presto riguarderà i nostri figli e nipoti?
E allora cerchiamo di ripartire appunto dal cuore, ovvero dalla Piazza del Mondo, dall’accoglienza di queste persone, dalla fecondità degli incontri e riunioni, dal ritrovarsi nella soluzione delle esigenze più fondamentali e vitali, nella sperimentazione di resistenze creative. Per costruire dal basso qualcosa che abbia senso, a partire da quel concetto di Disperata speranza del giovane filosofo ebreo Carlo Michelstaedter, su cui ho scritto la mia tesi di laurea e continuato a lavorare per il resto della mia vita».
Gian Andrea Franchi, Per un comunismo della cura, Ed. DeriveApprodi 2025, 172 pag. € 18
(*) Daniela Bezzi. Giornalista, operatrice culturale, ricercatrice indipendente, ha vissuto e lavorato per lunghi periodi in Giappone, Gran Bretagna e India prima di ristabilirsi in Italia dove collabora con varie testate sui temi dell’ambiente, dei diritti umani e del lavoro.