Partendo da linguaggi diversi
Sara e Francesca Bigardi
15 Giugno 2021
Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3, Digitare non è mai neutro, domenica 6 giugno 2021
Sara. Approssimandomi al tema per una riflessione, ho avvertito da subito intorno a me una sorta di bisogno bulimico di discorsi sulla tecnologia, una fame, una voracità di dire tante cose, di essere esaustiva, con il pericolo di cadere in una generalizzazione astratta o in una parcellizzazione del discorso che tende a diventare assoluta.
Per questo, in un ambito così ampio, è necessario cercare di trovare un taglio. L’invito stesso della redazione per l’incontro del 6 giugno Digitare non è mai neutro chiedeva di pensare alle perdite e ai guadagni, a partire dalle proprie esperienze soggettive, perché, come dice Chiara Zamboni, “non si può parlare da Sirio”. Queste esperienze però non devono rimanere chiuse, devono stimolare delle domande nella consapevolezza che le risposte non risolveranno tutte le questioni, anzi.
Io e mia sorella, che è una informatica che non viene dal pensiero della differenza sessuale, ci siamo trovate in presenza per pensare assieme e, da subito, ci siamo rese conto che era il linguaggio quello che creava più conflitto; ma allo stesso tempo questo linguaggio ha anche permesso di intravedere un come potere parlare di tecnologia.
Partendo dal linguaggio diverso, abbiamo allora interrogato le nostre contraddizioni vitali per vedere quali pratiche politiche abbiamo agito e quali altre potrebbero nascere nei contesti in cui ci troviamo.
Nella parte che segue prende parola mia sorella.
Mi chiamo Francesca Bigardi, sono sorella di Sara, e mi occupo di informatica, lavoro per un’azienda di Verona come project manager (da qualche anno) e sviluppatrice software (ormai da una decina di anni) di applicazioni web e architetture cloud e IoT (Internet delle cose). Sono laureata in informatica a Verona e la tecnologia prima e l’informatica poi sono sempre state le mie passioni. Ho 35 anni quindi non mi posso considerare una nativa digitale, ma vista anche la passione di mio papà, in casa mia è sempre stato presente un pc. Quando ho dovuto scegliere che tipo di percorso fare, non ho mai avuto dubbi, quindi ragioneria indirizzo informatica alle superiori e poi la facoltà di informatica.
Quando mi è stato proposto di intervenire in tale circostanza, devo dire che la mia prima preoccupazione è stata: “Che contributo posso portare, di cosa posso parlare? Deve essere qualcosa di tecnico?”. Perché di solito quando mi sono trovata a parlare in contesti simili, seminari o webinar, ho sempre portato contenuti tecnici legati alla mia materia.
Incontrandomi poi con la redazione, leggendo l’invito di Via Dogana e confrontandomi con Sara è stato chiaro come invece bisognasse partire dalla propria esperienza personale e dal proprio vissuto, perché il tema è vasto e attuale. Questo mi ha portato a interrogarmi su cosa fosse cambiato per me in questo ultimo anno e mezzo.
Per fortuna, il mio lavoro non ha risentito della crisi causata dalla pandemia, come purtroppo altri settori, sono stata fortunata e ho potuto lavorare in smart working. Dopo un iniziale spaesamento, era strano non andare in ufficio e lavorare da casa, e un iniziale adattamento (dato soprattutto nel ricreare l’ambiente più confortevole: tastiera, doppio monitor), devo dire che il mio lavoro non è cambiato poi così tanto. La mia attività, che si svolge per lo più davanti al pc, non è cambiata nella modalità concreta di esecuzione, ma è certamente cambiata in quella di relazione con i colleghi (e parlo di colleghi al maschile perché i miei colleghi del reparto produzione sono uomini). Le riunioni non avvengono più in presenza, ma via Zoom, Meet o Teams, è venuta a mancare per lo più la chiacchiera, quella che si può fare davanti alla macchina del caffè o nelle pause.
E qui sicuramente emerge forse la prima vera contraddizione, per me, evidenziata da questo ultimo anno e mezzo: da un lato lavorare da casa è addirittura, in alcune situazioni, più efficiente e produttivo che lavorare in presenza, oltre ovviamente ad essere più comodo, dall’altro alcune cose diventano oggettivamente più complicate.
