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Nei contesti in cui c’è familiarità con il pensiero della differenza e col suo linguaggio, viene sempre ripetuto, tanto da donne quanto da uomini, che questi ultimi sarebbero in difficoltà a partire da sé. Vorrei ragionare su tale pratica senza accontentarmi di questo discorso già sentito e dei miseri vantaggi che può assicurare in quei contesti, cioè l’approvazione che non deriva da ascolto e comprensione del discorso dell’altro, bensì dal riconoscersi in formule note. Partire da sé non è anche tentare di sottrarsi a quei feticci di identità puntellati da simili riconoscimenti?

Se l’invito ricevuto è di scrivere sul partire da sé partendo da me e se partire da sé non è raccontare di sé, ma cercare le parole per dire una difficoltà in cui si è stretti, mostrando così che è un nodo che ha un significato più ampio, politico, allora si potrebbe tentare il colpo di scena e guardare alla difficoltà di parlare a quelle che troppo ne sanno per poter ascoltare. Ci sarebbe pure l’aneddoto: la sconosciuta che mi ha dato i suoi consigli su come dovrei realizzare il partire da me perché non le risulti noioso. Ridicolo? In effetti avrei riso, se non fosse stato per questo pensiero che ha fatto capolino: un uomo che non abbia il debito di gratitudine che ho io verso le maestre del pensiero della differenza, certo a questo punto avrebbe tagliato l’angolo e lasciato la consigliera a cercarsi il suo specchio. Ad ogni modo, non sarebbe un gran colpo di scena perché Lia Cigarini, una di quelle maestre, ha già dato un nome a questa difficoltà (si veda l’articolo “Usare la mediazione maschile”, nella nuova edizione del suo libro). Soprattutto, quella difficoltà non è davvero la mia: quando un incontro mi ha suscitato il desiderio di incontrare il pensiero della differenza, mi sono messo in ascolto, di voci e scritture, per quasi vent’anni e alla fine l’interlocuzione, la fiducia e lo scambio ci sono stati.

La difficoltà su cui invece, in questo periodo, sto ragionando a partire da me e di cui ho pensato di parlare per raccogliere l’invito a ragionare qui sul partire da sé è una difficoltà che incontro sul luogo di lavoro, nel momento in cui cerco di muovermici in un modo diverso. Se fossi un sindacalista o un giornalista, questa mia difficoltà potrebbe riuscire a dirci qualcosa sui sindacati o sui mass-media, ma insegno in un’università per cui è da lì che devo partire. Si dice spesso che oggi il sapere è mercificato e l’università aziendalizzata. Dicendo così si nominano certo dei processi reali, ma è significativo che, nominandoli in questo modo, si riconosca implicitamente che l’università non è di per sé un’azienda come le altre o un’impresa interna alla logica del mercato. Per capire la difficoltà che sto cercando di esporre, questo è dunque il primo elemento: di per sé, in università ne va di qualcosa di più di un interesse privato, ne va del sapere, della sua ricerca incondizionata e della sua trasmissione alle nuove generazioni. Un po’ come in un ospedale ne va della cura incondizionata della salute, secondo quanto ci ricorda il giuramento di Ippocrate. Sono questi degli ideali e non la realtà? Esattamente, sono gli ideali a cui quelle realtà sono rimandate come alla loro misura. Un ideale può essere investito da un desiderio: non è detto che succeda e se succede le cose possono ancora andar male, ma possono anche andar peggio, ad esempio se il desiderio investe solo l’ultimo modello di smartphone. Ad ogni modo, il mio desiderio investe quegli ideali. Ma dal pensiero della differenza ho imparato che quell’investimento, per non andare a male, deve tradursi in relazioni e tanto nutrirle quanto farsene nutrire. Ecco, dunque, il primo filo del mio nodo: un luogo che convoca un ideale (il sapere), un ideale che suscita un desiderio (il mio), un desiderio che sa di poter coltivare quell’ideale solo in una rete differenziata di relazioni in cui circola fiducia. Ho scritto che la rete delle relazioni è differenziata perché ce ne sono almeno di due tipi: quelle con le e gli studenti e quelle coi colleghi e le colleghe. Il nodo di cui vorrei parlare riguarda queste seconde.

