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Il partire da sé non è un basarsi sul ruolo né sulla situazione, quello che fanno vedere o credere, essere giusto e valido, ma risalire a, e muovere da un’esperienza, ossia da un vissuto vissuto, con tutto quello ha di determinato, e da un vissuto ancora da vivere (il desiderio), mai l’uno senza l’altro. La pratica di partire da sé, dicevo sopra, è la scommessa poter prendere le mosse dal luogo della nascita, con tutto quello che ha di dipendente, di pregiudicato ma anche di promettente, di nuovo, luogo di una divisione, di uno squilibrio, di una partizione che è partenza, dove c’è sbilanciamento, struggimento, risentimento, insomma tutto quello che si innesca con quella «partenza» che crea la necessità dello scambio simbolico.

Gli ho dato nome «nascita», ma vorrei proporne un altro, che ha la stessa radice ma è più completo: partitura della nascita. In musica la partitura è la scrittura per molte parti, strumentali o vocali. La nascita, dunque, come luogo o momento di una partenza plurale che non ha però le caratteristiche della frammentazione o della dispersione, poiché c’è scambio simbolico; c’è nella realizzazione musicale come c’è nella relazione materna e da ciò viene che noi abbiamo parola e che la lingua ha vita.

La scoperta principale di questa pratica, pratica che consiste risalire alla fonte del pensare e decidere disfando la costruzione del già pensato e deciso con le sue apparenze più o meno imponenti e i suoi effetti più o meno illusori, facendo dunque questo movimento, quello che scopre è il soggetto ─ me ─ non in posizione di soggetto ma di complemento: trovo me in relazione con altri, abitata da ricordi, mossa da desideri, trovo dunque desideri che mi muovono, ricordi che mi occupano, altre o altri che mi parlano o che addirittura parlano al mio posto, magari per contraddirmi! Allora, ci si accorge dell’inutile fatica della finta coerenza che si credeva di dover sostenere, ed è un sollievo, una leggerezza. E ci si accorge anche, con un senso di vergogna, di quanta complicità si dà a cose stupide o ingiuste, sempre per voler sostenere quella costruzione fasulla di sé. Ho trovato persone egregie, uomini, che diffidano di questa pratica perché temono di cadere nel narcisismo, ma si sbagliano in pieno, poiché, al contrario, è una pratica di decentramento dell’io, il cui posto viene preso da una pluralità di istanze parziali, in un gioco di rimandi sui quali la nuova leggerezza guadagnata ci consente di galleggiare e prendere il largo.

La pratica di partire da sé, mentre disconferma le pretese del soggetto, non è per questo imparentata con la decostruzione nichilista del mondo1.

Senza tentare definizioni (basta guardare nel dizionario), diciamo che il nichilismo non è una scelta ma una prova del pensiero, alla quale il pensiero occidentale si trova affrontato; da un centinaio d’anni circa e, in maniera conclamata, dalla fine della prima guerra mondiale. In che cosa consiste la prova? Che, ragionando con rigore, non arriviamo a concludere nelle questioni che concernono l’esistenza umana e la convivenza civile. Da qui, l’idea di una necessaria decostruzione della nostra tradizione di pensiero, tradizione che ci ha portati in questo «cul del saco», per parlare veneto, invece del francese che qui sarebbe d’obbligo. Il decostruzionismo nichilista è l’unica strada di un pensiero rigoroso? Io penso di sì, se si tratta di pensiero speculativo; ma ci sono altre strade del pensiero, una almeno, quella della filosofia pratica, vale a dire la filosofia di chi pensa attraverso la modificazione di sé.

La pratica di partire da sé è una decostruzione dell’io e del mondo ed ogni movimento di decostruzione, non ce lo dobbiamo nascondere, mette a repentaglio il senso della realtà e la possibilità di un senso alternativo. Ma la pratica di partire da sé porta al disfarsi del soggetto senza disfarlo in una miriade di istanze scoordinate: mi disfa nelle relazioni che mi fanno essere quella che sono e diventare quella che desidero, senza che io possa mai accamparmi al centro di questo essere e diventare. Questa è la porta stretta, questo è il passaggio che mi «smarca» dal nichilismo del pensiero postmoderno. In parole figurate: il tipico decostruzionista somiglia a uno che sega il ramo sul quale si trova seduto. Di solito si tratta di un professore d’università che, finito di segare il ramo, cade «bene», cioè nella sicurezza economica e nelle gratificazioni del suo ruolo. La pratica di partire da sé non è meno radicale, come operazione, mentre a livello personale è molto ma molto più rischiosa. E più feconda, più felice, perché mi fa cadere nella necessità della riconoscenza e nel primato della relazione.

  1. Su questo punto, cfr. Marisa Forcina, Ironia e saperi femminili. Relazioni nella differenza, Franco Angeli, Milano 1995. ↩︎

Tratto da Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare, Parte seconda: La partitura della nascita, in Diotima, La sapienza del partire da sé, Liguori, Napoli 1996.