Se volessimo fare una comparazione di vantaggi e svantaggi potremmo dire che i pro, per me, sono:
i contro, invece sono:
Questo ultimo punto probabilmente è emerso in tutta la sua dirompenza. Avere una connessione internet stabile, è quasi diventata una priorità: non tutti, ad esempio, possedevano un abbonamento flat (a costo fisso), molti si sono trovati con la spiacevole sensazione di vedere i giga del proprio abbonamento a consumo esaurirsi a causa delle frequenti riunioni sulle piattaforme di videotelefonia. Oppure le stesse connessioni flat non erano così veloci, provocando rallentamenti e ritardi tali da rendere l’esperienza poco piacevole.
Tale problematica mi ha portato a creare un collegamento con quelli che dal punto di vista della sicurezza informatica sono i tre principi fondamentali: integrità, confidenzialità e disponibilità dei dati, dette triade CIA (dall’inglese Confidentiality Integrity Availability).
La confidenzialità deve garantire che i dati e le risorse siano preservati dal possibile utilizzo o accesso da parte di soggetti non autorizzati. L’integrità deve garantire che i dati o le risorse non siano in alcun modo modificate o cancellate da soggetti non autorizzati. La disponibilità deve garantire che soggetti autorizzati debbano poter accedere alle risorse di cui hanno bisogno per un tempo stabilito e in modo ininterrotto, senza interruzioni di servizio e con una corretta erogazione.
La disponibilità per la connessione internet è un aspetto molto importante. Chi offre tale servizio deve creare infrastrutture di rete che permettano di garantire la ridondanza dei sistemi e di offrire i servizi richiesti, secondo la qualità del servizio sottoscritta (QoS), anche in caso di guasto o incidente. Tale aspetto diventa poi evidente in contesti con l’internet of things (IoT) dove l’uso della connessione internet ci permette di monitorare da remoto, ad esempio, lo stato della mia casa, controllare ad esempio se le luci sono accese, spegnere o accendere convettori, aprire o chiudere finestre.
Ovviamente la connessione internet è solo un elemento di un’architettura più grande, dove ogni elemento deve garantire il rispetto e l’adozione di contromisure per queste e altre proprietà di sicurezza. L’applicazione dei principi di sicurezza da parte di chi offre un determinato servizio è un aspetto molto importante nello sviluppo software ed è qualcosa che chi si occupa di informatica deve sempre considerare anche per permettere all’utente di aumentare il grado di fiducia verso lo strumento che l’utente sta usando, soprattutto quando l’utente condivide dati sensibili. Gli standard di sicurezza, come lo standard ISO/IEC 27001 offrono una serie di “best practice” (buone pratiche) che lo sviluppatore può seguire e adottare per proteggere le risorse informative da minacce di ogni tipo, al fine di assicurare l’integrità, la confidenzialità e la disponibilità, e fornire i requisiti per adottare un adeguato sistema di gestione della sicurezza delle informazioni. D’altro canto, gli utenti, in caso di software certificati ISO/IEC, possono avere la garanzia che determinate contromisure sono state adottate per la protezione dei propri dati.
Dal mio punto di vista, cioè di persona che lavora nel campo dell’informatica, aumentare la fiducia e la confidenza di una persona verso il software da me sviluppato è uno dei miei principali obiettivi. La digitalizzazione di un processo è fatta per lo più per rendere una funzionalità, prima analogica, più semplice, disponibile e accessibile, quindi l’utente deve potersi approcciare con tali strumenti senza paure, ansie e malumori. L’adozione di tecniche di design come la UX, permettono proprio di raggiungere tale scopo. La UX (user experience) si pone proprio l’obiettivo di partire dai comportamenti dell’utente, dai suoi bisogni, dalle sue capacità e limiti per valorizzare il vissuto dell’utente in relazione al prodotto stesso.
Un altro aspetto emerso, in maniera molto forte, confrontandomi con la redazione e con Sara è il tema del linguaggio. E soprattutto su come ogni materia, umanistica o scientifica, abbia un linguaggio specifico, che va capito e compreso. Ad esempio, da parte delle mie interlocutrici mi è stato fatto notare come a volte termini come Algoritmi, Cloud, IoT assumessero a volte un alone di mistero poco chiaro, legato per lo più ad essere parole in inglese, ma anche per la loro natura tecnica. Da parte mia ho trovato difficoltà a capire termini come “simbolico” e “pratica politica” a cui avevo dato un altro significato. Con Sara ci siamo confrontate sul linguaggio e abbiamo notato come alcune definizioni di termini informatici diventassero dei punti di partenza aperti per sperimentare assieme, e alcune incomprensioni iniziavano a sparire. Il linguaggio della pratica calato nell’ambito tecnologico, visto come sequenza di passaggi da fare per compiere una determinata azione, è stato una buona mediazione per entrambe.