Di solito, il partire da sé ottiene necessità quando il desiderio è come ostacolato o stretto dalle cosiddette “mediazioni ricevute”, le interpretazioni e le forme di rapporto dominanti. Ebbene il desiderio che ho evocato si trova effettivamente stretto da un certo modo di abitare l’università che, è facile notarlo, non favorisce né la coltivazione del sapere (la ricerca autentica, l’insegnamento coinvolgente), né il fiorire di relazioni di fiducia (non si dimentichi però il segreto: non sono due cose separate; se non se ne favorisce una, si soffoca anche l’altra).

Dare il nome giusto a questo modo di abitare l’università, che fa ostacolo, è fondamentale. Cercando questo nome, ho innanzitutto escluso che fosse “avidità o sete di denaro”: troppi pochi soldi circolano in università perché la passione che travia il desiderio sia quella per la ricchezza. Un’altra ipotesi che può venire in mente è che a sviare, soprattutto gli uomini, sia la ricerca del sesso, ma il movimento Metoo è entrato anche all’università accelerando una trasformazione di quei costumi. La terza e più importante ipotesi è che la passione sviante sia quella per il potere in generale (il poter imporre, il poter decidere, il far fare) e, in particolare, per il potere dato dal prestigio. Per quanto di potere in palio all’università (e soprattutto nelle facoltà umanistiche) non ce ne sia poi molto e il prestigio sia calante da vari decenni, è fuori di dubbio che dinamiche di potere ce ne siano e che producano i loro effetti malefici, sia a livello dei vissuti, sia soffocando possibilità. Ho anch’io la mia buona dose di storie in proposito, ma invece di raccontarle, rimando a un’opera cinematografica che riesce a parlarne con competenza, pur col tono della commedia: si tratta della trilogia Smetto quando voglio. In rete si trova anche una mia analisi dei primi due film, ma non meno importante è il terzo che solleva l’inquietante problema di quanto di fatto si sia conniventi con quelle dinamiche, per mediocri paure o ristretti calcoli. Proprio questo problema obbliga il ragionamento a fare un passo in più e a chiedersi: dov’è che queste dinamiche di potere trovano il loro aggancio soggettivo? Interrogando la mia esperienza, mi sto insomma chiedendo perché così tante persone, uomini e donne, le assecondino o vi partecipino. La risposta è semplicemente che sono abitate da un desiderio di potere o prestigio? Ne ho incontrate alcune per cui sembra proprio così, ma le altre? Molte pensatrici e qualche pensatore, ad esempio Sant’Agostino, suggeriscono che quel desiderio sia in realtà un desiderio d’amore che non ha trovato la strada giusta. Da qualche tempo mi chiedo se la spiegazione non sia ancora diversa.

Più che un teatro in cui si scontrano solo grandi ambizioni di potere, a me sembra che gran parte della vita accademica assomigli sempre più a un’associazione a responsabilità limitata. Al posto della dedizione alla ricerca di un sapere che sia all’altezza delle sfide del presente o a un insegnamento che esige l’assunzione di responsabilità verso le nuove generazioni, non stanno le drammatiche vicende di un Macbeth o di una Lady Macbeth, bensì povere routine. Ci si adatta, non senza i consueti lamenti, a richieste e modelli di cui è escluso interrogare i fondamenti o le alternative. Limitando il corso all’esposizione di un manuale, la ricerca alla scrittura di saggetti ben confezionati e il lavoro coi laureandi alla valutazione di elaborati verso cui non c’è attesa, si rinuncia a delle possibili sorprese e persino a delle possibili gioie. Mi chiedo perché succeda tutto ciò e non mi soddisfa la risposta che invoca il desiderio di potere e di carriera. La mia ipotesi è che quei modelli seducano il soggetto promettendogli i vantaggi di una responsabilità limitata. Ossia: schermando il pericolo che si corre quando si lascia la strada vecchia per raccogliere la sfida di un desiderio grande come può essere il desiderio del sapere (che si sente in sé e che si legge negli occhi di altri, ad esempio le e gli studenti). C’è chi dice che sia proprio questo il nuovo volto del potere in università: non più la dinamica tra il servo e il barone, ma i modelli impersonali dell’accreditamento e della valutazione standardizzata. Io aggiungo che nel tornaconto ci sono i vantaggi, di corto respiro, della responsabilità limitata.

