Per troppa vita che ho nel sangue
Margherita Colombo (II E, Liceo classico Manzoni – Milano)
12 Luglio 2024
Da L’Urlo, anno XI, Speciale arte, maggio 2024 – Immaginatevi una ragazza milanese degli anni ’30 del secolo scorso, con occhi che brillano di curiosità e un cuore pieno di passioni travolgenti. Questa è Antonia Pozzi, una delle voci più intense e sensibili della poesia italiana del Novecento. Nata nel 1912 in una famiglia borghese, Antonia Pozzi si distingue presto per il suo talento letterario e il suo spirito ribelle. Le sue poesie esplorano i punti più reconditi dell’animo umano e riflettono la bellezza e il dolore della sua esistenza. Leggendola, abbiamo l’occasione di fare un viaggio colmo di emozione, essendo i suoi versi finestre aperte sui pensieri più intimi. Antonia Pozzi trovava ispirazione nelle montagne di Pasturo, un piccolo paese in Valsassina dove trascorreva le vacanze, e dove cercava rifugio dal tumulto della vita cittadina.
Dopo aver studiato nel nostro Liceo classico, si laurea in Lettere all’Università degli Studi di Milano. Nonostante il suo brillante percorso accademico, è sempre stata in conflitto con le aspettative della sua famiglia e della società dell’epoca. Tragicamente, la sua vita è stata breve: Antonia Pozzi si dà la morte nel 1938, a soli ventisei anni.
Ho avuto modo di conoscere Graziella Bernabò alla Libreria delle donne di Milano, una studiosa che ha svolto un ruolo importante nella divulgazione della vita e dell’opera di Antonia Pozzi e l’anno scorso è stata anche nel nostro liceo per una conferenza sulla poetessa. Ha accettato di rispondere ad alcune mie domande.
Come è nata la tua passione per Antonia Pozzi e cosa ti ha spinto a scrivere una biografia su di lei?
Verso la fine degli anni Settanta, alla Libreria delle donne di Milano, acquistai un libro di poesie curato da Biancamaria Frabotta (Donne in poesia. Antologia della poesia femminile in Italia dal dopoguerra a oggi, con una nota critica di Dacia Maraini, Savelli, 1976). Benché riguardasse un’epoca successiva a quella di Antonia Pozzi (che aveva scritto i suoi versi tra il 1929 e il 1938), la raccolta iniziava proprio con alcune sue liriche, considerate come l’ideale introduzione alla scrittura di autrici più recenti. Rimasi estremamente colpita dall’originalità e dal vigore con cui la giovane poetessa – grazie a un linguaggio raffinato ma anche sensoriale, corporeo e comunicativo, quindi lontano dalle rarefazioni e dalle oscurità in auge nella lirica italiana degli anni Trenta – riusciva a esprimere la difficoltà da parte di una donna di trovare un proprio posto nel mondo. Successivamente lessi, in varie edizioni man mano accresciute, la sua raccolta di poesie, le lettere, i diari e i saggi critici; ed ebbi anche la possibilità di visitare una bella mostra dei suoi scatti fotografici. Potei apprezzare in questo modo la sua ardente personalità di donna e la sua poliedrica creatività; e mi venne allora il desiderio di restituirle in qualche modo, con un lavoro adeguato, quella voce che le era stata negata in vita, non solo dalla famiglia – ligia a convenzioni aristocratico-borghesi – ma anche dall’ambiente culturale in cui era inserita all’Università Statale: il gruppo del filosofo Antonio Banfi, innovativo per l’epoca ma ancora chiuso all’alterità femminile.
Quali poesie ti hanno colpito maggiormente in occasione del tuo primo accostamento ad Antonia Pozzi?