Sara. Riprendo ora il testimone io per altre riflessioni sulla tecnologia a partire dalla mia esperienza.
La tecnologia delle procedure
Mi soffermo brevemente sulla tecnologia, che chiamerei delle procedure (per me quelle dell’amministrazione, per altre quelle che riguardano lo Spid, cioè il Sistema pubblico di Identità Digitale, o l’utilizzo delle app come Immuni), e poi sulla tecnologia delle piattaforme di interazione, di incontro, come ad es. Zoom. Due tipi di tecnologia con cui ho dovuto sperimentarmi per lavoro e desiderio di stare in relazione con le altre/i.
All’interno dei processi improntati alla smaterializzazione, che comportano la digitalizzazione (cioè per definizione “la traduzione dei documenti materiali in una sequenza di informazioni digitali ordinate secondo precisi criteri”), in particolare faccio soprattutto riferimento ai servizi web utilizzati all’università in ambito amministrativo. Nell’utilizzarli ho sempre avvertito uno scollamento. All’interno di questi processi digitali, le procedure, cioè le sequenze di azioni da compiere, finalizzate a un determinato obiettivo, sono tutte interdipendenti. Frammenti a sé stanti di un certo processo. Questo significa che non c’è una visione orientata del processo: ogni azione non acquista significato perché anticipatrice o conseguente di un’altra in una significazione più grande. Si tratta di azioni percepite come monolitiche, chiuse in sé stesse, che si determinano e autoalimentano della loro mera efficacia, stando all’interno di quelli che vengono chiamati “gli approcci per funzione”. Porto come esempio le procedure per le richieste di acquisto. Per acquistare un bene o un servizio, tutte le operazioni da compiere avvengono su una apposita piattaforma web integrata chiamata U-GOV. Si tratta di azioni definite “elementari e non scomponibili” dal sistema. Inizio una azione, ad esempio quella che dà avvio alla richiesta di acquisto e, una volta terminata questa azione iniziale, non so come prosegue il processo. So solo che c’è un ordine logico e temporale e qualcuna dopo di me farò un altro pezzo di sequenza, con un’altra azione di cui però non conosco la natura. Porterà a sua volta a un’altra azione in una catena senza connessioni. Il processo allora viene percepito come astratto e questa astrattezza crea frustrazione e anche paura perché non si ha coscienza di ciò che succede. Come dice Maria Zambrano: “una mancanza di visione che ti fa rimanere chiusa”.
Come abitare, con la mia differenza, queste procedure, per stare a mio agio? Come pratica sono andata a conoscere di persona tutte le soggettività che facevano parte di un certo processo amministrativo per capire e vedere con loro quale era la loro azione di procedura all’interno del processo. Così la procedura cominciava a prendere corpo e senso perché sapevo quali erano le persone che continuavano quel pezzo di passaggio che io compivo in solitaria. E si creava una co-azione partecipata, che non era mediata dai manuali o da mail assertive con sterili passaggi da compiere, ma dagli sguardi, dalle parole, dalle difficoltà, dall’esserci di altri corpi. E stando alle richieste di acquisto, ho scoperto che se tutto è digitalizzato nei passaggi, quello finale no. Le richieste vengono stampate e rilegate a mano e conservate in un archivio cartaceo.
Le piattaforme come Zoom
Alcune riflessioni anche riguardo le piattaforme di interazione. Vero che c’era chi usava Skype già molto tempo prima di questa accelerazione dovuta alla pandemia. Ma, per necessità, bisogni e anche desideri diversi, in questo tempo e in modo repentino, molte di noi si sono trovate davanti a un mezzo: quello delle piattaforme di interazione. Necessità di lavoro: continuare le riunioni, organizzare eventi e convegni (io mi occupo di comunicazione a Scienze Motorie dell’università di Verona), per desiderio: gli incontri con il Teatro Popolare, una compagnia di Verona di cui faccio parte. Quest’ultimi sono stati mantenuti da remoto per un tempo lungo, perché c’era il bisogno e il desiderio di non perderci e di mantenere vive le relazioni tra noi. Ovviamente abbiamo trasformato alcune pratiche, mancando la presenza del corpo con il suo movimento nello spazio, è nato il desiderio di esserci in un altro modo: facendo ricerca e approfondendo temi che ci chiedevano voce e parole. La scrittura è stata, ad esempio, una forma preziosa per non perdere quello che stava accadendo e a cui si dava vita con creazioni e improvvisazioni.