Questi vantaggi, comunque, per me sono svantaggi perché mi passa la voglia di fare e finisco per deprimermi. Così, cerco passaggi verso un modo diverso di abitare questo luogo. Provo a fondare situazioni differenti. Lo scorso ottobre, ad esempio, ho organizzato un seminario, che continua ancora, in cui leggiamo Le nuvole di Aristofane, la commedia tra i cui personaggi c’è Socrate: è un seminario che non dà crediti agli studenti e che non viene retribuito ai docenti. Si basa sull’idea di una messa in comune dei saperi e delle esperienze per ragionare su quel testo: partecipano una quarantina di studenti e molti colleghi e colleghe di discipline diverse, dalla letteratura greca a quella bizantina, dalla semiotica alla storia del teatro, dalla filosofia politica alla storia greca, dalla paleografia all’antropologia culturale e alla storia della filosofia antica. Per più versi, si tratta di un contesto generativo.

Sto dunque raccontando una storia che finisce bene? Non proprio, perché c’è qualcosa che mi angustia. Potrei dire che è il terzo filo di questo nodo, insieme al desiderio grande e alle forme della responsabilità limitata. Lo descriverò così: se sono le relazioni di fiducia la risorsa attraverso cui creare un luogo per quel desiderio, entro lo spazio ingombrato da quelle forme, dove cercare la misura per quella fiducia? A me viene spontaneo cercare tale misura prendendo a modello le relazioni di amicizia: cerco, insomma, di diventare amico con quei colleghi e colleghe insieme a cui metto in piedi il tipo di situazioni generative descritte. Ma alcune brutte esperienze vissute qualche anno fa in Francia mi dicono che non è una buona soluzione. In effetti, se ci penso con un po’ di distacco, mi accorgo anch’io che, in un contesto in cui è forte la tentazione della responsabilità limitata, non è un’ottima idea proporre un coinvolgimento così intenso come l’amicizia. Ci si destina a delusioni, che però si potrebbero evitare perché dipendono da attese eccessive. Ho dunque bisogno di un’altra misura per le mie attese, ma quale?

A dire il vero, Aristotele parlava di un tipo di amicizia che si realizza proprio nella coltivazione comune di ciò che è più alto, ma non è chiaro come imparare a praticarla. E se, invece, l’amicizia e la fiducia fossero da coltivare altrove, così che da lì possano nutrire un modo di entrare nei contesti dove prevale la responsabilità limitata, capace di coinvolgimento e di creatività, ma non privo di prudenza? Rileggendo il saggio di Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare, mi ha colpito in proposito questa frase: «Quello che devo saper fare sono i conti con la realtà, me compresa, e farli bene». Qui si allude alla possibilità di un conto in cui possano trovare misteriosamente posto anche quelle figure dell’incalcolabile che sono il desiderio e gli ideali (o beni comuni). Quel desiderio, grande ma intimo, che impari a riconoscere entro le relazioni di fiducia, nominarlo e giocarlo poi anche in altre relazioni, di cui accetti la differenza proprio nello stesso momento in cui resisti a che divengano a responsabilità limitata. Penso sia questa contrattazione sapiente la via difficile e stretta che mi indica Muraro.


Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana 3 La scommessa del partire da sé, tenutasi il 10 marzo 2024.