Inizialmente sono stata impressionata soprattutto da “La porta che si chiude” e da “Rossori”: due liriche in cui la poetessa esprime con inedito vigore l’angoscia di non ritrovarsi più nel proprio corpo, quindi il senso di «depersonalizzazione» che le derivava dall’impossibilità di vivere conformemente ai propri desideri più profondi. Su questo pesarono sia l’opposizione del padre al suo rapporto d’amore con il grande classicista Antonio Maria Cervi, sia varie incomprensioni con lo stesso uomo amato, che, pur volendole bene, era imbarazzato dalla sua indole appassionata e poco convenzionale, essendo su vari piani tradizionalista e di fatto inscritto in un sistema patriarcale. Le poesie che ho citato sono oltretutto storicamente interessanti rispetto alla situazione della donna in età fascista.
Com’era l’indole di Antonia Pozzi? Puoi raccontare qualche aneddoto a questo proposito?
In realtà Antonia, di per sé, non era assolutamente chiusa e cupa: al contrario era libera, ardente, innamorata della vita per tutto ciò che essa poteva offrirle: dal contatto profondo con la natura, soprattutto con la montagna attraverso l’alpinismo, agli studi, ai viaggi, al rapporto con gli altri, comprese le persone più umili. Antonia sapeva trarre piacere anche dalle piccole cose. Alcuni passi di diario della prima adolescenza, poi diventati temi scolastici, ci mostrano, per esempio, quanto riuscisse a divertirsi con gli amici al Palazzo del Ghiaccio di Milano. La sua amica Elvira Gandini, principale testimone della mia biografia, oltre a moltissime vicende importanti di Antonia, mi riferì un semplice, ma indicativo, episodio. Una volta si trovavano insieme a sferruzzare, come spesso le ragazze facevano in quell’epoca, e Antonia stava completando una sciarpa di un vivace colore arancione; a un certo punto se la accostò al viso, dicendo, con un sorriso radioso (il suo sorriso era molto bello, a detta di vari testimoni): «Mi dona?». Nel suo studio di Pasturo ho potuto vedere fiori essiccati e tanti piccoli oggetti, a volte proprio minuscoli, che Antonia conservava perché erano legati a lieti momenti di vita e ai viaggi che spesso faceva in Italia e all’estero. Fu il mondo esterno, inteso come famiglia, uomini amati e compagni di università, a inibire più volte, nel corso della sua breve esistenza, questa capacità di gioia che le era connaturata.
Quali sono state le maggiori sfide nella ricerca e nella scrittura della biografia di Antonia Pozzi? Hai scoperto qualcosa di inaspettato durante il tuo lavoro?
Sono partita da un’idea tradizionale di biografia ma poi, grazie a un lungo lavoro con alcune storiche della Libreria delle donne, ho capito che le categorie interpretative utilizzate per le vite degli uomini non erano assolutamente adatte a raccontare la vita di una donna in genere, tantomeno di una poetessa che, come Antonia Pozzi, si poneva al di fuori degli schemi della sua epoca, dato che, a dispetto dei molti condizionamenti subiti, era interiormente libera e in anticipo sui tempi, perciò tanto poco capita nel suo tempo quanto meravigliosamente capace di parlare al nostro presente. Per cogliere il senso della sua vita ho evitato stereotipi, luoghi comuni e discorsi generici, basandomi invece sulle molte testimonianze orali che ho potuto reperire, sulla ricostruzione delle sue reti di relazioni (affettive e intellettuali) attraverso le lettere, i diari e altri materiali dell’archivio Antonia Pozzi di Pasturo. Ma soprattutto mi sono concentrata sulla vivida e originale simbologia delle sue liriche, cercando di rintracciarvi il suo più autentico sentire, i suoi desideri più profondi: penso, per esempio, allo schietto eros di donna espresso dai molti e carnali fiori che compaiono nei suoi versi, oppure alla forza femminile delle sue montagne, insieme concrete e mitiche, sorta di ancestrali madri capaci di riscattare dall’inautenticità del vivere sociale. Ho scoperto così, anche al di là delle mie previsioni iniziali, un meraviglioso immaginario poetico che, nell’esprimere in modo pregnante l’anima e il corpo di una donna, non trovava niente di analogo nella lirica contemporanea ad Antonia Pozzi, mentre precorreva per certi aspetti la poesia di altre grandi autrici del secondo Novecento: da Sylvia Plath ad Anne Sexton, a Ingeborg Bachmann, ad Alda Merini, per fare solo pochi nomi.