Questo rapportarsi alle piattaforme, in ogni caso, è stato la sperimentazione di una cosa nuova con tante incognite: incognite di connettività, di linguaggio e di definizioni imposte da ogni piattaforma che ne caratterizzano preventivamente la fruibilità. Questi software hanno già una profilazione determinata. Come starci? Se pensiamo che Internet era nato come spazio aperto di condivisione, ora ci accorgiamo di discutere su piattaforme gestite da grandi imprese che stabiliscono a priori la profilazione di chi ne usufruisce. Pensiamo solo al linguaggio di alcune di esse: la differenza tra partecipanti e spettatori, la modalità di interazione chiusa o gestita dall’ospite, la manina, non più la mano, da alzare per potere prendere la parola, la chat dove spesso si crea una discussione parallela.
Occorre quindi interrogare il nostro esperirle (una scoperta accelerata, perché si implementano di funzioni diverse ogni altro giorno), mentre esse ci sperimentano. C’è una coreografia già data, come dice Traudel Sattler, in queste piattaforme? Che forma politica di incontro vogliamo dare quando creiamo o partecipiamo a un evento da remoto? E di conseguenza, nell’esserci da remoto che pratiche politiche vogliamo creare per trovare una relazionalità diversa?
Ci sono anche le piattaforme aperte, quelle che non hanno bisogno di licenze, che durano illimitatamente, il loro utilizzo è una scelta politica. L’abbiamo sperimentata con gli incontri di teatro, ma la connessione cadeva spesso. Come mai queste piattaforme non riescono ad essere fruibili?
E poi, una volta finita l’emergenza, cosa ne facciamo di questa competenza acquisita? Il sapere di cui abbiamo fatto esperienza e prova può aprire altre modalità di esserci? Saranno incontri ibridi: presenza contingentata e remoto? Queste sono tutte domande aperte che stanno dentro a un tempo dilatato. Forse come suggerisce Gianna Candolo serve una distanza in quanto è ancora troppo presto per dire cosa abbiamo perso o guadagnato, però porsi domande è interrogare le contraddizioni che viviamo per farne una leva per il pensiero. Con le differenze dei tempi vissuti. Se durante la prima clausura il tempo era un tempo di approfondimento, “un andare a fondo” come dice Luisa Muraro, ora lo vivo come intensificato. E in questa intensificazione, le parole per dire ciò che accade sono diverse; avvertendo un passaggio, sento uno scarto tra il sentire e il linguaggio. Sono alla ricerca di nuove parole per raccontare politicamente questo presente.
Abitare un linguaggio
All’inizio accennavo alla difficoltà di linguaggio tra me e mia sorella. Una difficoltà di capirsi perché l’oggetto dell’analisi è l’informatica che ha un linguaggio neutro, anzi maschile, spesso maschilista, poi c’è mia sorella che è una donna che si è formata all’università, per la maggior parte con uomini, e nella presa di coscienza della sua autorevolezza mette in gioco la sua competenza. Il linguaggio e la conoscenza tecnologica tende ad escludere le donne e la loro competenza, poi però c’è chi con cura le donne le nomina. Io nomino la relazione con mia sorella.
Inoltre, c’è l’inglese informatico che non è quello parlato. È un linguaggio specialistico, è un linguaggio codificato, fatto di glossari e chiavi. E c’è la difficoltà da parte mia di capire alcuni termini.
Francesca, come diceva, parte dalle definizioni, che io cerco di vedere come qualcosa che non mi blocca, e ricorrendo alla metonimia, mi predispongo a riscoprire questi termini in modo euristico in una contaminazione di saperi per creare uno spazio altro che non stia in contrapposizione, ma in contraddizione.
Una pratica
L’informatica, come dice Valeria Spirolazzi, ha però anche un aspetto esperienziale, è fatta di passaggi e di errori che, compiuti assieme, permettono di abitare questo spazio con un po’ di benessere. Qui gioca l’affidamento a Francesca nell’ottica dell’autorevolezza e della fiducia, in una genealogia capovolta: faccio le cose assieme a lei, vedo con lei quello che succede sullo schermo e dietro, mi appunto, anche in modo scolastico e un po’ pedissequo, ogni passo da compiere. In questo modo viene meno il senso di inadeguatezza e la paura dell’imprevisto che, come dice la mia amica Lucia Vantini, “può rivelare la vita, la qualità della nostra capacità recettiva e responsiva” anche in informatica.