Antonia Pozzi ha iniziato a scrivere poesia da giovanissima. Che consiglio daresti ai giovani poeti e poetesse che vogliono seguire le sue orme?
Ai giovani, ragazzi e ragazze, che avvertono in sé una vocazione poetica, consiglierei di leggere molti poeti di epoche e paesi diversi; e di partire certamente da sé, dalla propria soggettività, avendo però sempre chiaro che la vera poesia non può essere immediata ed effusiva, in quanto richiede un notevole senso critico e un duro lavoro di elaborazione formale. Questo Antonia Pozzi lo aveva ben chiaro, come affermò Eugenio Montale, suo scopritore, e come appare dalle tante varianti presenti nei suoi autografi, che attestano un accurato lavoro di lima, evidente anche nelle sue liriche dell’adolescenza.
Qual è, secondo te, l’eredità più importante che Antonia Pozzi ha lasciato alle generazioni future?
Antonia Pozzi ha lasciato al mondo l’eredità di una poesia che potremmo definire della “relazione” con la totalità dell’esistente, quindi con le persone, gli animali, i luoghi e le cose (le «cose sorelle», come le chiamava lei). Una poesia che partiva dalle sue esperienze personali, ma che, nel suo grande respiro, sapeva restituire il senso vivo della natura, le profondità del cuore umano, la bellezza e il dolore del mondo, comprese le tragedie della storia: la guerra e la miseria dei ceti più svantaggiati.
Come è stato il tuo percorso professionale e personale da biografa? Ci sono momenti particolarmente significativi che vorresti condividere con noi?
Ho sempre amato le biografie: ne ho lette molte e ne ho scritte due: La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci, Roma 2016 e Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, Viennepierre, Milano 2004; nell’ultima versione Àncora, Milano 2022. Dietro il mio modo di intendere questo genere di scrittura c’è il rapporto, iniziato negli anni Ottanta, con un gruppo di storiche della Libreria delle donne, insieme alle quali ho sviluppato l’idea di una biografia non romanzata, perché basata su una lunga ricerca delle fonti scritte e orali, ma assolutamente non fredda. Penso infatti che, se si vuole scrivere un libro su una persona che ci interessa profondamente, ci deve essere la disponibilità a porsi nei suoi confronti con un’assoluta empatia e a immergersi nel suo mondo. Questo comporta il fatto di ricostruirne con pazienza e impegno non solo le vicende e i contesti, ma anche i luoghi prediletti, le abitudini, le letture, gli interessi culturali, gli svaghi e qualunque ulteriore elemento, non importa se minimo, utile a delinearne la fisionomia, perché a volte anche particolari apparentemente insignificanti, se interrogati con attenzione e disponibilità, possono contribuire alla comprensione più articolata e profonda di una vita. Questo mio modo di lavorare ha comportato per me innumerevoli scoperte, tanto su Antonia Pozzi quanto su Elsa Morante; ed è sfociato in due volumi che mi hanno dato molta soddisfazione, perché hanno contribuito a promuovere la conoscenza di queste due grandi autrici, oltre che tra gli addetti ai lavori, presso un ampio pubblico, come ho potuto constatare in occasione delle numerose presentazioni che mi è capitato di farne nel tempo.
Antonia Pozzi mi ha insegnato che la poesia può essere un rifugio, un modo per comprendere e affrontare le complessità della vita. Dalle parole di Graziella Bernabò abbiamo capito bene la ricchezza e il tormento del suo animo poetico. Ma se volete davvero vivere la sua poesia, immergetevi nelle sue parole, leggetele, sussurratele. Scoprirete una giovane donna che, nonostante le difficoltà, ha saputo trasformare il suo dolore in bellezza eterna.